martedì 31 gennaio 2012

La venere delle follie


Al quinto piano una soffitta divisa da una tramezza di legno e cartone che separa la cucina dalla camera da letto. Quando piove fuori piove anche qui: una goccia sul tavolo, una goccia sul cuscino, una goccia sul fornello a gas. Teresa colloca pentolini nei vari punti per raccogliere l’acqua.
Ha già reclamato col proprietario di casa, ma lui le ha risposto che prima di reclamare deve pagare l’affitto regolarmente. In effetti è in debito di tre mesi. È facile dire «pagare», ma se i soldi non ci sono come si fa?
Teresa si guadagna da vivere dipingendo. Compone dei quadri ad olio – marine e paesaggi montani – che fornisce ad un negozio il quale li smercia a poco prezzo, una ventina di euro, con un filo di cornice. È evidente che a lei tocca una cifra misera. E d’altra parte la sua pittura, sempre i soliti tre o quattro soggetti, fa accapponare la pelle a chi se ne intende.
Anni fa, quando ci vedeva bene, Teresa riusciva a fare anche un quadro al giorno; adesso è quasi cieca, l’hanno operata due volte, senza successo. Vede poco e confuso, ciononostante prova lo stesso a dipingere, ma con risultati a volte disastrosi, il negoziante glieli respinge e li deve rifare.
Quando li accetta lo fa quasi sempre per misericordia. Sì e no riesce a piazzarne tre o quattro al mese. E non può fare altro perché si regge in piedi a fatica, a causa delle vene varicose. Ha passato gli ottanta da un po’. Piange spesso, e a lungo, nella sua solitudine.
Appeso al muro, tra le due finestrelle della soffitta, c’è un quadretto con due fotografie: una donna vestita da gran sera, con abito di pizzo fino ai piedi, e in un succinto costume da ballerina, con lunghe piume sul capo, a corona. Sopra, il titolo: «I trionfi di Resi». Resi era il suo diminutivo, il nome d’arte. Teresa è stata più di sessanta anni fa un’artista del varietà di grande nome. La chiamavano «La Venere delle follie», non perché ci fosse arte nelle sue esibizioni, ma perché sapeva far impazzire le platee per la sensualità che metteva nella voce delle sue canzoni e nelle mosse delle sue danze. Altra clamorosa variante del suo nome d’arte era «l’odalisca azzurra», per una interpretazione fatta con un vaporoso abito di quel colore. Gli impresari teatrali italiani e parigini se la contendevano a cifre sempre maggiori, i corteggiatori facevano pazzie per avere le sue grazie. Una sera, a Parigi, alla fine dello spettacolo, ricevette tre corbeilles di fiori ognuna delle quali era stata inviata da un principe.
Convisse per alcuni anni con un attore, poi altro tempo con un impresario, ma quest’ultimo stava con lei soprattutto per sfruttare la sua ricchezza, che a poco a poco andò estinguendosi, di pari passo con l’avanzare dei problemi nel lavoro e nella salute. La malattia agli occhi fu grave e decisiva per il tracollo. Già il primo intervento chirurgico non portò beneficio. Lei tornò sul palcoscenico, ma già era un’ombra della Venere autentica. I riflettori l'abbagliavano, ad ogni passo rischiava di cadere. Doveva proprio lasciare il teatro, che le aveva dato tanto. Anche l’impresario la lasciò: era venuto il tempo in cui avrebbe dovuto aiutarla e invece si dimostrò uomo malvagio.
Resi tornò Teresa. Si ricordò che prima di fare la ballerina era andata a scuola di pittura e riprese in mano i pennelli. Bene. Era abbastanza brava e incominciò a fare e a vendere, con discreto risultato. Ma la malattia degli occhi era di nuovo minacciosa, i medici ritentarono un nuovo intervento, con nessun risultato. Anzi, la malattia continuava ad avanzare come sempre. Povera Teresa. Si sente vicina alla fine, ma se trova la persona giusta che possa ascoltarla e capirla, si lascia ancora andare ai ricordi, le emozioni delle grandi serate, il fragore degli applausi, la commozione davanti alle grandi corbeilles. Ma non deve perdersi in questi ricordi: tra poco pioverà e bisogna preparare i tegamini per raccogliere le gocce che cadranno dal tetto.


sabato 14 gennaio 2012

Artigiana del pianto

Carmela Verzi è sui 45 anni ma ne dimostra di più. I capelli bianchi che spuntano con due ciuffi laterali sotto il fazzoletto nero, il sottomento gonfio e flaccido, gli occhi bordati di rosso per una congiuntivite cronica la fanno più che cinquantenne. Una di queste sue condizioni, gli occhi rossi, è un attrezzo del suo mestiere, in definitiva una fortuna. Abita nel «casone», una cadente costruzione nella parte più vecchia della città. La sua famiglia assomiglia a molte altre che abitano nello stesso stabile. Suo marito soffre di artrite, almeno così dice, perciò non lavora, passa le sue giornate all’osteria, torna la sera, sempre un po’ brillo, le chiede dei soldi per l’indomani e se lei non glieli dà si arrabbia, incomincia a menar calci alle gambe della tavola.
Mirco, l’unico figlio, di 22 anni, avrà lavorato sì e no due anni, a partire dall’epoca in cui ha finito le elementari. Fa l’idraulico, ma avrà già cambiato dieci padroni. Lavora una settimana, al massimo quindici giorni, poi non ci va più, dice che lo trattano male, che hanno esigenze assurde, impossibili. Il fatto è che i padroni pretendono che lavori e lui, invece, di lavorare non ne ha voglia. Anche se non è occupato, passa il suo tempo fuori di casa, non si sa dove, torna soltanto per mangiare, talvolta passa fuori anche la notte. Mirco ha la motoretta, avuta non si sa come, forse rubata, e ha il problema della benzina, quindi anche lui si rivolge a sua madre e se lei non ha niente da dargli si infuria, bestemmia, dice che così non si può più vivere.
Dunque è lei, Carmela, che deve sopportare tutto il peso della famiglia. Nel «casone» ci sono altre due situazioni analoghe e le donne hanno scelto la soluzione marciapiede. Lei no, non si abbassa a tanto: lei ha la fortuna della congiuntivite che le mantiene gli occhi rossi, è come se avesse pianto fino a quel momento. E allora, eccolo il suo mestiere. Ogni mattina, intorno alle nove, prende un tram o un autobus verso una determinata zona della città, che varia di volta in volta. Scende, si mette a camminare, si ferma, si appoggia a un muro, si copre il viso con una mano e incomincia a singhiozzare. A volte deve continuare parecchi minuti prima che qualcuno si fermi. Finalmente c’è chi le tocca un braccio, «Signora, signora, cosa le succede?». Lei lentamente si gira, abbassa la mano, con l’altra si asciuga, scopre i suoi occhi rossi, incomincia a parlare con voce ancora rotta da un ultimo singhiozzo. «Che sventura! – incomincia a dire con la voce a tratti spezzata da tumulti di pianto. — Mia figlia, che è vedova come me, è stata portata all’ospedale ieri mattina e io devo dar da mangiare ai suoi tre bambini, ma non so come fare e per giunta il padrone di casa ci sfratta. Dio che disgrazia».
La gente si commuove, le batte una mano sulla spalla, le allunga una monetina: perché non è il mutilato che tende il cappello, qui si tratta di un caso grave, ci sono di mezzo tre bambini, bisogna offrire una somma dignitosa. Qualche volta Carmela si vede mettere in mano uno o due euro, un giorno un signore le dato un biglietto da dieci. «Grazie, grazie», singhiozza lei e poi riprende il cammino, gli occhi divorati dal pianto, il dolore incorniciato nella veste nera. All’angolo della strada gira, cammina ancora un po’ poi, improvvisamente, si appoggia al muro, si copre il viso con una mano e scoppia a piangere. «Che sventura!», dice poi, non appena qualcuno le si accosta.
È un lavoro non facile, faticoso, anche perché Carmela vi si dedica, tra il mattino e il pomeriggio, almeno sei ore al giorno. E poi deve tenere ben conto delle zone della città, in modo da non tornare nelle stesse strade, se non dopo sei mesi. Ma Carmela lo fa con passione, ci si sente portata. La pare quasi di essere una attrice. La sua, ormai, è una missione.