sabato 3 novembre 2012

Modi d'esser vecchi


Novantadue anni! A giudicare dalla carta d’identità si direbbe che il cav. Raimondo Gallotta è vecchio, ma a vederlo questo termine lo si dimentica. È un uomo alto un metro e ottanta, diritto e magro, la pelle solcata da rughe finissime che non guastano l’armonia del volto, il capo coperto da una lanugine bianca. Basta che parli e che si muova perché chi gli sta vicino non pensi più all’età. Ha una voce vibrante, sicura, il gesto nervoso; l’unico movimento impacciato è quello che fa alzandosi dalla poltrona: deve spingersi su con le mani sui braccioli e lo fa con evidente fatica, poi, una volta in piedi, si sposta con passo franco e svelto.
Dirige la fabbrica di saponi e affini da lui fondata cinquanta anni fa. All’età di 82 anni decise di lasciare ogni attività, di andare in pensione. Convocò il figlio, Martino, che allora aveva 40 anni e i direttori dei reparti produzione e commerciale. La fabbrica allora dava lavoro a 38 dipendenti. Disse all’incirca: «Io mi ritiro, affido tutto a mio figlio. Mi riservo solo un piccolo ufficio per venirmi a sedere qui quando non ho voglia di andare in giro». Fu festeggiato, ebbe ogni possibile onore. Andò a fare un viaggetto all’estero. Al ritorno convocò il figlio e i direttori. Disse: «Sono stato a vedere altre fabbriche, in Francia e in Germania. Noi siamo piuttosto indietro, bisogna che ci svegliamo se vogliamo far fronte alla concorrenza».
Quello stesso giorno dette disposizioni importantissime: ordinò a una fabbrica tedesca due macchinari di alta automazione e il progetto di un nuovo capannone. Per qualche giorno ancora si recò nel suo ufficio ad ora avanzata, poi, nel giro di una settimana, riprese il suo solito orario, le otto meno un quarto, cioè prima che entrassero tutti i lavoratori. Da allora il titolare dell’azienda Gallotta è ufficialmente Martino, il figlio, ma in pratica chi comanda è lui, solo lui, il vecchio cavaliere Raimondo: c’è la sola differenza che il padre occupa un uffiicio che è poco più di uno sgabuzzino, mentre il figlio sta pomposamente seduto alla scrivania della sala più bella. Chi decide è sempre il vecchio, di testa sua, senza chiedere nulla a nessuno.

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L’insegna, fuori, è ancora quella che fece fare suo nonno: di lamiera con la scritta «Mercerie», in grigio su fondo marrone. La vernice qua e là è saltata via e la ruggine ha preso il suo posto, la seconda “r” è quasi tutta scomparsa. Dentro, gli scaffali sono di legno nero, come il banco che offre, sul piano, la vista di molti forellini da tarlo e parecchi graffi. Le scatole di cartone, sugli scaffali, sono consunte; ognuna porta una targhetta scritta con calligrafia manuale in corsivo: «elastici», «bottoni», «filo di Scozia».
Dietro il banco c’è lui, Ottavio. Basso, un po’ pingue, gli occhi grandi, acquosi, i baffi che tendono al bianco. Ha 49 anni. «Ci deve essere un errore all’anagrafe – gli dice qualche volta Argia, sua moglie, con aria tra il serio e lo scherzoso – io direi che di anni ne hai di più». Sua moglie ne ha appena 38 e fa la sarta, in casa. È brava, anche per la tavola: quando lui rientra, la sera, gli fa trovare pronti manicaretti gustosi, sempre variati. Ma Ottavio è difficile, talvolta addirittura non tocca cibo; non sono rare le obiezioni come: «lo spezzatino mi può dare fitte al fegato», «no, stasera non mi vanno gli asparagi, la maionese ho paura che mi faccia male all’intestino», «che bello quell’arrosto di maiale, ma e se poi mi fa venire l’infarto?».
Spesso alla sera la moglie gli propone di andar fuori, al cinema o in visita ad amici. «Stiamo sempre qui isolati come se non conoscessimo nessuno e invece no, io ne ho tanti che vorrei frequentare» dice lei. Lui ne ha sempre una per non accontentarla: «Proprio stasera avevo già pensato d’andar a letto presto, andiamo poi un’altra volta». E l’indomani c’è un nuovo rinvio: per un acciacco improvviso o perché durante il giorno si è venduto poco. Questa degli affari è un’altra lamentela frequente: «tempi magri» oppure: «speriamo che le vendite vadano meglio».
Ormai la moglie non gli pone quasi più domande, ha capito che le cose proprio non cambiano. Anche a un figlio, vecchia aspirazione, non spera più. Tra l’alro, la sera, quello dell’andata a letto è un momento in cui l’atmosfera, fra le quattro pareti della stanza, è carica di un miscuglio di speranze e angosce, timori e rabbie. Ma possibile, pensa lei, che Ottavio non si ricordi mai che esiste anche il sesso? A rammentarglielo è facile sentirsi dire «stasera non ne ho voglia». Se si potesse sapere dove si può trovare questa voglia, Argia gliene raccoglierebbe tanta e gliela porterebbe su un piatto d’argento, anche a costo di comperarlo lei questo piatto, con un suo gruzzolo, risparmio di brava sarta.