Anni
della mia infanzia. Nel rigore dell’inverno, in campagna. La cucina
era l’unico locale riscaldato. Vi approdavo dall’esterno come a
un’isola, intirizzito, orecchie, naso, mani insensibili; al tocco
delle cose le dita rispondevano con una sensazione lontana, strana,
quasi che venisse da un’altra persona. E all’improvviso caldo,
mani, orecchie, naso ritornavano miei, presenti attraverso un rapido
e breve bruciore. La stufa, grosso cubo fumante di vapori odorosi,
era sempre cosparsa di pentole e tegami. I vetri delle finestre erano
appannati, grondanti. Correvo a scriverci sopra o a disegnarci con
l’indice che stava riacquistando la sensazione di se stesso. E le
parole e le figure scoprivano, al di là della patina opaca, prati e
alberi bianchi di neve o di brina. Mi bastava quello scorcio per
risentire, imperioso, il desiderio di tornare fuori a correre nel
cortile. Mi precipitavo alla porta. «Ma stai un po’ dentro»
diceva mia madre, «non fai nemmeno in tempo a scaldarti».
Di
sera, dopo cena, il caldo della cucina mi dava subito sonnolenza, la
testa ciondolava: «A letto, a letto» diceva la mamma o mio padre.
Il freddo gelido della stanza mi risvegliava bruscamente,
incominciavo a battere i denti, ma più avevo freddo più grande era
il piacere che provavo quando, un minuto dopo, mi infilavo nel letto
riscaldato. Lanciavo piccole grida di gioia, una gioia che
comprendeva il caldo delle coltri nel freddo della stanza e la
presenza di mia madre che mi rimboccava le coperte. La rivedevo al
mattino quando veniva ad interrompere il mio lungo, unico sonno. E
allora c’era da vincere, con un grande sforzo, la fatica di uscire
dalla calda nicchia e affrontare l’aria gelida della camera nella
quale il fiato si staccava dalla bocca a nuvolette. Non c’era
nemmeno da pensare di lavarsi nel catino in stanza, perché la
brocca era piena di un blocco di ghiaccio. Correvo in cucina in
maglia e ciabatte, l’involto dei vestiti sotto il braccio. Poi la
colazione, che a volte era di latte e orzo, ma più spesso di gnocco
fritto e in questo caso il locale era saturo, oltre che di caldo,
anche di fumo e di profumo, quello buono, della tavola. Lanciavo
grida di gioia e mangiavo di gusto ma in fretta, spinto dalla smania
di uscire, di correre verso la mia giornata di avventure sulla neve
e sul ghiaccio. La pelle del viso sembrava percorsa dalla corrente
elettrica tanto l’aria esterna era pungente.
Com’era
bella, là intorno al grande opificio dell’Ampèrgola, a
Nonantola, la campagna nella crudezza invernale. Gli alberi erano
tutto un arabesco, così argentati dalla galaverna; la terra
scrocchiava sotto i piedi, secca di gelo. Nel bianco dei campi
spiccava la macchia scura di un carro con cavallo e contadino; il
carro era colmo di letame che fumava, anche le forcate che l’uomo
lanciava intorno, sulla terra, striava l’aria di vapore bianco.
Assieme al pizzicore del freddo giungevano al naso venature
d’afrore.