L'annuncio, nella rubrica
"varie", parlava di alcuni mobili antichi che venivano
venduti «causa trasferimento». Avevo bisogno di una poltrona,
possibilmente del Settecento, da abbinare a una scrivania con ribalta
di quell'epoca. Andai a vedere se trovavo qualcosa che mi potesse
interessare.
La casa era vecchia, forse
della metà dell'Ottocento, a due piani, con i muri sbrecciati, le
ringhiere dei balconcini arrugginite. Il suo aspetto era miserevole
ed appariva ancora più squallido per il contrastante accostamento
con i due alti, nuovissimi edifici che le sorgevano ai lati. Un
grande cartello affisso all'altezza del primo piano avvertiva che in
quel luogo sarebbe sorto un palazzo con appartamenti lussuosi. La
famiglia che aveva pubblicato l'inserzione abitava al secondo piano.
Venne ad aprire una donna anziana, con la testa bianca, lo sguardo
che passava al di sopra degli occhiali calati sul naso. «Venga,
venga» disse, «abbiamo diverse cose da vendere. Ci tocca andar via
di qui, la casa verrà abbattuta e noi ci trasferiamo in un
alloggetto di appena due camere e cucina, mentre qui ne abbiamo
quattro: dobbiamo disfarci di tante cose».
Eravamo nella cucina, mi
guardai attorno, ma non c'era nulla che potesse considerarsi antico.
Un uscio si aprì ed entrò una ragazza dall'aspetto fine, magra,
pallida. «Ora le faccio vedere» disse la giovane intuendo il motivo
della mia presenza e mi invitò a seguirla in una stanza accanto.
«Ecco, vendiamo tutti questi mobili». Era una camera da pranzo
stile Cinquecento, di legno tinto di nero, pesante non soltanto di
quintali, ma soprattutto di ornamentazioni in rilievo; di quelle
camere che facevano la gioia delle coppie di sposi nei primi anni del
Novecento. Scossi la testa deluso. «Mi spiace» dissi, «ma non ho
bisogno di questi mobili, sono solo imitazione dell'antico, e non
saprei dove metterli». «Proviamo a guardare nelle altre stanze»
disse la ragazza, «può darsi che trovi qualcosa che le possa
interessare». In una camera c'era un letto matrimoniale di lamiera
di ferro con decorazioni di vetrini colorati. Ancora scossi la testa
e subito la ragazza e la madre mi sospinsero avanti nella terza
stanza. Qui il mobilio era costituito da un salotto Luigi Filippo.
Non appena entrai, un giovane
che era seduto in un angolo si alzò in piedi e mi fece una specie di
inchino con un largo sorriso. Mi parve che il suo modo fosse strano,
ma la mia attenzione fu subito distratta. Il giovane si era alzato
proprio da una poltrona Settecento come io andavo cercando: di noce,
con gambe e braccioli curvi e scannellati, la spalliera traforata, il
sedile di paglia di granoturco intrecciata. La indicai con un dito e
andai da quella parte con decisione. Il giovane si scansò,
improvvisamente serio, quasi impaurito. «Questa» dissi, «posso
comperarla». «Bene» risposero quasi in coro la madre e la figlia.
«No, no» incominciò il giovane con occhi spalancati, l'espressione
sconvolta. «Non si può, questa è la mia poltrona». «Tu non
metterci il naso» replicò la madre, con un tono bonario, quasi
scherzoso. Poi si voltò verso di me e si batté due volte la punta
dell'indice sul lato della fronte. «Non ci faccia caso, è come un
bambino, a volte gli piace fare i capricci».
«Allora» chiesi, «quanto
volete?» «Ottocentomila» disse la ragazza, più col tono della
domanda che dell'affermazione; era evidente che non aveva un'idea
precisa del valore. Rimasi qualche momento in silenzio, cercavo di
valutare la richiesta. Certo un antiquario non gliel'avrebbe pagata
tanto, però nel suo negozio per la stessa poltrona avrebbe preteso
almeno il doppio. Pensai che onestamente non era il caso di
abbassare la cifra: chi vendeva era gente povera e la poltrona era
quella che faceva al caso mio. «Come volete» dissi, e tolsi di
tasca il portafogli per fare l'assegno. «No, no» riprese il
giovane, «non si può, non si può». Venne verso di me protendendo
una mano e cercò di farmi richiudere il portafogli. «Questa
poltrona» disse, «vale dieci milioni, forse venti, chissà...»
«Lei scherza» risposi: «provi ad offrirla a un antiquario e vedrà
che...»
La madre mi interruppe per far
tacere il figlio: «Adesso, Mario, stai buono, vai di là e lasciaci
fare gli affari»; intanto lo prese per un braccio e lo tirò verso
di sé. Io ne approfittai per incominciare a scrivere l'assegno:
capivo che bisognava fare in fretta per evitare le complicazioni
suscitate dal giovane. Presi in mano la poltrona, la sollevai per
andarmene. «La lasci qui, per carità!» gridò Mario, facendo
pressione sui braccioli fino a costringermi a posarla. Sua sorella lo
richiamò con voce brusca. «Basta» disse, «dobbiamo pur venderla,
nell'altra casa non sappiamo dove metterla». «Allora» disse il
giovane con voce implorante afferrando la poltrona, «lasciate almeno
che la porti giù io». «Sì» risposi, «cerchiamo soltanto di fare
presto, perché ho fretta».
Incominciai ad indietreggiare
per la stanza verso l'uscita tirandomi dietro la poltrona che Mario
teneva appena sollevata da terra e cercava di trattenere verso di
sé. Salutai le due donne, arrivai sul pianerottolo. Il giovane posò
la poltrona, si appoggiò col petto sulla spalliera. «Me la lasci»
disse. «Se me la lascia le dò due milioni». «No» risposi, «ne
ho bisogno». «Gliene dò cinque di milioni». «No» ripetei, «non
è una questione di denaro, l'ho comperata perché mi serve, non per
rivenderla». Afferrai di nuovo la poltrona, la sollevai con forza
nonostante la resistenza del giovane, e incominciai a scendere.
A fare la prima rampa di scale
impiegammo almeno cinque minuti, io che tiravo verso il basso e lui
verso l'alto. «L'ho sempre vista in casa mia» lamentava Mario «e
adesso non la vedrò più. Lei chissà come la tratterà». «Bene,
la tratterò benissimo, la farò lucidare, mi ci metterò a sedere
con ogni cura, stia tranquillo. E poi non è un animale, la poltrona
non se ne accorgerà nemmeno di avere cambiato casa». A metà della
seconda rampa ci dovemmo fermare per lasciar passare un'inquilina.
«Signora Clotilde» disse il giovane con le lacrime agli occhi, «mi
portano via la poltrona». «Oh, povero Mario>> rispose lei con
un tono tra la commiserazione e il divertimento e tirò diritto senza
chiedere nulla. Era evidente che l'inquilina lo conosceva bene,
sapeva che non bisognava dargli retta. Ma io non potevo continuare in
quel modo, avrei perduto altri dieci minuti per scendere le altre due
rampe di scale, pensai che dovevo proprio rinunciare all'affare.
Lasciai la presa della
poltrona, risalii. La porta dell'alloggio era ancora accostata.
Entrai, mi vennero incontro entrambe le donne. «Mario non se ne
vuole assolutamente separare» dissi, «rinuncio all'acquisto,
restituitemi l'assegno». «Ma lei scherzerà» rispose la ragazza
con voce agitata e gli occhi spiritati. «Ormai l'affare è fatto,
non si torna più indietro». «Per me» dissi, «va bene. Ma è per
lui, poverino». La ragazza tirò su una spalla. «Non importa, lo
lasci dire».
Ridiscesi, trovai il giovane
fermo nello stesso punto in cui l'avevo lasciato, gli occhi fissi nel
vuoto. Afferrai la poltrona, tirai con forza. «Ora non faccia
storie» dissi con durezza, «devo andare». Scendemmo con una certa
sveltezza, io sempre tirando verso il basso, lui verso l'alto. «No,
no» continuava a lamentarsi lui e chiedeva: «Perché? Perché?»
Arrivammo fuori. La mia auto era parcheggiata sotto un albero a pochi
passi di distanza. Sul corso le automobili sfrecciavano veloci,
l'aria era densa di suoni, rombi di motori e voci di operai in un
vicino cantiere. Posai la poltrona a terra, di fianco all'auto, andai
dietro ad aprire il bagagliaio, ne tolsi gli elastici per legarla al
portapacchi montato sul tetto. Mario ne approfittò per sedersi. Lo
tirai su quasi di peso, alzai la poltrona, la issai sul portapacchi,
agganciai gli elastici per fissarla.
Ormai era fatta, potevo
partire. Il giovane stava al mio fianco con lo sguardo basso, le
braccia in abbandono, vinto, desolato. «Perché se la prende così?»
chiesi, mettendogli una mano su una spalla. «In fin dei conti è un
mobile, un oggetto senza nessuna importanza e poi viene a stare bene
a casa mia». «Ma io l'ho sempre vista» disse a voce bassa,
tremante; faticavo a capire le parole, per i rumori della strada.
«Adesso lei la porta via e io non la vedrò più, la mia poltrona».
Emise un lungo sospiro, le sue spalle si alzavano e si abbassavano
con ampiezza di movimento. Il giovane chinò ancora la testa e si
mise a piangere. Le lacrime incominciavano a scendergli lungo le
guance, ne vidi due cadere a terra, nella polvere.
Mi staccai di un passo da lui,
verso lo sportello, per salire. Ma allontanandomi mi parve di
sentire, di capire ancora di più il suo dramma angoscioso. E mi
prese, nel mezzo del petto, un senso di colpa. Per lui quella
poltrona era parte del suo mondo, parte della sua giovinezza.
Portandogliela via gli portavo via tutte queste cose. Immaginai di
essere già sull'auto che se ne andava e di voltarmi indietro a
guardarlo, lui piccolo, a testa china, con le braccia penzoloni, il
cuore in tumulto, solo nella strada piena del frastuono del traffico
dove nessuno nemmeno s'accorgeva della sua presenza. Bisognava che
partissi e non mi voltassi indietro.