martedì 29 dicembre 2015

Belgàsem ben Alì

In quei tempi ero soldato e mi trovavo a El A., in Cirenaica, a causa della guerra. Ero sempre solo. Vivevo su un furgone rimorchio sul quale era installata una stazione radiotrasmittente che era mio compito mantenere in funzione. Ero accampato a circa un chilometro dal comando. In quei paraggi c’erano alcune zeribe arabe e molti ragazzi; per far passare il tempo incominciai a parlare qualche volta con gli arabetti. Tra loro c’era anche Belgàsem ben Alì; era il più intelligente di tutti e anche il più simpatico, nonostante la sua bruttezza veramente eccezionale e le sue continue richieste di sigarette.
Un giorno gli proposi di rimanere con me a lavorare. Mi avrebbe tenuto in ordine il furgone, mi sarebbe andato a prendere da mangiare alle cucine del comando e io gli avrei dato cinque sigarette al giorno e parte della mia razione di rancio. Belgàsem accettò: volle immediatamente un anticipo di dieci sigarette e si mise ad abballinare la mia cuccetta. Poi mi andò a prendere il rancio, si trovò un barattolo per metterci la sua parte e mangiò con me.
Passarono così i giorni. Belgàsem veniva al carro di buon mattino e se ne andava solamente quando era buio. Faceva ogni cosa con cura senza che io dovessi ricordargliela. Quando non aveva niente da fare, ci mettevamo a chiacchierare. Parlavamo molto io e Belgàsem, lui specialmente era molto loquace. A volte, nel suo italiano un po’ stentato, mi parlava della sua famiglia. Diceva che suo padre aveva due mogli nella zeriba, una, vecchia, che era sua madre, e l’altra giovane, arrivata da poco.
Oppure mi parlava dei funerali musulmani, dei pianti che la gente andava a fare dietro compenso nella casa del morto, e delle tombe dei santoni, che chiamava marabùt. Quando Belgàsem toccava l’argomento dei marabùt diventava triste e si commuoveva fin quasi al pianto; ciononostante ne parlava spesso. Mi spiegava che le tombe dei santoni si distinguevano dalle altre per una piccola bandiera piantata sul cumulo di sabbia, fatta con uno straccio bianco e uno stecco, e mi raccontava dell’usanza di portarvi dei cibi in determinate ricorrenze. Io ne ridevo: gli dicevo che era una cosa stupida portare da mangiare nei cimiteri, perché i cibi sarebbero stati mangiati dai cani e non dal marabùt.. Ma Belgàsem replicava che nei cani potevano esserci le anime dei santoni.
Spesso voleva che gli parlassi delle città italiane. Teneva sempre tra le mani una vecchia cartolina che gli avevo regalata e che raffigurava un veduta notturna di una piazza di Roma illuminata a giorno. «Parlami delle luci – diceva – parlami delle luci». «Guarda la cartolina – gli rispondevo – lì c’è tutto». Ma lui non si accontentava. Voleva che gli raccontassi tante altre cose sulle luci delle strade e mi stava ad ascoltare abbandonando a se stesso il grosso labbro inferiore, che gli ricadeva penzoloni.
Dopo circa due mesi che Belgàsem era con me, ricevetti l’ordine di partire per l’interno, nell’oasi di G. Quando Belgàsem lo seppe, si accoccolò a terra e si mise a piangere. Poi si alzò risoluto e disse che sarebbe venuto con me. Gli feci osservare che era una cosa impossibile perché lui doveva rimanere nella zeriba assieme ai suoi genitori; ma non volle sentire ragioni. Mi indicò il pavimento del carro e disse che avrebbe dormito lì; poi corse a casa ad avvertire i suoi e tornò poco dopo ansimante e felice con il permesso di partire.
Il carro sobbalzò per quasi tre giorni sulla pista del deserto e finalmente arrivammo a G. Era una piccola oasi con un migliaio di palme, alcune sorgenti d’acqua e un fortino. Il mio carro venne trainato a circa quattro chilometri dal presidio, in pieno deserto. Lì mi accampai, stesi il cavo di collegamento con il fortino, alzai l’antenna e incominciai il servizio.
I giorni passavano monotoni, esasperanti. Faceva un caldo enorme in quel furgone e, a volte, quando s’alzava il ghibli, pareva quasi di non poter respirare. Ogni settimana veniva l’autobotte a rifornirci d’acqua e due volte al giorno Belgàsem andava al fortino a prendere il rancio. Era sempre del solito umore, Belgàsem. Quella vita, più che annoiarlo, lo divertiva. Quando parlava della sua zeriba non dimostrava affatto di sentirne nostalgia. Io gli chiedevo se non gli sembrasse strano stare là in mezzo, ma lui rispondeva sempre di no. Mi ripeteva: «Parlami delle luci» e mentre mi ascoltava teneva in mano la vecchia cartolina. Quando veniva la sera ci mettevamo a fumare seduti contro una ruota del carro e guardavamo in direzione dell’oasi, ma non si vedeva niente perché c’erano davanti alte dune. A notte, prima di addormentarci, continuavamo a parlare fino a tardi. Erano quasi sempre i soliti discorsi che facevamo: Belgàsem, appena poteva, parlava delle bandierine, delle tombe del marabùt e del cibo che veniva portato ai morti. Una sera mi disse che gli sarebbe piaciuto diventare un santone per avere da mangiare anche dopo morto.
Un giorno – erano quasi tre mesi che eravamo a G. – mi telefonarono dal fortino avvertendomi di prepararmi per la partenza perché una grossa colonna inglese stava puntando sul presidio e bisognava ritirarsi. Aggiunsero che quanto prima sarebbero venuti con un autocarro per agganciare il rimorchio e portarlo via. Allora ritirai il cavo telefonico, smontai l’antenna ed aspettai. Venne la notte, poi tornò il giorno senza che nessuno fosse venuto a rimorchiarmi.
Verso mezzogiorno, come al solito, mandai Belgàsem a prendere il rancio. Ritornò molto tardi; aveva i gamellini pieni di una strana e insolita pappa bianca e, nella bisaccia, delle gallette di un formato più piccolo del consueto. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, Belgàsem disse: «Nel fortino ci sono gli inglesi; ho detto che avevo fame e mi hanno dato da mangiare».
Mi misi a sedere di peso e pensai che ormai era finita. Belgàsem mangiando disse che la roba era buona e che sarebbe tornato a prenderne anche il giorno dopo. Io non parlavo; lo guardavo, era sereno e calmo come sempre. Pensavo che mi avrebbero fatto prigioniero, che non l’avrei più visto, che non gli avrei mai più parlato delle luci. Avevo una gran voglia di piangere. L’indomani Balgàsem ritornò al fortino e ancora riportò il rancio. Questo si ripeté per una settimana; io tiravo avanti così, senza decidermi a costituirmi. Poi, un mattino, quando mi alzai, trovai il ragazzo sveglio: al suo fianco, nel carro, c’erano una cassetta di scatolette di carne e una stagna d’acqua. Senza guardarmi in viso, Belgàsem disse: «Questa notte sono andato a rubare questa roba per il viaggio perché ho voglia di ritornare a casa a vedere le bandierine sulle tombe dei marabùt; adesso possiamo andar via».
Io non seppi dir nulla; mi legai alle spalle la stagna e la cassetta e partimmo in direzione nord. Avevamo davanti a noi quasi trecento chilometri di deserto. Camminammo per giorni e giorni. I piedi affondavano nella sabbia e l’acqua diventava bollente sulle spalle. Di notte ci gettavamo sfiniti a terra, mangiavamo un po’ di carne e dormivamo qualche ora; poi, ancor prima che s’alzasse il sole, riprendevamo il cammino. Belgàsem non diceva mai d’essere stanco. Ogni tanto rompeva i lunghi silenzi pregandomi di parlare delle città e delle luci che le illuminavano di notte. Io parlavo, parlavo e guardavo davanti a me, verso il nord. Ormai dovevano restare ancora poche ore di cammino, poi avremmo raggiunto la strada litoranea e saremmo stati salvi.
Ma all’improvviso Belgàsem disse che si sentiva male e si fermò. Io lo guardai in faccia e mi accorsi che sulla pelle aveva delle piccole eruzioni rosse. Gli posai una mano sulla fronte e sentii che scottava. Allora, per la prima volta da quand’ero in guerra, mi prese la paura; una paura violenta che mi faceva tremare le gambe. Cercai di dire a me stesso e a lui che non era niente, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quei punti rossi che Belgàsem aveva sulla faccia. Pensavo: adesso mi muore qui in mezzo e io non posso far niente per salvarlo, non posso far niente. Belgàsem si passò una mano davanti agli occhi e cadde di schianto sulla sabbia. Aveva perduto conoscenza. A tratti era percorso da brividi e batteva i denti. Io gli passavo un fazzoletto bagnato sulle labbra e gli facevo ombra con il mio corpo. Quando fu notte, col fresco, riprese i sensi. Aveva sempre la febbre altissima. Provai ad alzarlo, ma non si reggeva in piedi. Allora abbandonai l’acqua e le scatolette e lo caricai sulle mie spalle.
Continuai il cammino così. Ogni tanto mi fermavo per assestare il suo corpo rilassato e cascante, poi riprendevo a camminare. Sentivo che le mie forze a poco a poco se ne andavano, ma volevo assolutamente arrivare sulla strada.
Ci arrivammo all’alba; ero sfinito. Belgàsem vaneggiava, parlava in arabo e io non capivo che cosa dicesse. Passò un camion dei nostri che andava verso El A. Vi caricai il ragazzo e un’ora dopo eravamo alla sua zeriba. Andai al comando, trovai un medico e lo accompagnai da Belgàsem. Ma non c’era più niente da fare: si trattava di tifo esantematico. Il medico mi costrinse a venir via per evitare il contagio. Belgàsem morì nel pomeriggio.
Quando fu sera mi avvicinai, non visto, alla zeriba. Si udivano i pianti della gente che era andata a piangere dietro compenso. Mi sedetti sotto una palma e pensai alle luci delle nostre città; non ero capace di pensare ad altro.
Il giorno dopo fecero i funerali. Quando la gente lasciò il cimitero andai sulla tomba di Belgàsem e piantai nella sabbia una piccola bandiera fatta con uno stecco e uno straccio bianco. E per tutto il tempo che rimasi presso il comando di El A. portai, di notte, parte del mio rancio sulla sua tomba.
C’erano sempre dei cani nel cimitero e il rancio lo mangiavano loro. Ma nei cani poteva esserci l’anima di Belgàsem ben Alì.


sabato 19 dicembre 2015

Derubare se stessi

Aspettammo la notte buona. Una notte di marzo, un sabato. Il sabato era la giornata migliore per l'afflusso alla discoteca: venivano giovani da tutti i paesi della zona, anche da cinquanta chilometri di distanza; il vasto piazzale del parcheggio era gremito già dalle dieci di sera e poi le macchine che ancora sopraggiungevano si accodavano ai lati della strada. Tanta gente dentro e tanti soldi in cassa. Una notte buona anche perché era molto buia e pioveva a dirotto: l'acqua veniva a scrosci e il vento ci faceva da complice confondendo i nostri rumori con i suoi gemiti. Era stata difficile la scelta dell'ora: le quattro e mezzo. Non si poteva andare prima perché la discoteca aveva chiuso alle tre e bisognava dar tempo a Bernardino di addormentarsi; e non si poteva andare più tardi per non essere sorpresi dai primi chiarori dell'alba. Bernardino era il padrone della discoteca: padrone, gestore, dirigeva e stava alla cassa, faceva tutto lui e alla fine i soldi se li portava in casa. Li chiudeva in un cassetto della scrivania dello studio, al primo piano, sul retro della casa, mentre lui dormiva con la moglie, giù, al pianterreno, sul davanti. Era una cosa facile, sarebbe andata sicuramente a gonfie vele.
L'idea l'aveva avuta Cosimo; gli era venuta un giorno che era salito allo studio per farsi pagare un lavoro fatto all'impianto elettrico della discoteca.
«Bernardino tiene i soldi nel cassetto di centro della scrivania» mi aveva detto poi, con occhi lucidi di cupidigia, «divisi in pacchetti legati con elastici: pacchetti da centomila, da cinquantamila, da diecimila. Tanti. Ma come mai non mi è venuto in mente prima: già tante volte sono andato là a farmi pagare e ho sempre visto la medesima scena». La descrizione era efficace: mi pareva di vedere tutti questi pacchetti allineati dentro al cassetto, con i colori diversi.
«Come si fa ad arrivarci?» gli avevo chiesto io deglutendo per l'emozione. Aveva fatto un gesto secco con la mano a significare che era una cosa da niente.
«A casa ho tanti grimaldelli da aprire le porte del paradiso. Non dobbiamo avere paura di una finestra e di un cassetto». E poi aveva spiegato che bisognava scegliere una notte buia, magari di pioggia, e l'ora giusta.
Quella notte dunque venne ed era riempita di frastuoni da un temporale che sembrava studiato apposta per noi. La villa di Bernardino era a cento metri dalla discoteca ed entrambe erano isolate, vicino a una strada di scarso traffico, e circondate dalla campagna. Per arrivarci dovevamo attraversare i campi. E così facemmo. Raggiungemmo la cascina più prossima e lì rubammo una lunga scala che era sotto un porticato. Ce la caricammo in spalla prendendola alle due estremità, lui davanti e io dietro. Era tanto buio che non riuscivo a distinguere Cosimo, sentivo solo il frusciare dei suoi passi sull'erba e capivo quando stava varcando un fosso o risalendo una proda dal movimento che faceva la scala sulla mia spalla. La pioggia veniva a raffiche e, a tratti, me la sentivo andar giù per il collo, dietro la nuca; rabbrividivo, ma pensavo ai soldi di Bernardino, nel cassetto della scrivania, divisi in tanti pacchetti.
A pochi passi dalla villa ci fermammo ad ascoltare. Da una grondaia, probabilmente otturata, l'acqua cadeva a terra con un fracasso disordinato; gli alberi, tutt'attorno, sembravano bestie smaniose e sbuffanti. Posammo la scala e ci accostammo per gli ultimi accordi. Cosimo sarebbe andato su per primo per alzare il chiavistello delle imposte e il catenaccio della finestra a vetri; poi, una volta entrato lui, sarei salito anch'io a fargli luce con la lampada a pila mentre forzava la serratura della scrivania. Mi sentivo i panni fradici sulle spalle, chissà cosa avrebbe detto mia moglie l'indomani mattina scoprendo che i miei abiti erano inzuppati; immaginavo già i suoi commenti: «Hai giocato a carte tutta la notte in mezzo alla strada?» Adesso l'importante era andare avanti e salire nello studio di Bernardino.
Facemmo tutto come avevamo progettato, con calma, cercando di non fare rumore. Le imposte si aprirono in pochi secondi e cigolarono lievemente; la finestra resistette più a lungo ai ferri, infine si aprì anch'essa. Cosimo fece schioccare due dita per segnalarmi che entrava, e infatti sentii la scala alleggerirsi del suo peso. Allora andai su anch'io. Come fui dentro riaccostai con cautela gli scuri e accesi la lampadina tascabile. La scrivania era in un angolo dello studio, volta verso il centro, con la sedia contro il muro. Cosimo sedette e incominciò a lavorare con un grimaldello, la cui punta terminava a becco. Muoveva la mano con una delicatezza che mi pareva impossibile in lui, grande e massiccio; sembrava che stesse operando su qualcosa di vivo e che dai suoi gesti dipendesse la vita o la morte. Io mi figuravo che il cassetto si aprisse e nel cassetto ci fossero i pacchetti dei soldi allineati. Pensavo ai soldi, ma pensavo anche a Bernardino, mi voltavo ogni tanto a fissare il buio dalla parte della porta. Se fosse entrato all'improvviso non avremmo fatto in tempo a guadagnare la scala tutti e due, uno sarebbe rimasto bloccato. Allora tenevo d'occhio oltre alla porta anche la finestra; il cassetto, la porta e la finestra e ancora il cassetto, la porta e la finestra.
«Ma fai luce a modo» sibilò Cosimo correggendomi la posizione della mano per centrare la luce sul buco della serratura. Lavorò ancora per qualche minuto poi, finalmente, si udì uno scatto e il cassetto si aprì. Vedemmo delle carte bianche e gialle, che sembravano fatture, ma subito le scostammo, le buttammo a terra per fare largo e vederci chiaro. E infatti sotto le carte c'erano i soldi, proprio come Cosimo li aveva descritti: pacchetti da centomila, da cinquantamila, da diecimila, da mille. Li vidi solo per un momento tanto fu svelto Cosimo a piantarci le mani sopra e a infilarseli in tasca. Feci appena in tempo ad agguantare un paio di pacchetti da cinquantamila.
«Poi si faranno i conti» disse Cosimo, e intanto continuava a rimuovere carte per vedere se sotto si nascondessero altri pacchetti. «Non c'è più niente» disse, «vieni che andiamo».
«Ancora un momento» dissi e allungavo la mano in fondo al cassetto. Non mi sapevo rassegnare a scendere senza avere in tasca anch'io almeno un paio di pacchetti da centomila come aveva Cosimo. Non che avessi paura di irregolarità nella divisione, ma mi sembrava di essere da meno a non riuscire ad agguantare quanto aveva beccato lui.
Un pacchetto lo sentii, in fondo, a destra, legato con un elastico, come quello dei soldi.
«Non fare il fesso» disse ancora Cosimo, mentre già stava presso la finestra, «vieni, io scappo».
«Vai, vai» dissi, «ti seguo subito». Scavalcò il davanzale e io, adagio, quasi volessi assaporare la scoperta di altri denari, tirai fuori il pacchetto. Non potei fare a meno di dare in una imprecazione: non erano soldi, erano fogli di lettere, piegati in quattro e tenuti insieme dall'elastico. La calligrafia era grande, pesante, mi sembrava di averla già vista. Alzai il braccio e ricacciai giù, nel cassetto, con rabbia, il plico. Ma intanto lessi: "...perché lui va ad Abano, ai fanghi". Era una riga della prima lettera del pacchetto. Anch'io ero stato ad Abano, ai fanghi, nel mese di ottobre. "Chi sarà che è andato ai fanghi come me?" pensai e sfilai il foglio da sotto l'elastico per leggere più oltre: "e così potremo vederci comodamente a casa mia, senza tante paure" continuava lo scritto. "Dovrai solo stare attento che non ti vedano quelli della Ca' Bianca". Ma la Ca' Bianca era attigua a casa mia. "Per Dio" pensai, "cosa dice questa lettera?"; e mi figurai Bernardino che avanzava furtivamente verso casa mia, attento che non lo vedessero quelli della Ca' Bianca.
Mi tremavano le mani. La lampadina mi cadde dentro al cassetto, abbagliò di luce il plico, ingigantì le parole della lettera che stava in cima: "...a venerdì notte. Ti bacio tanto, tua Ilde". Sentii una vampata di calore salirmi al viso e le gambe vacillarmi. Sedetti sulla sedia. Ilde era mia moglie. Si chiamava Clotilde, e nessuno l'aveva mai chiamata Ilde, eppure ero sicuro che era lei, perché lo capivo dalla calligrafia e poi dalle altre cose, i fanghi di Abano e la Ca' Bianca. Sentii venire dai campi un fischio sottile, lungo, delicato. Era Cosimo che mi aspettava. Certo era arrabbiato perché tardavo e rischiavo di farmi sorprendere. Ma non mi importava niente di correre pericolo. Non avevo più paura di Bernardino. Guardavo la porta e mi pareva che se fosse entrato in quel momento l'avrei affrontato a voce alta, mostrandogli il pacchetto delle lettere. Con le mani sempre più tremanti tirai via l'elastico, aprii i fogli, incominciai a scorrerli fugacemente e con orgasmo.
Era proprio la Clotilde quella che scriveva, non ci potevano essere dubbi, era un anno che aveva una relazione con Bernardino. Gli scriveva le lettere quando non si potevano mettere d'accordo a voce, o anche solo per dirgli che gli voleva tanto bene e che senza di lui non sapeva come fare. Non c'erano le buste, quindi non sapevo dove gliele indirizzava, certo non a casa dove avrebbe potuto vederle sua moglie. Comunque, in una maniera o nell'altra gliele faceva avere e gli diceva tutte quelle smancerie che a me erano anni che non diceva più. Mi sentivo le gambe vuote, sempre più vuote. Pensavo a tutto quel tempo che avevo trascorso a fianco di Clotilde mentre lei amava il proprietario della discoteca. Pensavo alla sua perversità e alla mia ingenuità, alla mia pace perduta. Avrei voluto non essere mai venuto a rubare, non avere trovato il plico delle lettere, non avere distrutto con le mie mani la mia fiducia. Non avevo derubato lui, avevo derubato me. Ma ormai era fatta, non c'erano più rimedi. Dovevo per forza portare in me quel tormento.
Mi infilai in tasca il plico delle lettere, spensi la lampadina, mi avviai alla finestra, scavalcai il davanzale e incominciai a scendere. Mi incamminai lentamente per i campi, sotto la pioggia sferzante, senza paura. Non mi importava niente se Cosimo, ormai lontano, aveva in tasca i pacchetti da centomila e ne faceva sparire una parte per derubarmi nella spartizione. Sentivo nella tasca il grosso pacco delle lettere e pensavo a quelle. Era un furto doloroso, ma prima o poi, in un modo o nell'altro, dovevo pur conoscere la realtà, era mia, mi perveniva, dovevo accettarla anche se mi costava tutto quello che avevo dentro al petto: un'angoscia che mi pareva si identificasse con la notte che mi stava intorno e le rabbiose folate del vento, gli schianti della pioggia, l'arruffato lamento degli alberi.

lunedì 7 dicembre 2015

Malinconia



Ora che sei lontana
tutte le cose
sono fredde
e dure
come il metallo.
E le voci e i colori
faticosamente arrivano
ai miei sensi.
Solo la civetta
riesce
a farsi strada
al mio orecchio.
E sento che il grido
è tetro
come un buio d'agguato
ora che sei lontana.


(1947)

domenica 29 novembre 2015

Paura

Si levò il vento. Folate correvano per i corridoi, sopra di me, percuotevano porte e imposte, popolavano di fantasmi tutta la casa. Tra una folata e l'altra c'era il battito della pioggia, fitta, continua e, sull'aia, un grondare fragoroso. Fuori c'era la notte, buia, distesa sui campi e sui boschi deserti, senza uomini e senza case.
Ero solo. Stavo seduto su una sedia, contro una parete dell'ingresso che era uno stanzone vasto, ingombro di tante cose sulle quali pioveva la luce fioca e rossastra di una lampadina attaccata al soffitto: una cassapanca, una distesa di patate e di mele, un barroccino con le stanghe a terra, tre sacchi allineati lungo il muro che avevo di fronte e, dalla mia parte, appesi a chiodi, dei finimenti da cavallo. In fondo c'era la scala, a sinistra c'era la porta della cucina, a destra quella della cantina. Ascoltavo il vento e la pioggia, i cigolii delle imposte e fissavo la porta della cantina, non sapevo staccare gli occhi da quella parte.
In cantina c'era il morto: stava appeso a una corda che scendeva dal trave centrale, di fianco al filo della lampadina, impiccato. La luce gli batteva proprio sulla testa, faceva una grande ombra circolare sul pavimento. Nel pomeriggio non avrei mai immaginato di trascorrere una notte simile. Eravamo partiti dalla caserma, il maresciallo e io, con la camionetta per andare a una casa che era al confine del comune, quasi alla sommità del monte. Dovevamo portare, a una delle famiglie che vi risiedevano, una citazione del tribunale. Lasciata la camionetta nella cascina Marcantoni, avremmo proseguito a piedi per la mulattiera.
Era appunto la cascina Marcantoni quella nella quale mi trovavo. Al nostro arrivo avevamo cercato il padrone, volevamo soltanto dirgli che lasciavamo l'automezzo davanti a casa sua perché proseguivamo a piedi. Lo avevamo chiamato a gran voce, inutilmente. La porta era aperta e il maresciallo era entrato spingendosi fino in cantina. Ma come aveva messo dentro la testa era rimasto allibito: Michele Marcantoni si era impiccato. Doveva essere successo pochi minuti prima perché il corpo dondolava ancora leggermente ed era caldo. Ma era morto, senza alcun dubbio: la lingua penzoloni fuori dalla bocca, gli occhi aperti, sbarrati. Un'immagine terribile. Non c'era però da meravigliarsi di quel fatto: Marcantoni era sempre stato un po' matto, quelle rare volte che scendeva in paese dava fastidio a qualcuno con le sue pretese assurde e i suoi discorsi stravaganti.
Nella cascina eravamo rimasti incerti, il maresciallo e io, sul da farsi. se staccare il corpo dalla corda o aspettare che lo vedesse il pretore. Una cosa era certa, bisognava andare a chiamare il pretore, il quale però sarebbe venuto su l'indomani mattina perché ormai il pomeriggio era avanzato e non c'era più tempo per un sopralluogo del genere. La decisione era stata quella che temevo. «Appuntato» mi aveva detto il maresciallo con aria dispiaciuta, «c'è poco fare: io devo tornare indietro e tu devi rimanere qui. La casa è aperta, non possiamo lasciarla incustodita con un suicida dentro. Mi spiace, ma dovrai passarci la notte».
Era venuta la sera, io avevo acceso le luci nell'ingresso e nella cantina, avevo chiuso le porte, mi ero seduto su una sedia. Sul tardi si era messo a piovere: il grondare dell'acqua nell'aia era la cosa più viva in quella solitudine. Ma poi s'era levato il vento e tutte le cose parevano essersi animate. Io stavo sempre più fermo sulla mia sedia, con le orecchie tese a tutti i rumori e ad ognuno di essi la mia fantasia dava un'immagine: un'imposta che sbatteva, una pianta che si curvava, un bastone che rotolava. E gli occhi, anche se fissavano le mele stese sul pavimento a fianco della scala che saliva al piano di sopra o i sacchi appoggiati alla parete, vedevano l'uomo impiccato con il suo sguardo sbarrato, la lingua pendente, l'ombra nera sul pavimento.
Pensavo che avrei fatto bene a andare al piano di sopra a fermare le imposte, almeno avrei eliminato quegli sbattimenti secchi che ogni volta mi si ripercuotevano dentro, ma non mi decidevo a muovermi. Nel pomeriggio, dopo che avevamo scoperto il cadavere, il maresciallo aveva perlustrato la casa, era andato anche su, io no. Non sapevo quindi come erano disposte le stanze, dove erano gli interruttori della luce. Non mi decidevo a staccarmi dalla sedia.
All'improvviso venne a mancare la corrente. Il mio cuore accelerò il battito, leggermente, per una istintiva reazione a quel fatto nuovo. Ma mi rendevo conto della normalità di quell'interruzione: il vento da qualche parte doveva aver fatto precipitare una linea elettrica. Capitava spesso, durante i temporali: la luce mancava, a volte per molte ore; altre volte, se il guasto dipendeva dalla centrale, tornava dopo pochi minuti.
Restavo immobile sulla sedia, le mani aperte sulle ginocchia. Ora, con il buio, i rumori mi parevano più intensi, più nitidi; era come se non vi fossero più porte né muri, come se l'acqua cadesse dalla grondaia al mio fianco, la pioggia battesse intorno a me, le imposte sbattessero sopra la mia testa, sospese nel vuoto. Pensai di accendere un fiammifero, ma immaginai le cose che mi stavano davanti alla pallida, tremolante fiammella, con ombre lunghe e nere, e non mossi le mani. Del resto il fiammifero si sarebbe spento dopo pochi attimi, non avrei fatto in tempo a trovare una candela; chissà dov'era una candela in quella casa, forse nelle stanze, di sopra, dove il vento correva per i corridoi.
D'un tratto udii un tonfo nella cantina. Dalla testa mi partì un'ondata di gelo che mi pervase tutto. Rimasi immobile, trattenendo a lungo il respiro. Non v'erano dubbi su quello che poteva essere successo: la corda s'era spezzata e il corpo era precipitato a terra. Mi sarei dovuto alzare, avrei dovuto accendere un fiammifero, aprire la porta, andare a vedere; ma non mi decidevo a farlo. L'ondata di gelo attraversandomi il corpo mi aveva lasciato un leggero tremito. «Avanti» dicevo a me stesso, «àlzati, sei un carabiniere, sei un appuntato». Ma continuavo a stare seduto. Pensavo che non c'era fretta, sarei potuto andare di là quando fosse tornata la luce o addirittura all'alba.
Nel mezzo di un sibilo del vento mi parve di udire, proveniente sempre dalla cantina, una voce, come un lamento. Mi sentii di nuovo e bruscamente pervadere dal ghiaccio. Il vento tacque e io distintamente udii venire dalla cantina una parola di invocazione: «pietà». Mi sentii scuotere dal tremito. Chiusi gli occhi, in abbandono, cercavo di dirmi che dovevo aver capito male, che non poteva essere stata una voce, ma nello stesso tempo avevo la certezza di non essermi sbagliato. Le forze mi lasciavano, ero soltanto in preda al tremito.
«Pietà» tornò a dire la voce di là dalla porta, «pietà, appuntato». Le mani mi stringevano le ginocchia come fossero una morsa, non riuscivo a controllare quella mia forza insensata. Cosa stava dunque accadendo nella cantina? Il contadino era caduto a terra e adesso implorava aiuto, rivolgendosi direttamente a me, sapeva anche che c'ero io nell'ingresso. Eppure lui era morto, non c'era nessun dubbio che fosse morto, il maresciallo ne era certo, tanto che non aveva esitato a lasciarlo impiccato com'era, in attesa del sopralluogo del pretore.
«Appuntato» tornò a dire la voce. Io scattai in piedi trovando la forza della disperazione, cercai di dire una parola, non so quale, ma le mie labbra non seppero emettere altro che un gemito. Frugai in un taschino, ne tolsi la scatola dei fiammiferi, ne accesi uno, ma la capocchia schizzò via; ne accesi un altro.
«Oh, Dio» sentii gemere dall'altra parte. Spalancai la porta con gesto risoluto, non sapevo immaginare che cosa avrei trovato; forse senza rendermene conto pensavo di trovare il contadino a terra, ancora in vita, gemente.
Come la porta si aprì mi apparve davanti per un attimo, nella luce del fiammifero che subito si spense, un uomo alto e magro, con occhi sbarrati, la bocca semiaperta. Lanciai un grido, indietreggiai, mi girai. Ora non mi controllavo più. Al buio mi precipitai verso la porta che dava all'esterno, ne cercai affannosamente il catenaccio, lo tirai, aprii, balzai fuori, mi misi a correre. Correvo per il viottolo che andava alla strada. Sentivo dietro di me l'uomo gridare. A un tratto intesi che diceva:
«Appuntato, sono Gelsomino». Riuscii a dominarmi, rallentai. Gelsomino era uno del paese, un ladro, lo conoscevo bene. Ripensai alla sua faccia illuminata dalla luce del fiammifero: poteva essere davvero quella di Gelsomino. Mi fermai, mi appoggiai a un castagno.
L'uomo mi fu subito vicino, si aggrappò a un mio braccio. Era proprio Gelsomino. Piangeva e tremava.
«Appuntato» disse, «credevo di morire dallo spavento. Una cosa così non mi era mai capitata». Fece una pausa per prendere fiato, poi continuò: «Sono andato in casa di Michele per rubare, ma poi lui è rientrato dai campi e io mi son dovuto rifugiare in cantina, dietro una botte. E proprio in cantina è venuto a impiccarsi: sentivo il suo tramestìo, credevo che lavorasse, poi non ho più udito niente, ho tirato fuori la testa e l'ho visto appeso, morto. Mentre stavo per fuggire ho sentito arrivare la camionetta e poi voi entrare, allora sono tornato a nascondermi dietro la botte. Sapendo che lei era lì nella loggia dell'ingresso mi ero rassegnato a passare la notte così, con la speranza di riuscire a scappare domattina. Poi, quando la corda s'è rotta e il morto è caduto, non sono più stato capace di resistere, Dio che spavento!»
Gelsomino continuava a tenermi stretto il braccio sinistro. Io stavo appoggiato all'albero con gli occhi fissi verso la casa che non si vedeva. C'era solo un gran buio intorno a noi. Sopra le nostre teste il vento frugava fra i ricci del castagno, la pioggia ci sferzava il viso. Com'era ancora lontana l'alba!




lunedì 23 novembre 2015

Mendicanti


A volte
quando fa freddo e viene la notte
mi sento mendicante.
E allora col pensiero
vado per le vie deserte
cercando un cane per compagno
e un uomo
per chiedergli la strada del ricovero.

Mi piace pensare
di non trovare nessuno
e di camminare
sui marciapiedi vuoti
per ore e ore
battendo i denti
e sognando un cibo
che non sia un avanzo.

Anche se sono
nel caldo del letto
continuo a vagare
per la città desolata
e sento il freddo
e la fame e il sonno.

Soffro
per i fratelli mendicanti
un poco delle loro pene
perché l’alba

non tardi a venire.

(1945)

lunedì 16 novembre 2015

Due sessualità


    Nella mia lontana prima giovinezza, a undici o dodici anni. Ero in treno con due cugine, loro già adulte. Un viaggio breve, tra due stazioni, ma scomodo. Stavamo in piedi sulla piattaforma davanti alla porta, stretti stretti; se fosse stato necessario soffiarsi il naso sarebbe stato un problema far risalire una mano. Dalle cugine ero staccato di alcuni metri, cioè tante persone. Con la schiena appoggiata alla parete, in certi scossoni il mio naso andava a strusciare contro la catena dell’orologio da taschino dell’uomo che mi stava davanti. A un tratto mi sono sentito frugare come mi volessero derubare.
    Non le vedevo ma erano sicuramente le mani del possessore della catena. Ho detto, con il viso rivolto in alto: «Qui ci sono io». Qualche minuto dopo il fatto si è ripetuto. Sono riuscito ad afferrare la mano che armeggiava, ma non a trattenerla. Ero in preda a rabbia e paura al tempo stesso ma per fortuna si incominciò a sentire lo stridore dei freni, il treno stava fermandosi. Scendemmo.
    Raccontai subito alle cugine la cosa, per me inspiegabile, che mi era successa. «Proprio non lo sai?» No, non lo sapevo; fu in quella occasione che imparai l'esistenza di uomini che provano attrazione verso persone dello stesso sesso.

domenica 8 novembre 2015

Barbagia

1972. Era un tempo di continui sequestri di persona a scopo di estorsione e di sanguinose faide tra famiglie. Le carceri della Sardegna non erano mai state così affollate e le campagne mai così frequentate da tanti latitanti, anche ergastolani. In un paese, negli ultimi venti anni erano state uccise trenta persone. Ci sono cimiteri nei quali la frase “tragica morte” si legge sul novanta per cento delle lapidi; c’è chi è stato ucciso dopo venti anni dal dissidio, quando ormai non si aspettava più la vendetta. Inoltre capita che la vendetta possa abbattersi non su chi è stato la causa dell’odio ma su altre persone del clan, familiari, cognati, cugini.
Nell’ultimo scorcio dell’anno avevo dedicato una serie di articoli alle donne dei banditi. Mi sovviene di Gabriela che aspetta il fidanzato condannato a vent’anni di reclusione. Si erano fidanzati nel ’63, lei a vent’anni, lui a 24. Poco dopo l’avevano cercato per una rapina e lui si era dato alla latitanza. Quello l’inizio dei guai. Dentro 29 mesi senza processo; poi libero, ma quando stanno per preparare le nozze, nell’aprile ’67, va di nuovo in carcere, accusato di un sequestro di persona. Da allora non è più uscito.
Chiedo a Gabriela se il fidanzato ha fratelli. «Sì, tre». Chiedo se vanno a trovarlo. «Ma due sono dentro, condannati a trent’anni per sequestro di persona». Parlando ancora scopro che anche il terzo fratello, il più giovane, è da poco incarcerato, anche lui per sequestro di persona. «Ma è innocente, come gli altri» dice la ragazza». Di tutti abbiamo le prove dell’innocenza, ma non ci credono perché siamo parenti».

domenica 1 novembre 2015

Le certezze del domani

Giravo per la Riviera in cerca di appartamenti e ville in vendita. Lavoravo per conto di una società che acquistava immobili nelle località turistiche per rivenderli poi ai ricchi stanchi di far quattrini in città o tormentati dai reumatismi, che andavano cercando la primavera anche d'inverno. Il mio compito era quello di segnalare alla società non solo gli stabili che venivano spontaneamente offerti sul mercato, ma anche – anzi, specialmente – quelli per i quali v'erano nascoste prospettive di vendita. L'esperienza dimostrava che, proprio quando i proprietari erano ancor lontani dalla decisione di alienare i loro beni, c'erano maggiori probabilità di successo e di guadagno. Io scrivevo o telefonavo in sede i risultati delle mie indagini e subito entravano in azione altri funzionari che incominciavano i sondaggi e gli approcci per le prime offerte.
A L., il proprietario del bar dove mi ero fermato e, senza fretta, avevo attaccato discorso, mi indicò una villetta in una piccola insenatura, tra la strada e il mare. Il terreno digradava dolcemente verso gli scogli; rispetto ai pendii aspri e ripidi che erano a monte della litoranea, quell'area, verde di olivi, di timi e di lauri, sembrava godere di un premio. Era mollemente distesa nel caldo sole di marzo e su di essa il profumo degli arbusti aleggiava, si alternava al pizzico salmastro portato dall'aria assieme al ritmico battito dell'onda contro gli scogli vicini, ma pure invisibili oltre le macchie della vegetazione. Una strada bianca di polvere, delimitata col pastello verde cupo di due siepi di bosso, ornava con le sue volute quel pezzetto di terra.
La villa era rosa, d'un rosa pallido e tenero come era pallido e tenero il verde degli ulivi. Aveva un balcone d'angolo con il parapetto guarnito di fiori. A mano a mano che scendevo con l'automobile per la stradetta bianca la villa mi precisava i suoi contorni, le sue proporzioni, il colore dei suoi fiori. Non sarebbe stato certo difficile venderla, così quieta com'era, assisa davanti al mare. Ma prima doveva essere comperata.
Quando fui quasi di fronte alla costruzione vidi una donna uscire dal cancelletto ed avviarsi nella direzione opposta alla mia. Rallentai, fermai la macchina al suo fianco, salutai con la mano fuori dal finestrino. «Scusi, signora» chiesi, «mi sa dire chi abita qui?» La donna aveva una cinquantina d'anni, era magra, priva di due denti incisivi, con i capelli grigi, un vestitino nero a bolli bianchi che poteva anche essere un grembiule da lavoro. Si chinò per abbassare la testa all'altezza del finestrino, posò una mano sul bordo del vetro. «Il cavalier Timoteo Rebecchi» rispose e, dopo un attimo di sospensione, chiese: «Cosa vuole da lui?» Dissi che mi interessava sapere se la villa era in vendita. «Non adesso» s'affrettò a dire la donna. Lo disse con voce sommessa, come se avesse paura d'essere sentita. «Quando?» chiesi io. La donna sollevò la mano dal vetro, la tenne a mezz'aria in un atteggiamento interrogativo. «Non so» disse; poi: «forse fra due mesi, un mese».
Non capivo. Soprattutto non capivo quell'aria di mistero che era più nella sua voce che nelle sue parole. «E perché non adesso?» domandai. «Perché lui è malato, è molto malato. Io lo so. Sono al suo servizio da quando avevo dieci anni: lo so che non c'è più speranza». «Posso chiedergli se vende?» domandai. «No, no, non è possibile. Se andassi al suo capezzale per dirgli che c'è gente che vuole comperare la villa, immaginerebbe la gravità della situazione, intuirebbe d'essere vicino alla fine».
«Allora» dissi, «come devo fare per sapere se la villa si può comperare?» La donna distese l'avambraccio sul bordo del finestrino, si curvò maggiormente, venne con il suo viso a un palmo dal mio, tacque un momento poi parlò ancora sommessamente: «Ritorni tra due mesi». Rimasi in silenzio. Mi aveva colpito la sicurezza con la quale la donna aveva fissato quel termine. «Che cosa ha» chiesi, «male di cuore?» La donna si sollevò per fare un gesto con il braccio: «Magari fosse male di cuore! È un brutto male, un brutto male» ripeté con la desolazione che si prova davanti a una condanna inappellabile.
Nel riquadro del finestrino vedevo la donna e a fianco di lei vedevo parte della villa, con le imposte socchiuse, i fiori vivaci sul balconcino, e dietro la chiazza rosa della villa il nero della montagna che s'alzava al di là della strada litoranea e l'azzurro del cielo. Il padrone era grave, stava per morire, secondo quanto affermava la donna, ma io in quel momento non pensavo tanto a lui quanto alla villa, all'affare che la villa rappresentava, alle parole che avrei adoperato per annunciare al mio direttore il possibile acquisto.
«Tra due mesi» dissi alla donna seguendo un subitaneo pensiero «chissà chi trovo qui dentro». Lei atteggiò il viso a un misurato sorriso o a una espressione composta di tranquillità e di soddisfazione insieme. Disse: «Non si preoccupi: ci sarò io, qui. Il cavaliere non ha altri all'infuori di me, io gli ho dedicato tutta la vita e lui ha lasciato una carta a mio favore. Ci sarò io». Non mi decidevo a ripartire. Continuavo a guardare oltre le spalle della donna la macchia rosa della casa e l'azzurro del cielo, poi guardavo gli occhi di lei. «Non abbia paura» disse ancora la donna. «Vada tranquillo, non sarà venduta prima. Ripassi fra un paio di mesi, magari fra un mese e mezzo». Avviai il motore e lei mi sorrise, mi salutò con un cenno della mano che pareva quasi un'intesa.
Continuai a girare nella zona per qualche giorno, poi cambiai località, mi spinsi più a ponente, vicino alla frontiera. Ma per poco tempo, perché una sera rientrai in albergo con la febbre alta. Era un attacco di orticaria e si protrasse per una settimana. Alla fine, quando credevo di poter riprendere il lavoro, fui colpito da una colica renale che mi sfibrò. Avevo bisogno di riposo e lo dissi per telefono al mio direttore. Lui mi invitò ad andarmene a casa e a rimanerci tranquillo per una quindicina di giorni. Quando mi ripresentai in ufficio trovai una novità: ero destinato in montagna, sulle Alpi trentine.
Ripresi là il mio lavoro. A volte facevo lunghe camminate per raggiungere case o ville isolate: l'aria e il moto mi ritempravano la salute. Finivo di visitare una borgata, mi spostavo di qualche centinaio di metri e dietro una curva della strada spuntava un altro paese. Ricominciavo da capo. Così i giorni passavano e l'estate avanzava. Una sera, mentre cercavo sonno, mi sovvenne della villetta rosa in riva al mare. Ebbi la sensazione di essermi lasciata sfuggire un'occasione e mi chiesi come mai non mi ero ricordato prima di quell'affare.
Con il pensiero riandai a quella vista, cercai di localizzarla nel tempo e vi riuscii facendo riferimento al periodo in cui ero stato ammalato: erano passati due mesi e mezzo. Certo il cavalier Timoteo Rebecchi aveva finito di soffrire. Ricordavo la domestica mentre diceva: «È un brutto male, è un brutto male»; si capiva da quelle parole che la fine sarebbe stata imminente. Avrei voluto essere con un balzo in Riviera, scendere la stradetta bianca fra le siepi di bosso.
Impensatamente, dieci giorni dopo mi fecero rientrare in sede. Ne approfittai per parlare della villetta rosa al direttore. Ottenni l’incarico di partire per L. L'indomani mattina, verso mezzogiorno, ero in vista della insenatura davanti alla quale si stendeva il terreno verde di ulivi, di timi e di lauri. Imboccavo la strada bianca, scendevo verso il mare, vedevo la villa stagliata sotto il sole. Fermai la macchina, scesi, passai il cancelletto, che era aperto; suonai alla porta. Trascorse un minuto, che fu lungo; pensavo già che non ci fosse nessuno: morto il padrone, allontanata la domestica.
Improvvisamente e in silenzio la porta si aprì: mi comparve davanti un vecchio piccolo, con il pizzo bianco, la zazzera sul colletto della giacca da camera. Gli diedi il buongiorno poi rimasi impacciato. Finalmente chiesi del cavalier Timoteo Rebecchi. «Sono io» disse il vecchio e mi fece entrare. Io deglutii, lo ringraziai. Ci sedemmo in un salotto in penombra. «Sono venuto» dissi, cercando di parlare con calma e chiarezza, «a vedere se lei è disposto a vendere la sua villa». Il vecchio mi lasciò spiegare chi ero e per conto di quale società parlavo.
«Lei è venuto in un momento propizio» disse poi. «Proprio in questi giorni stavo pensando all'opportunità di trasferirmi in albergo. Io sono solo, esco adesso da una lunga malattia e per giunta sono rimasto anche senza domestica». «Come mai?» chiesi io, senza avvedermi di interromperlo. «Poveretta» disse il vecchio, «se n'è andata improvvisamente due mesi fa, una sera, mentre era seduta a fianco del mio letto a tenermi compagnia. Ha fatto una smorfia e si è accasciata in avanti: il cuore... Adesso, così solo, in questa casa troppo grande per me, non mi ci trovo più. Ho pensato di andare in albergo dove ci sia personale di servizio e movimento, gente con cui stare in compagnia. Posso prendere in esame la sua proposta».

martedì 27 ottobre 2015

Nell'anniversario della scomparsa di Remo Lugli

Verso la fine di Luglio, mi pare. Eri alla tua scrivania, seduto in carrozzina. Avevi ancora meno di tre mesi davanti a te.
Stavo per andare a un appuntamento di lavoro; prima di uscire, passai a salutarti.
Avevi in mano una strana statuina di metallo; un oggetto piccolo, insignificante, che non avevo mai visto. Mi dicesti: “Questa statuina ha una storia lunga”.
Guardai l'orologio. Ero già alle strette con il tempo, come mi capita di frequente. “Me la racconterai più tardi, adesso devo schizzare via”.
Ovviamente quando ci rivedemmo, dopo qualche ora, ce ne eravamo ambedue dimenticati.

Qualche giorno fa, mettendo ordine tra le tue cose, quella statuina mi è capitata in mano. Mi avrebbe fatto piacere conoscere la sua lunga storia.

(All'appuntamento di lavoro ero riuscito ad arrivare puntuale e avevo dovuto aspettare, almeno dieci minuti).

La morte dà un senso alla vita. Dove ho letto, di recente, queste parole, che mi sono sembrate assurde? Eppure adesso mi sono chiare.

Finché ci siamo, tutto è fluido, tutto può cambiare, tutto può ancora capitare. Se fossimo immortali, forse non faremmo mai niente, perché tutto potremmo sempre fare domani.

Ma c'è quel limite, quella soglia invalicabile, che proietta nell'eternità il non fatto e il non detto. E non sappiamo quando.

Dovrebbe farci capire se è il caso, per una volta, di arrivare un po' in ritardo ad un appuntamento importante.


Daniele Lugli

lunedì 26 ottobre 2015

Il consiglio

Proprio in quel momento la donna tirò su la borsa. Luigi Berletti non fu sufficientemente lesto ad estrarre la mano che stava annaspando alla ricerca del borsellino. La donna si voltò, vide il suo braccio: «oddio, oddio!» Berletti fece uno scatto, si mise a correre fra le bancarelle. «Al ladro, al ladro» gridò la donna. Altre voci si unirono alla sua: «Fèrmalo, fèrmalo». Un pizzicagnolo gli si parò davanti per bloccarlo ma Berletti fu svelto a scansarlo, urtò una bancarella di pesce e la mandò all'aria. L'impatto lo sbilanciò ed egli andò avanti sbilenco senza avere più capacità di controllo: sbatté contro un banco di frutta che aveva in bella mostra due piramidi di pere e di mele che volarono e si disseminarono, poi, dopo qualche altro metro, finì la sua corsa come se si tuffasse; ma anziché una piscina c'era una bassa bancarella di mutande e reggiseni che sotto l'urto e il peso si sfasciò travolgendo a sua volta l'ambulante, una donna grassissima seduta lì a lato su uno sgabello.
Tutto questo in pochi secondi. Un finimondo per quel mercato rionale che viveva la sua mattinata tranquilla: tutt'intorno c'era un gran vociare, ma proprio nel mezzo di quella devastazione la gente era rimasta sconcertata, qualcuno stava ancora con le mani nei capelli, incapace di reagire. Attimi, ma attimi preziosi per Berletti che fu svelto a rialzarsi e a ripartire, nella corsia tra le bancarelle. «Dài, dài, che scappa», «prèndilo, prèndilo», «bloccalo», «correte, correte», incitazioni e invocazioni si incrociavano, alcuni giovani stavano effettivamente mettendosi a rincorrerlo, ma lui aveva già guadagnato un bel po' di metri. Correva a perdifiato e intanto si meravigliava di avere slancio nonostante i suoi quarant'anni e la pancia debordante; non doveva a nessun costo rallentare perché la canea che aveva dietro aumentava. Un momento davvero difficile per lui, non si era mai trovato in una situazione simile. Come mai si era lasciato pescare così, come un pivellino alle prime armi? Evidentemente stava invecchiando. Nella sua carriera di borsaiolo aveva rubato almeno mille portafogli: erano dieci anni che rubava sulle piazze e nessuno se ne era mai accorto, non la conosceva anima viva la sua attività, nemmeno la moglie.
Adesso era proprio ai ferri corti, inseguito da quella turba di forsennati che, se l'avessero raggiunto, forse l'avrebbero linciato. Svoltò per una strada stretta e poco frequentata; se fosse riuscito a guadagnare una ventina di metri sarebbe potuto arrivare sulla piazza e lì entrare in chiesa senza che se ne accorgessero. La chiesa a quell'ora era sempre deserta; si sarebbe potuto nascondere da qualche parte. E nella piazza confluivano quattro strade, gli inseguitori si sarebbero dispersi in una vana ricerca. Allungò il passo più che poté, urtò una vecchia che riuscì a malapena a reggersi aggrappandosi al muro. Svoltò rapidissimo, a sinistra, pochi metri più avanti c'era una porticina che dava in chiesa. Entrò.
Ai banchi stavano inginocchiate due suore e altre tre donne. Tutto era in penombra. Berletti si fermò un attimo dietro una colonna; a tre passi da lui, in una zona ancora più buia, c'era un confessionale. Si spostò piano, per non attirare l'attenzione su di sé, aprì con delicatezza il basso usciolo, entrò, lo richiuse, tirò la tenda, si sedette. Finalmente era nascosto. Possibile che gli inseguitori venissero anche dentro in chiesa e, se venivano, che guardassero dentro i confessionali? In questo momento, se ancora persistevano nella sua caccia, erano sguinzagliati per le strade che si diramavano dalla piazza. Ansimava. In petto aveva un battito scomposto, il cuore in gola.
Berletti aprì lo sportellino che copriva la finestrella di sinistra. La grata era bucherellata, al centro una serie di fori più fitti disegnavano la croce. Accostò l'occhio: ora che lo sguardo cominciava ad abituarsi al buio, vedeva abbastanza chiaramente l'interno della chiesa, i banchi, le donne, le suore, e la porta principale, sul fondo. Tenne l'occhio fisso a quella parte, vide uscire le suore, entrare un vecchio che si reggeva con due bastoni, poi una donna bassa e grassa. Luigi Berletti appiccicò ancor di più l'occhio alla grata. Perbacco, era sua moglie, quella. Si sentì di nuovo agitato: ma come mai, si chiedeva, sua moglie era in chiesa, non ci andava quasi mai. E adesso, per giunta, veniva verso il confessionale. Cosa doveva fare, lui? Pensò di fingere che non ci fosse nessuno: lentamente chiuse lo sportellino della grata, ma cigolò. Ormai Berletti non poteva più nascondere la propria presenza. Riaprì lo sportello e si coprì il viso con una mano. Un attimo dopo sentì il respiro della moglie a fianco della grata. Disse lei: «Sia lodato Gesù Cristo». Berletti si raschiò la gola; cosa doveva dire? Gli affiorò un ricordo dell'infanzia, di quando andava alla dottrina, disse, meravigliandosene: «Sempre sia lodato». "Riconosce la voce" pensò, e subito si strinse il naso con due dita per essere pronto a contraffarla.
«Reverendo» incominciò a dire la donna, «io vengo da lei perché sono turbata da un rimorso: voglio confessarmi, e chiederle anche un consiglio». "Ma cosa ha fatto?" si chiedeva Berletti con l'orecchio appoggiato alla grata. «Posso dire?» chiese la donna. «Sì, sì» rispose l'uomo tenendosi stretto il naso; e intanto cercava di immaginare la colpa di sua moglie. Cosa aveva fatto, l'aveva tradito, si era indebitata a sua insaputa, aveva tramato qualcosa contro di lui? «Io» disse la donna, «ho un figlio di dieci anni, uno solo». «Sì, sì» ripeté il marito, impaziente, ma subito si rese conto del rischio che correva: doveva andar cauto, parlare il meno possibile per non farsi scoprire. «Bene» riprese a dire la donna: «da quando mio figlio è nato, io ho sempre derubato mio marito: cinquecento, mille lire al giorno; talvolta, quando il suo portafogli era ben fornito, gliene rubavo anche cinquemila; in altri giorni, niente. Prima le lire poi gli euro». "Disgraziata" pensò lui, "mi rubi i soldi: ecco perché certe volte mi trovo inaspettatamente con il portafogli quasi vuoto". «Ma il motivo di questi furti?» chiese Berletti con voce fortemente nasale. «Per fare studiare nostro figlio, quando sarà grande. Mio marito fa il facchino e di soldi non ne ha tanti, se non faccio così non riusciremo mai a farlo studiare. Adesso ho già messo da parte quasi ventimila euro». "Dio mio, ventimila" pensò Berletti, "che somma!". Avrebbe potuto far baldoria per mesi con gli amici senza pensare a niente, né al lavoro, né ai borseggi. Una cifra così non s'era mai sognato d'averla.
«Il mio problema è questo» continuò la donna: «devo confessarlo a mio marito o no?» «Ma certo, ma certo» disse lui d'impeto. La donna replicò: «Reverendo, io ho rubato a fin di bene, per nostro figlio; non appena io confesso questa cosa a mio marito lui si prende i soldi e va al bar a bere e a giocare, prevedo già come finisce». «Ah, sì?» fece lui distrattamente. Rivide Giancarlo, suo figlio. Certo sarebbe stato bello poterlo fare studiare, che non dovesse anche lui entrare a far parte della cooperativa facchini, portare valigie e sacchi e casse tutti i giorni. «Reverendo» tornò a dire la donna, «io sono venuta qui decisa a seguire il suo consiglio, perché sono piena di rimorso: se lei mi dice di riferirgli tutto, lo faccio; però vorrei che ci pensasse bene prima di consigliarmi». "Ma dove saranno nascosti quei soldi" si chiedeva Berletti, "che li tenga in banca? Io non mi sono mai accorto di niente, se li avessi trovati avrebbero sicuramente fatto una brutta fine. Certo, però, sarebbe bello che Giancarlo potesse studiare, diventare un dottore, per esempio, o un avvocato, l'avvocato Giancarlo Berletti. Se qui, al posto mio, ci fosse un prete vero", pensò ancora l'uomo, "che cosa risponderebbe? Forse le direbbe di star zitta, di fare studiare il figlio".
«Reverendo» chiese la donna con voce preoccupata, «sta male?» «No, no, sto pensando» rispose lui. «Scusi ma non la sentivo più, m'ero preoccupata». «Senta» disse Luigi Berletti, «allora non glielo dica a suo marito». Aveva le idee confuse: le sue labbra dicevano quelle parole, ma intanto la mente pensava ai soldi, ventimila euro. Dio che abbondanza. Si macerava già nella curiosità di sapere dove fossero nascosti, nel desiderio di chiederglieli, di farseli dare a costo di usare la forza. Però sarebbe proprio bello che suo figlio potesse diventare un pezzo grosso, il dott. Giancarlo Berletti o l'avv. Giancarlo Berletti. «Senta» tornò a dire, «no, non glieli dia a suo marito i soldi, neanche se lui si insospettisce e glieli chiede. Non glieli dia, neanche se la picchia per averli. Adesso vada via, subito, subito». «E l'assoluzione?» chiese lei allarmata. «Sì, sì, gliel'ho già data, vada via e badi ai suoi soldi, non se li lasci prendere».

La donna si fece il segno della croce e si allontanò. Berletti, con l'occhio alla grata, la seguì fino alla porta, la vide uscire. Adesso poteva venir fuori dal confessionale, i suoi inseguitori s'erano di certo dispersi, la via era libera. Sarebbe andato a casa. Pensava già alle parole che avrebbe detto alla moglie: "Ho l'impressione che tu, di tanto in tanto, mi porti via dei soldi di tasca, chissà quanti me ne hai già rubati. Dove li hai messi?". Non sapeva ancora bene se sperare che sua moglie resistesse o che cedesse. Chissà come sarebbe andata a finire.

sabato 17 ottobre 2015

Prima del mare

Con i primi caldi, la sera noi ragazzi ci radunavamo giù nel cortile per continuare i giochi del pomeriggio. Il cortile era stretto e lungo, su un lato la casa e sull'altro un muretto oltre il quale s'intravedevano le tettoie di una fabbrica. Era illuminato debolmente da un'unica lampada appesa a un cavo teso tra la casa e il muro di fronte.
Quell'anno, la sera, Mimma e io stavamo quasi sempre seduti sul gradino di un portone che era al fondo del cortile, in penombra. Gli altri giocavano a rincorrersi o a nascondersi o a darsi schiaffi alla mano sotto l'ascella e a indovinare chi era stato. Di tanto in tanto qualcuno veniva a chiamarci: «E voi, non giocate?» «Ho male a un piede» dicevo io, come scusa; oppure era lei, Mimma, che diceva di non averne voglia. Sempre così, tutte le sere.
Era luglio, non avevamo più la noia della scuola, l'incubo degli esami, faceva caldo e la gente della casa stava sui ballatoi, le donne discorrevano tra loro, da piano a piano, gli uomini fumavano, scamiciati, noi eravamo nella penombra. Come si stava bene così appartati. Mimma mi parlava di mare: ci sarebbe andata in agosto, per la prima volta, con una zia. Io non c'ero mai stato, nessuno di noi del cortile c'era stato perché non usava, allora, andare al mare e soprattutto perché le nostre famiglie non avevano mezzi: gente che s'alzava presto al mattino per andare a lavorare, lavorava tutto il giorno e così per tutto l'anno e già aveva difficoltà a far fronte alle spese per mantenere la famiglia.
Ascoltavo Mimma parlare del mare e mi sentivo quasi commosso per quel grande avvenimento che lei avrebbe vissuto. Avevo anche tristezza al pensiero che per un mese non l'avrei vista: non saremmo stati, la sera, seduti insieme in quella penombra così intima, nostra. Scoprivo Mimma come se appena in quei giorni l'avessi conosciuta e invece erano dodici anni che la conoscevo, cioè dalla nascita, perché eravamo nati negli stessi giorni, in quella casa. Scoprivo la sua voce: Dio, come mi piaceva! dolce, soave, con sfumature delicatissime. E non soltanto la voce scoprivo, ma tutta lei. Stavo ad ascoltarla e a guardarla incantato, nella penombra; ed era come se gli altri ragazzi chiassosi non ci fossero, come se non ci fossero sopra di noi le donne che parlavano, gli uomini scamiciati che fumavano appoggiati alle ringhiere dei ballatoi. Mi chiedevo come mai non m'ero accorto prima della voce di Mimma e dei suoi occhi azzurri. Stavo fermo, con la schiena appoggiata al portone, e avrei voluto che la sera fosse interminabile; se lei, muovendosi, con la spalla mi sfiorava la spalla, mi sentivo avvampare di rossore. L'ascoltavo, capivo ogni sua parola, sentivo ogni sfumatura della sua voce, eppure il mio pensiero riusciva a correre avanti, nel tempo: io e lei più grandi, soli, a camminare per un viale; e poi pensavo a un bacio, Dio come sarebbe stato bello, ma mi sentivo arrossire, sconvolgere dentro.
Di sera in sera il mare di Mimma diventava sempre più grande e più vicino nella sua e nella mia immaginazione, io lo amavo e lo odiavo insieme; l'amavo perché lei ne era entusiasta e contava i giorni che ancora la dividevano dalla partenza, e l'odiavo perché me l'avrebbe portata via, per la prima volta, e questo accadeva proprio adesso che non facevo altro che pensare a lei. «E tu cosa mi dici?» mi chiedeva talvolta. Io non sapevo cosa dire, o meglio, avevo in fondo al cuore il desiderio di dirle tutte le sensazioni che provavo, ma capivo anche che non ne avrei mai avuto il coraggio; avevo solo fiducia che comprendesse lo stesso, che bastasse quella nostra presenza appartata nella penombra ad aprirle l'animo mio. Parlavo della bicicletta che mio padre mi aveva promesso, dicevo che mi sarebbe piaciuto poterne avere una "balloncina", con i penumatici più grossi dei soliti, le biciclette di lusso che erano in voga in quei tempi. Lo dicevo tanto per dire, perché sapevo che mio padre difficilmente avrebbe potuto comperarmi anche una bicicletta normale.
Poi Mimma partì. Fu di mattino. Dalla finestra la vidi allontanarsi, un passo dietro a suo padre che le portava la valigia tenendola sulla spalla. La sera innanzi era rimasta poco nel cortile perché doveva finire di preparare la roba da portare con sé. Ero riuscito a chiederle, con grande fatica e con una vampata di rossore: «Mi scriverai?» Mimma s'era messa a ridere. «Certo che ti scriverò, vuoi che non ti faccia vedere il mare? Ti manderò le cartoline più belle». La risposta mi aveva appagato, m'ero sentito pervadere dalla serenità e dalla gioia, mi sembrava già di avere in mano la prima delle sue cartoline, di ammirare il mio nome scritto da lei.
Fu un agosto lento, lungo, tremendamente lungo. Andavo sempre giù, la sera, in cortile, con gli altri ragazzi, ma non avevo voglia di giocare, mi sarebbe piaciuto starmene a sedere, solo, sul gradino del portone di fondo, dove ero stato tante volte con lei, ma gli altri non mi lasciavano, mi trascinavano a forza con loro e allora, passivamente, facevo quello che volevano. Di giorno attendevo con ansia il postino, ma non aveva mai niente per me. Andò avanti così per dieci giorni, poi, finalmente, una cartolina arrivò. Era proprio per me, scritta di suo pugno: "Molti cari saluti". Raffigurava una fila di capanni con tanta gente al sole della spiaggia. Guardavo ad una ad una quelle donne come se dovessi cercare fra loro Mimma, ma lei naturalmente non c'era. Cercavo di immaginarla come quelle, con il costume da bagno, ma non sapevo vederla diversa da come l'avevo sempre vista nel cortile.
Passavano altri giorni e io ancora aspettavo una sua cartolina. Ripensavo alle sue parole. «Te ne manderò tante, le più belle». E come mai, invece, il postino non chiamava il mio nome? Una seconda cartolina arrivò negli ultimi giorni di agosto, ma non era indirizzata a me, bensì "ai ragazzi del cortile". "Torno sabato" scriveva Mimma. Ero deluso e amareggiato perché mi aveva trascurato in quel modo, ma al tempo stesso ero pervaso dalla gioia. Mimma tornava: ci saremmo seduti ancora, la sera, sul gradino del portone, nella penombra. C'era tutto settembre per stare nel cortile: sarebbe stato un mese magnifico, forse io avrei anche trovato il coraggio di dirle quello che provavo per lei.
Mimma tornò. Era irriconoscibile, tanto era abbronzata. E per giunta indossava un vestito molto aperto sul collo, che non le avevo mai visto. Non sembrava più lei. Nel primo momento in cui la vidi mi fece venire in mente Rosalinda, che era la sorella di una gobba che stava nella casa. Rosalinda faceva la modella, era sempre abbronzata e pitturata; quando veniva a trovare sua sorella noi la guardavamo con una curiosità morbosa, poi fantasticavamo su di lei e sulla sua professione di modella che ci sembrava molto peccaminosa. La prima sera del ritorno di Mimma la passammo a festeggiare lei con grida e canti al centro del cortile. Io avrei voluto che s'appartasse con me, ma gli altri non la lasciavano. Poi un inquilino protestò per il baccano e Mimma tornò in casa.
La sera dopo ci andammo a sedere nel nostro posto e lei incominciò a parlare del mare. «È' stupendo» disse. «Mi sono proprio tanto divertita. Stavamo sulla spiaggia dalla mattina alla sera, fin che il sole non tramontava. E sulla spiaggia giocavamo a palla oppure a rincorrerci sulla sabbia lambita dall'acqua». «Ma come, anche tua zia correva sulla sabbia?» chiesi io con meraviglia. «Oh, no: lei stava seduta sotto l'ombrellone a chiacchierare con le altre donne. Correvamo noi ragazzi: eravamo in una squadra grossa, c'era anche Roberto che abita qui, in via Mazzolotti, e suo padre ha una drogheria in centro». «Ah» feci io, e intanto mi sentivo un tremito interno e non riuscivo a formulare un pensiero. Poi disse: «Di sera, con un grammofono, si ballava sulla terrazza della pensione. Era molto divertente».
Io avrei voluto non essere dov'ero, al suo fianco, appoggiato al portone, nella penombra della sera. Andavo indietro con il pensiero e provavo nostalgia per i giorni d'agosto che pure m'erano sembrati tanto brutti per l'attesa. Ma almeno, allora, avevo la speranza di rivedere presto Mimma. Adesso Mimma era con me, ma non era più quella di prima; era abbronzata come Rosalinda e parlava di balli fatti di sera con un Roberto. Poco valeva che lei stesse seduta in disparte con me se mi doveva raccontare di queste storie. Io ascoltavo e intanto sentivo nascermi dentro un odio per il mare, per le lunghe file di capanni, per la sabbia sulla quale si può correre al limite dell'onda e per le terrazze delle pensioni.
Passarono ancora dei giorni, ma ogni sera i ricordi di Mimma mi riportavano nella nostra penombra la vita del mare, con il suo chiasso, il suo sole, i suoi balli. Una sera, scendendo, trovai tutti i ragazzi fermi nel cortile, in cerchio. E dentro al cerchio c'erano, intenti a parlare, Mimma e Roberto. Era un ragazzo alto, forse aveva due o tre anni più di me. Stava a cavalcioni della bicicletta. Parlavano dei giorni d'agosto, citavano nomi di altri ragazzi, episodi. E ridevano. Tornai in casa, dissi a mia madre che avevo male di testa e andai a letto. Nel buio, in silenzio, mi misi a piangere. Pensavo a prima del mare. Com'era bello!

domenica 11 ottobre 2015

La speranza

Sua madre entrò, si diresse alla finestra, sollevò l'avvolgibile, la luce invase la stanza. «Sono quasi le otto» gridò. «Maria, alzati!» La ragazza aveva coperta anche la testa, stava immobile, ma non dormiva. «Non arriverai più in tempo» incalzò la madre. Maria si districò lentamente dall'involucro di lenzuola e coperte, lanciò piccoli gemiti come se in quel momento si stesse svegliando, poi disse: «Questa mattina non ci vado, in ufficio. Ho tutte le ossa rotte, credo d'avere avuto la febbre stanotte». La madre le si avvicinò, le posò una mano sulla fronte: «Adesso non sembra» disse. «Vuoi che telefoni in ufficio?» «Sì, grazie. Di' che tornerò a lavorare appena starò meglio. Ora cerco di dormire di nuovo».
La madre riabbassò l'avvolgibile, la figlia la fermò prima che la serranda fosse completamente chiusa. C'era rimasto uno spiraglio di una decina di centimetri attraverso il quale dal letto si vedeva una terrazza della casa di fronte, due piani più in su, con panni stesi, battuti dal vento e dal sole. «Basta così, grazie» disse la ragazza. La madre si avviò alla porta. «Più tardi ti porto il latte. Se hai bisogno chiamami». Maria girò lo sguardo alle cose della stanza un po' confuse nella penombra, guardò attraverso la fessura della finestra la macchia chiara della terrazza illuminata. Aveva voglia di piangere. Aveva già pianto a mezzanotte quando si era coricata. Anche adesso pensava alle parole che Giulio le aveva detto la sera prima, tornando dal cinema.
Giulio era cassiere nell'ufficio accanto al suo. Erano amici da tempo, ma negli ultimi mesi la loro amicizia si era fatta più intima. Lui era gentile, premuroso, buono; e scapolo. Aveva trentotto anni, due più di lei. A quell'età doveva per forza pensare al matrimonio, a una casa. Maria studiava le sue parole, i sottintesi, cercava di scoprire le intenzioni nascoste. Giulio le piaceva, sperava di sentirsi dire da lui, una volta o l'altra, che le voleva bene. Nel pomeriggio del giorno prima, uscendo dall'ufficio, l'aveva invitata al cinema per la sera, come altre volte, per stare un poco in compagnia. Dopo lo spettacolo, in auto, mentre l'accompagnava a casa, le aveva detto: «Ho bisogno di confidarmi con te, ascoltami, ti prego». Lei si era sentita le gambe tremare all'improvviso, le sembrava già di udire le sue parole d'amore, avrebbe voluto abbracciarlo subito, prima ancora che incominciasse a parlare. Invece Giulio aveva detto: «Sono innamorato di una ragazza che ha vent'anni, è ricchissima, capisco che non è assolutamente adatta a me e che nemmeno mi vorrebbe, ma sono testardo, non so dimenticarla, come devo fare?»
Maria era rimasta in silenzio. Le era venuto un nodo alla gola e si sentiva come sprofondata nel sedile, il tremore di prima alle gambe s'era d'improvviso tramutato in un vuoto, un'insensibilità, come se gli arti non le appartenessero più, se in quel momento avesse dovuto scendere certo non l'avrebbero retta in piedi. Giulio aveva accostato l'auto sulla destra, in uno spiazzo libero del viale che percorrevano. Lui aspettava una sua risposta, ma lei non parlava, il nodo alla gola le aveva tolto anche la parola. «E allora cosa mi dici?» le aveva chiesto vedendo che l'attesa si prolungava. Con grande fatica Maria era riuscita ad aprire bocca. «Sono cose troppo personali, non si possono dare dei consigli, sei tu che devi decidere».
A casa s'era buttata sul letto e aveva pianto. S'era addormentata tardissimo e s'era svegliata presto. Pensava a Giulio e pensava ai propri trentasei anni. Trentasei per modo di dire: ne avrebbe compiuti trentasette dopo dodici giorni, il ventiquattro marzo. Era una data che ormai odiava; odiava anche la primavera, i primi caldi soli, i primi venti, le viole nelle prode delle strade di periferia, perché le ricordavano l'imminente scadenza.
Pensava ad altri compleanni lontani: il diciottesimo, il ventesimo, quando c'era ancora suo padre e ogni anno a primavera facevano un viaggio. I vent'anni li aveva compiuti a Innsbruck. Al mattino avevano visitato l'Hofgarten, il giardino imperiale; a mezzogiorno, rientrando all'albergo dove erano alloggiati - il Greif, ne ricordava ancora il nome - aveva trovato un telegramma per lei. Era di Rolando; diceva: "Hai voluto partire nonostante la mia proibizione: non cercarmi più". Rolando, il suo primo fidanzato, era gelosissimo, a volte insopportabile. Lei aveva scrollato le spalle: le importava poco che Rolando la lasciasse, aveva tempo e si sentiva bella. Poi aveva incontrato Sergio. Si erano voluti molto bene, ma avevano anche avuto liti furibonde; era finita male, addirittura a schiaffi e a calci. Anche con gli altri, dopo, non era mai stata fortunata, o per un motivo o per l'altro.
Fissava la terrazza della casa di fronte: oltre la ringhiera si vedevano sbattere al vento un asciugamano bianco e una sottana gialla. Davanti all'asciugamano si fermò un bambino, si chinò, si alzò, si tornò a chinare, ora si vedeva soltanto la sua testa muoversi in maniera appena percettibile: evidentemente stava giocando con qualcosa che era sul pavimento. Maria avrebbe voluto che se ne andasse: c'erano già di troppo, su quella terrazza, anche il vento e il sole.
Il bambino le ricordava Michele. Michele era stato l'ultimo, prima che lei incominciasse a pensare a Giulio. Michele si era fidanzato regolarmente. «Ci sposiamo presto» le diceva. Era di un'altra città, faceva il tecnico di macchinari per arti grafiche; era venuto per assistere gli operai che montavano una macchina svizzera in una tipografia. «Ti sposo presto» ripeteva; ma non andava mai oltre questa generica promessa. Lei si sarebbe aspettata che facesse qualche progetto, che indicasse una data probabile, che esprimesse qualche idea su quella che sarebbe potuta essere la loro casa. Le diceva invece, tante volte, che aveva un corpo magnifico, che era stupenda, una donna meravigliosa e lei, a quei complimenti, socchiudeva gli occhi per la soddisfazione, quasi inebetita. Poi, un giorno, l'angosciosa scoperta: Michele era sposato e aveva due bambini. Quando Maria gliel'aveva rinfacciato lui si era messo a piangere, le aveva chiesto perdono. Una scena melodrammatica. Ma c'era poco da fare, se non troncare. E si erano lasciati, lei furibonda, ingiuriante, lui sempre piangente, strisciante, implorante perdono.
Ora le pareva di risentire quelle sue parole che sapeva sussurrare con tanta abilità nei momenti di esaltazione amorosa: «Hai un corpo magnifico, sei stupenda». Era vero oppure Michele mentiva anche in quelle affermazioni? Maria cercò di figurarsi il proprio corpo, era tanto che non l'aveva guardato con occhio critico. Le venne un improvviso desiderio di vederlo, di scrutarlo, di ammirarlo. Se l'avesse trovato ancora piacente forse avrebbe potuto riconquistare un po' di fiducia, un'ultima speranza. Scese dal letto, infilò le pantofole, andò davanti allo specchio dell'armadio. Ebbe subito un moto di disappunto guardandosi in faccia: gli occhi erano gonfi, scuri, i capelli scomposti; ma forse la scarsa luce contribuiva a peggiorare l'immagine. Andò a sollevare un po' la serranda, tornò allo specchio, si sforzò di sorridere, pensò che il trucco l'avrebbe trasformata, non poteva giudicarsi in quelle condizioni. Si strinse la vita tra gli indici e i pollici facendo aderire la camicia da notte: la vita era ancora sottile, il petto florido. Si passò una mano sui capelli, sorrise. Ora non pensava a nulla, si limitava a sorridere a se stessa senza sapere il perché.
Si scosse al suono del campanello, nell'ingresso. Sentì sua madre avviarsi ad aprire. Tornò a letto, ad ascoltare. Era la voce di un uomo quella che si sentiva di là. Maria cercava di decifrare le parole, ma non ci riusciva; ora la voce si spostava per il corridoio, entrava nel salotto. Maria attese ancora qualche minuto poi suonò il campanello interno e sua madre venne sull'uscio. «Chi è?» chiese la ragazza. «È il tecnico della tivù, è venuto per l'audio del televisore, dice che il guasto lo può riparare qui, ha già incominciato». La madre uscì di nuovo. Maria si stirò, rimise i piedi a terra, s'infilò le pantofole, la vestaglia, uscì dalla stanza, entrò in bagno. Poi ritornò in camera, si sedette alla toeletta, incominciò a massaggiarsi il viso, scelse il vasetto della crema, il tubetto del rossetto, la boccetta del profumo. Si pettinò con cura, tuttavia senza indugiare. Vide il volto rifiorire, pensò che non era un volto brutto, forse non dimostrava nemmeno gli anni che aveva.
Quando fu pronta si alzò, si diresse alla porta, ma sostò un attimo a guardarsi nello specchio grande dell'armadio. Uscì, nel corridoio si fermò, si ripassò una mano sui capelli con morbidezza per accertarsi che fossero proprio a posto. Dal salotto veniva il gracchiare metallico e confuso del televisore che il tecnico stava riparando. Posò la mano sulla maniglia, entrò.


lunedì 5 ottobre 2015

Pareggio

La villa sorgeva su un cucuzzolo, trenta metri sopra il paese. Era bella a vedere, d'un bianco candido, con le imposte verdi. Ma era scomoda da abitare. Ci portavo la famiglia tutte le estati, per un paio di mesi; poi ci tornavamo d'inverno, a dicembre, per una ventina di giorni. Era sempre attraente l'idea di andare in montagna, togliendosi dall'atmosfera fumosa della città; spesso riuscivamo a fare una capatina anche nei week-end. Ma, quando eravamo là, c'era sempre qualcosa che non andava: un rubinetto che non chiudeva bene, la pompa dell'acqua che si guastava, il tetto che lasciava filtrare la pioggia. Piccolezze, queste, a confronto dei difetti costituzionali e ineliminabili della costruzione.
Dietro la villa, in alto, c'era una vallata dalla quale scendeva un vento gelido. Anche d'estate non si poteva sostare nel giardino senza il pericolo di buscare il raffreddore. D'inverno, poi, i muri si coprivano addirittura di una patina di ghiaccio, e anche la ripida stradicciola che dal paese saliva alla villa gelava e non si riusciva a percorrerla in auto; la macchina bisognava lasciarla in piazza, alle intemperie, e percorrere quest'ultimo tratto a piedi. Da novembre a marzo, di pomeriggio, il sole scompariva per due ore dietro un monte che era a ponente della villa, ricompariva soltanto per farsi vedere tramontare. Come se tutto questo non bastasse, a lato della casa, una sponda che scendeva ad un piccolo torrente franava spesso, sicché il terreno che divideva la costruzione dal ruscello andava sempre più restringendosi: sarebbe stato necessario erigere un muro per fermare lo smottamento.
Ero stanco di tutte quelle contrarietà e un giorno, d'accordo con mia moglie, decisi di vendere la villa per comprarne un'altra al mare. Feci uscire un'inserzione su un giornale e qualcuno telefonò sin dal giorno dopo; ma erano richieste di poca consistenza, si capiva dal tono della voce di chi parlava. Dieci giorni dopo si presentarono un uomo e una donna, sulla trentina, sposi da un paio d'anni. Li accompagnai alla villa e ne rimasero entusiasti. A loro piaceva tutto: la forma, il colore, la posizione, il ruscello, il giardino, la stradina in salita. Io, naturalmente, da buon venditore, decantai i pregi o i presunti pregi, trascurando del tutto i difetti.
Eravamo d'autunno, una giornata calda, e il clima mi era favorevole. La signora si guardava attorno con occhi gioiosi, il sorriso sempre sulle labbra. Progettava piccole modifiche, abbellimenti. «Qui potremmo spostare la parete per ampliare il salotto, al centro del giardino si potrebbe mettere una fontana, sulla sponda del ruscello ci starebbe bene una scaletta...» Il marito diceva sempre di sì, anche lui tutto preso dall'infatuazione. Io pensavo, quasi ridendo tra me, che ampliando il salotto si sarebbe eccessivamente ridotto lo studio, che una fontana nel giardino d'inverno sarebbe stata preda del gelo, che la scaletta verso il torrente sarebbe stata travolta dal primo smottamento. Ma dovevo vendere e dicevo: «Magnifica idea, quella della fontana; la scaletta, poi, darà un tono davvero affascinante all'ambiente». Il prezzo pareva un po' caro. Effettivamente la mia richiesta era stata elevata, soprattutto in considerazione dei difetti della villa. Cercavo di resistere, magnificando doti inesistenti.
La visita finì, prendemmo appuntamento per un giorno della settimana successiva. Temevo che nel frattempo i due coniugi ci ripensassero o raccogliessero informazioni da qualcuno del posto. Invece si ripresentarono ancora animati dal primitivo fervore che via via vedevo accrescersi mentre si svolgeva la nuova visita. Erano innamorati di tutto: della villa, dei monti circostanti, dei sassi, degli uccellini che cinguettavano intorno. «Come mai non si vede il sole?» chiese a un tratto meravigliata la donna. Erano le tre del pomeriggio e il sole incominciava proprio in quei giorni a nascondersi dietro il monte che era a ponente. Io stavo per spiegare che, d'inverno, per un breve lasso di tempo nel pomeriggio la villa sarebbe stata in ombra, ma il marito mi prevenne: «È lì, dietro quel monte, tra poco verrà fuori». Entrambi ripresero a sorridere come prima. Mi facevano un tantino di pena; ad ogni modo io dovevo vendere e dovevo vendere bene. Ripresi ad esaltare ciò che a loro piaceva di più. Tre giorni dopo ci presentavamo da un notaio per il rogito. Il prezzo pattuito era alto rispetto al reale valore dell'immobile. I due sposi erano felici, si capiva che la villa che comperavano era proprio quella che avevano sempre sognato.

Una settimana dopo mia moglie e io eravamo già in Riviera a cercare un'altra villa. Ci presentammo a un'agenzia, prendemmo in considerazione diverse offerte, andammo anche a fare qualche visita, ma non c'era nulla che ci garbasse. Rimandammo: non si poteva pretendere di trovare in pochi giorni quello che cercavamo. Tornammo in Riviera altre volte, passammo di località in località. Finalmente una domenica, ai primi di dicembre, andammo a visitare una villa che ci piacque al primo colpo d'occhio. Era a pochi metri dalla strada statale e in posizione soprelevata, circondata da una cinquantina di ulivi. Le finestre guardavano il mare, che era d'un azzurro intenso, come non avevamo mai visto in nessun altro posto. Era proprio una bella villetta, un po' piccola, ma graziosa. La vendevano arredata: i mobili erano pochi, ma in compenso antichi, autentici. E il prezzo non era caro, poco più di quanto avevamo riscosso dalla vendita della villa in montagna.
Durante quella nostra prima visita portammo a buon punto l'accordo. Oramai non avevamo più dubbi sulla scelta: quella sarebbe stata la nostra villa. Bisognava non perdere tempo per evitare che qualcun altro ce la soffiasse. Per stare nel sicuro prendemmo l'appuntamento per l'indomani. A sera avevamo già concluso l'affare e consegnata la caparra. Pochi giorni ancora nell'attesa che fossero predisposti i documenti e poi potemmo fare l'atto notarile.
Natale si avvicinava, poteva essere l'occasione per festeggiare l'acquisto: trascorrere là le vacanze. E, infatti, così decidemmo. Presi qualche giorno di ferie da collegare con l'inizio delle vacanze e ci trasferimmo giù, felici e armati di buona volontà, perché ovviamente bisognava affrontare la pulizia generale dei locali, nell'attesa di far fare poi i lavori di tinteggiatura. Con aspirapolvere, spazzettoni, scope, detersivi e disinfettanti affrontammo muri, pavimenti e infissi. Lavare, lucidare, lustrare: un lavoro faticoso, estenuante, per noi non avvezzi a quelle fatiche fisiche. Si arrivava a sera sfiniti, ma eravamo veramente soddisfatti di tutto: dell'affare concluso, del luogo, del clima. Lì avremmo certo potuto vivere giorni meravigliosi, d'estate e nei week-end; tra l'altro il viaggio dalla città alla Riviera era più breve di quello per la montagna, avremmo potuto godere più spesso della nostra seconda casa. Poi l'aria salmastra sarebbe stata un toccasana per i nostri polmoni. Mia moglie e io pensavamo ai benefici che ne avrebbero ottenuto il bambino e mia suocera, già parecchio anziana, che in città, d'inverno, spesso era tormentata dalla bronchite. Demmo una sistemata anche al giardino, ma solo per piccoli interventi superficiali, soprattutto di pulizia. Infine, cosa molto importante per accentuare il clima della festività natalizia e dell'inaugurazione della villa, addobbammo con collane di lampadine e palle colorate l'albero di Natale, scegliendo a questo scopo un ulivo in mancanza di un abete.
C'era ancora un ultimo lavoro da fare e l'affrontammo la vigilia, come tocco finale. Consisteva in una nuova sistemazione dei mobili per disporli secondo il nostro gusto e le nostre esigenze. Ad esempio, un bellissimo bureau del Settecento, tra l'altro in ottime condizioni, che era in un angolo un po' buio, andava spostato per dargli miglior luce. Era pesante e per muoverlo più agevolmente sfilammo i cassetti. Sul fondo del mobile c'era un foglio di carta scritto a penna che evidentemente era uscito da uno dei cassetti, sfuggendo così allo svuotamento effettuato dal precedente proprietario. Lo presi e mi misi a leggerlo, per curiosità. Doveva essere una brutta copia, perché era vergato con calligrafia trasandata e con correzioni.
Era una lettera. Diceva: "Cara Luisa, ti annuncio che lascio la Riviera. Parto domani stesso per Genova, dove mi trasferirò nel mio vecchio alloggio. Sono finalmente riuscito a vendere questa villa. Come ricorderai, erano due anni che cercavo di disfarmene, ma non ci riuscivo mai. Sono proprio contento. Qui la vita è ormai impossibile, con il crescente frastuono delle macchine sulla strada, il gas dei tubi di scarico che ammorba l'aria, l'acqua dell'acquedotto che d'estate non riesce ad arrivare fin quassù. Senza contare che nel giugno prossimo inizieranno la costruzione di un grande albergo, a otto piani, proprio qui davanti, in modo che chi si affaccerà non s'accorgerà nemmeno di essere in Riviera. Nonostante tutti questi difetti sono riuscito a concludere un buon affare. Gli acquirenti sono due coniugi che si sono dimostrati innamorati della villa sin dal primo momento in cui l'hanno vista. Me l'hanno pagata più di quanto sperassi. Gli ho ceduto tutto, anche i mobili che, come sai, sono imitazioni di scarso valore. Allora, da domani stesso, se mi devi scrivere, ricordati che il mio nuovo indirizzo...".