domenica 23 febbraio 2014

Freddo secco

Anni della mia infanzia. Nel rigore dell’inverno, in campagna. La cucina era l’unico locale riscaldato. Vi approdavo dall’esterno come a un’isola, intirizzito, orecchie, naso, mani insensibili; al tocco delle cose le dita rispondevano con una sensazione lontana, strana, quasi che venisse da un’altra persona. E all’improvviso caldo, mani, orecchie, naso ritornavano miei, presenti attraverso un rapido e breve bruciore. La stufa, grosso cubo fumante di vapori odorosi, era sempre cosparsa di pentole e tegami. I vetri delle finestre erano appannati, grondanti. Correvo a scriverci sopra o a disegnarci con l’indice che stava riacquistando la sensazione di se stesso. E le parole e le figure scoprivano, al di là della patina opaca, prati e alberi bianchi di neve o di brina. Mi bastava quello scorcio per risentire, imperioso, il desiderio di tornare fuori a correre nel cortile. Mi precipitavo alla porta. «Ma stai un po’ dentro» diceva mia madre, «non fai nemmeno in tempo a scaldarti».

Di sera, dopo cena, il caldo della cucina mi dava subito sonnolenza, la testa ciondolava: «A letto, a letto» diceva la mamma o mio padre. Il freddo gelido della stanza mi risvegliava bruscamente, incominciavo a battere i denti, ma più avevo freddo più grande era il piacere che provavo quando, un minuto dopo, mi infilavo nel letto riscaldato. Lanciavo piccole grida di gioia, una gioia che comprendeva il caldo delle coltri nel freddo della stanza e la presenza di mia madre che mi rimboccava le coperte. La rivedevo al mattino quando veniva ad interrompere il mio lungo, unico sonno. E allora c’era da vincere, con un grande sforzo, la fatica di uscire dalla calda nicchia e affrontare l’aria gelida della camera nella quale il fiato si staccava dalla bocca a nuvolette. Non c’era nemmeno da pensare di lavarsi nel catino in stanza, perché la brocca era piena di un blocco di ghiaccio. Correvo in cucina in maglia e ciabatte, l’involto dei vestiti sotto il braccio. Poi la colazione, che a volte era di latte e orzo, ma più spesso di gnocco fritto e in questo caso il locale era saturo, oltre che di caldo, anche di fumo e di profumo, quello buono, della tavola. Lanciavo grida di gioia e mangiavo di gusto ma in fretta, spinto dalla smania di uscire, di correre verso la mia giornata di avventure sulla neve e sul ghiaccio. La pelle del viso sembrava percorsa dalla corrente elettrica tanto l’aria esterna era pungente.

Com’era bella, là intorno al grande opificio dell’Ampèrgola, a Nonantola, la campagna nella crudezza invernale. Gli alberi erano tutto un arabesco, così argentati dalla galaverna; la terra scrocchiava sotto i piedi, secca di gelo. Nel bianco dei campi spiccava la macchia scura di un carro con cavallo e contadino; il carro era colmo di letame che fumava, anche le forcate che l’uomo lanciava intorno, sulla terra, striava l’aria di vapore bianco. Assieme al pizzicore del freddo giungevano al naso venature d’afrore.