lunedì 25 gennaio 2016

Cercarsi allo specchio

Mi capita, da qualche tempo, di sorprendermi a guardarmi nello specchio. Mi scruto come se cercassi qualcosa che non conosco, un lineamento, un'espressione: un po' come se osservassi il volto di uno sconosciuto. Il fatto è che sento in me qualcosa che non mi appartiene interamente: io sono io ma con qualche traccia, appunto, di un altro. Una strana e anche allarmante sensazione. Che cosa mi stia accadendo non lo so; cerco di capirlo, guardandomi nel fisico e poi anche nell'intimo.
Questo strano fatto si sta verificando da circa cinque mesi, non di più; praticamente da dopo che è successa la faccenda di Angelina. Angelina se n'è andata una notte, sei mesi fa, mentre dormivo, ignaro di quanto stava tramando, ignaro di quanto aveva tramato fino allora e di tutto il suo mondo. Otto anni di matrimonio, otto anni che mi erano parsi tranquilli, sereni. Una pacata unione di quarantenni, la nostra. Non avevamo avuto figli, ma non sembrava un problema per nessuno dei due. Io le volevo bene, le ero fedele, credevo che fosse altrettanto per lei. E invece aveva una seconda vita.
Incredibile: come mai non me ne ero accorto? Mi aveva confessato tutto in una lettera, una lunga lettera, che mi aveva lasciato sul comodino da notte a un palmo dal naso. Così al mio risveglio, dopo avere scoperto sul letto, al mio fianco, la sua impronta, mi ero messo a leggere quei fogli e mi ero sentito crollare addosso quella che credevo la solida impalcatura della mia vita. Nel petto mi si era acceso un vortice terribile; mi sentivo come in mare, su un'esile barchetta, inghiottito da un uragano e sballottato da onde gigantesche ognuna delle quali mi piombava addosso come se fosse l'ultima, che mi avrebbe annientato.
Quelle onde erano le sue confessioni: la nostra relazione che era andata a poco a poco sbiadendosi, poi l'indifferenza per me, per la nostra unione sterile, la nascita di un suo nuovo amore che era via via cresciuto, era diventato passione ed ora lei se ne andava con il suo idolo, felice. Non una parola di rammarico per il dolore che mi arrecava, come se nemmeno esistessi, come se proprio non avessi mai contato nulla per lei. Che giorni di angoscia da quel mattino di stravolgimento!
E io che avevo fatto della mia fedeltà una religione! Per me era fondamentale il concetto che la famiglia doveva rappresentare il fulcro dell'unione matrimoniale, sacro e preminente su ogni altro aspetto della vita, quindi da salvaguardare prima di tutto con la correttezza di comportamento in mancanza della quale si sarebbe avviato inesorabile il disfacimento. Io così, ligio a questi sani principi, e lei che tramava alle mie spalle, certo irridendo anche la mia dabbenaggine. Ciononostante non mi pento della mia condotta: la regola morale resta valida anche se circostanze estranee avverse hanno falsato il risultato.
Questo, dunque, il mio passato. Veniamo al presente, a quello che mi accade talvolta. In genere è di notte, nelle ore che precedono l'alba: mi sveglio e resto insonne con la mente che vaga senza controllo, in abbandono, con la speranza di ritrovare un altro poco di sonno. Mi avviene di entrare in un ricordo; un ricordo che non può essere tale perché appartiene ad una realtà sicuramente non mia. Eppure è come se lo fosse, come se io davvero avessi vissuto quelle vicende. Un'assurdità. Ecco di cosa si tratta. Rivivo - o meglio, ho l'impressione di rivivere - scene di amore fisico con una donna che non è Angelina. Proprio un assurdo, perché si tratterebbe di un mio tradimento che ora, di giorno, sono ben sicuro di non avere mai compiuto. Ma di notte, in quel vagolare della mente nel buio, mi sembra reale e della realtà mi dà una diffusa piacevolezza. Abbraccio e bacio quella mia donna, giovane e bella, con trasporto e con la gioia di sapere che non è una situazione occasionale, ma che si ripeterà.
E infatti questo ricordo, diciamo pseudo ricordo, ritorna con una metodica analogia e sempre mi pervade di letizia e di stupore. A volte, pur a malincuore, lo interrompo, accendo la luce, voglio constatare di essere effettivamente sveglio. E allora mi chiedo come è possibile che accada questo, come posso io, che fui marito dell'Angelina scrupolosamente e vanamente fedele, rivivere un adulterio che in realtà non ho commesso. Cos'è, dunque, questa storia? È stato un sogno, tanto intenso da restarmi scolpito nella memoria come se si fosse trattato di un evento reale?
Infatti questa vicenda, che so irreale, posso descriverla minutamente, come se fosse davvero avvenuta. La donna è bionda, dolce, raffinata, con occhi azzurri e un sorriso che rasserena. Da tempo veniva nel mio studio per accompagnare la madre malata di diabete. La madre era poi morta, per una trombosi, e lei non si era più vista per qualche tempo. Poi era ricomparsa perché si sentiva opprimere da una ansietà inspiegabile. Tre visite per la cura e alla quarta eravamo finiti avvinghiati sul lettino. Se indugio nel ricordo - in questo falso ricordo - il numero dei particolari si accresce: vedo certi vestiti suoi, odo la cadenza delle sue parole, sento riecheggiare sue risate. L'animo mi si pervade di tenerezza e la rievocazione di uno qualsiasi dei nostri rapporti sessuali si fa così intensa, precisa, da sfiorare la realtà. E risento anche le atmosfere del "dopo": i momenti di dolce abbandono, le carezze dell'affettuosa commozione, diverse da quelle del "prima", tutte percorse dalle vibrazioni del desiderio, dall'ansia dell'arrivo alla mèta. E poi ancora, approssimandosi il congedo, prima di far entrare il prossimo cliente, qualche lieve chiacchiera nel tempo di fumare una sigaretta.
Una sigaretta? Ma io non fumo. Ho fumato dai diciotto ai trentacinque anni. Un giorno ho detto basta e non ne ho più acceso una; non solo, non ho nemmeno aspirato una boccata quando gli amici, per tentarmi, insistevano ad accostarmi alle labbra una sigaretta accesa. Ora mi accade che in queste peregrinazioni mentali notturne ci sia anche un mio ritorno al fumo. In modo irregolare, saltuario: qualche giorno niente, qualche altro due tre, magari anche cinque sigarette. Eppure, di giorno, lo so bene che nulla è cambiato da quel momento in cui dissi basta: di sigarette non ne ho proprio più fumata neanche una.
Incomincio a preoccuparmi per queste mie false consapevolezze, questo inserirsi della mia fantasia in una realtà che non mi appartiene, come se, invece, ne fossi protagonista. Mi pare di capire che sia proprio questo il problema: pur essendo in realtà estraneo a determinate situazioni, una certa parte del mio io entra in un ruolo immaginario e lo fa con tanta partecipazione e accuratezza da crearmi una ricca mole di elementi i quali poi, nei particolari momenti dell'insonnia notturna, mi affiorano alla mente come ricordi.
Me ne è comparso uno nuovo, di recente. Un ricordo ingombrante, persistente, ancora più assurdo degli altri, se è possibile. Io non frequento la zona collinare della mia città avendo sia l'abitazione che lo studio da tutt'altra parte. In particolare non sono mai andato in via Serpilli, non so che strada sia, non l'ho mai vista. O meglio, ormai l'ho un po' vista attraverso le fotografie dei giornali e le immagini della televisione per quella storia di cui si parla insistentemente quasi ogni giorno sotto il titolo di "delitto di via Serpilli". È un giallo irrisolto, ingarbugliato, per me di nessun interesse: infatti mi limito a leggere titoli e sommari; con la TV, se mi imbatto in questo argomento, cambio canale alla svelta, innervosito. Grosso modo, per quello che ho potuto capire, la ragazza che è stata uccisa in via Serpilli, soffocata con un cuscino, doveva aver fatto entrare in casa lei stessa l'assassino. Ma per scoprire il colpevole gli inquirenti han da districarsi nel groviglio dei molti amici e conoscenti che la frequentavano, non esclusi due ex fidanzati coi quali aveva trascorso due periodi di convivenza.
Credo di comprendere perché istintivamente sto lontano dalle notizie che riguardano questa tragica vicenda: mi rendo conto che, inconsciamente, tendo ad appropriarmi di ogni informazione per poi elaborarla e costruirci intorno dei ricordi. Un fatto veramente sgradevole, che mi turba profondamente. Mentre nel caso dei rapporti sessuali - ricordiamolo: presunti rapporti sessuali - con la mia cliente bionda e bella, quando ritornano, mi danno un diffuso piacere, il "ricordo" che si riferisce a via Serpilli è angoscioso, mi attanaglia come una trappola e io cerco di sfuggirgli, ma non trovo scampo e mi agito, sudo, mi sorprendo persino a gemere.
In sostanza io rivivo un delitto, lo rivivo nelle vesti abominevoli dell'assassino e la vittima è una donna. Una che conoscevo da tempo: anche lei era stata mia cliente, poi mia amante. Era un periodo in cui conviveva con un uomo più anziano del quale non le importava più nulla. Il nostro era un rapporto basato soprattutto sull'attrazione sessuale. Per gli incontri clandestini ci servivamo di un piccolo albergo, mi pare in collina. A un certo punto gli appuntamenti si erano diradati, poi lei mi aveva detto che aveva lasciato l'anziano e si era messa con un giovane della sua età. E tutto tra noi era finito, in maniera piana.
Così credevo che fosse. Invece sentivo la sua mancanza. Avrei voluto cancellare dalla sua vita l'uomo nuovo che le era diventato compagno e allora ho incominciato a cercarla, ci siamo incontrati nascostamente, alcune volte, abbiamo discusso, ma lei era irremovibile, considerava definitivamente chiusa la nostra storia. Un giorno, sapendo che lui era fuori città, mi sono presentato da lei e l'ho convinta a farmi entrare. Era dura, cattiva, diceva basta basta è finita e a me sembrava di perdere un bene prezioso. Ero stravolto. L'ho afferrata per le spalle, ho incominciato a scuoterla latrandole sulla faccia degli insulti, a denti stretti per non farmi sentire dai vicini. Mi guardava con occhi sbarrati, muta, terrorizzata. Continuavo a squassarla e gli scuotimenti le facevano rimbalzare sul petto la collana. Era una collana di piccoli grani neri maculati di bianco. Con una mano l'ho ghermita e l'ho girata e rigirata tanto da stringergliela sul collo. Lei stava già emettendo un gemito roco, strozzato, quando il filo s'è spezzato e i grani sono come esplosi a raggiera, tutt'intorno. Di nuovo l'ho presa per le spalle e l'ho gettata sul letto, ma si è messa a urlare e allora, per farla tacere, ho afferrato un cuscino e gliel'ho premuto sulla faccia. A lungo, troppo a lungo: quando l'ho tolto, era già morta.
Questo ricordo che, ripeto, non è mio, mi sta angosciando, non solo nelle ore dell'insonnia mattutina quando mi si dipana nella mente come la sceneggiatura di un film, ma anche durante il giorno. C'è una parte di me che si appropria di elementi di cronaca e li manipola in ricostruzioni di fatti mostruosi nei quali vuole coinvolgermi. In certi momenti non so proprio in quale realtà sono, se dentro o fuori quella brutta vicenda.
A confondermi ancora di più ci si mettono circostanze strane. Ieri sera levandomi i pantaloni ho sentito un leggero tintinnìo e ho visto correre sul pavimento una pallina: forse era caduta da un risvolto. L'ho osservata: era nera striata di bianco, forse di onice, con un forellino centrale. Sembrava una pallina di quella collana. Di colpo m'è parso che scottasse, ho aperto la finestra e l'ho gettata via. Ma cosa sta succedendo, la fantasia riesce a invadere la realtà? Ed è poi vero che mi sono trovato in mano una di quelle palline? Mi viene il dubbio che anche questo episodio sia frutto di una immaginazione perversa.






domenica 17 gennaio 2016

La camera di fondo

Le finestre dell'alloggio si affacciavano sulla piazza verde di alberi e chiassosa delle grida dei bimbi. La prima camera, d'angolo, aveva anche un balcone sulla via che sfociava nella piazza. Dall'altra estremità, invece, la camera di fondo dava in un cortile interno. In casa la chiamavano la camera del nonno. Andreino se lo ricordava bene suo nonno: alto e magro, con i baffi spioventi, la testa calva e lucida. Stava tutto il giorno seduto nella poltrona d'angolo, vicino alla finestra dalla quale pioveva una luce opaca che non riusciva a togliere dalla penombra le sagome scure degli armadi e del letto. Con la coperta sulle ginocchia per tener calde le gambe che non lo reggevano più, stava col busto tutto spostato verso la finestra per non lasciarsi sfuggire nemmeno un raggio della poca luce. I vetri erano quasi sempre chiusi perché suo nonno temeva il freddo, anche d'estate. Erano aperti, qualche ora del giorno, in luglio e in agosto. Allora scendevano dalla stretta tromba formata dai quattro muri del cortile le voci delle donne che parlavano da finestra a finestra e gli odori: uno strano, nauseabondo miscuglio di odore di cucina e di gabinetto.
Andreino, da ragazzo, andava a trovarlo, a volte, suo nonno, ma si stancava subito: la poca luce era opprimente, gli faceva venir voglia di piangere e, se la finestra era aperta, si sentiva un nodo allo stomaco per i miasmi;. Suo nonno lo accarezzava sulla testa, gli chiedeva notizie del resto della casa: cosa faceva suo padre, di là, in sartoria; se c'erano dei clienti; cosa succedeva nel giardino. Ma lui, Andreino, non resisteva a lungo; dava qualche risposta e poi scappava. Tornando nelle altre stanze gli sembrava di rinascere; c'era luce, c'era aria buona. Suo padre era sempre in piedi vicino al tavolo intento a disegnare modelli sulle stoffe o a tagliarle; intorno e nella camera accanto c'erano, sedute e chine sugli abiti in lavorazione, quattro o cinque donne, tra sarte e apprendiste.
Adesso era lui, Andreino, che tagliava, ma intorno aveva meno aiutanti perché i tempi erano cambiati e il pubblico preferiva comperare gli abiti fatti. C'era Linda, sua moglie, che era stata una lavorante di suo padre, e c'erano due ragazzine; nella camera del nonno c'era suo padre. Suo padre era malato di arteriosclerosi; apparentemente stava bene ma talvolta, all'improvviso, usciva con discorsi strani o addirittura con delle minacce a chi gli stava vicino. Per diversi mesi aveva trascorso le sue giornate seduto nel salotto, ma erano accaduti spiacevoli incidenti: più di una volta aveva attaccato discorso con i clienti venuti per la prova e poi, senza motivo, li aveva ingiuriati. Due di questi clienti non erano più tornati, evidentemente offesi. Andreino si era visto costretto a relegare suo padre nella camera di fondo.
Per la casa girava il bambino, Pippo, figlio suo e di Linda. Aveva cinque anni ed era indemoniato. Percorreva le stanze ululando, in sella a una piccola bicicletta con ruotine laterali. Qua e là faceva bruschi arresti, si impossessava di un oggetto e ripartiva. Andreino lo doveva inseguire per togliergli di mano le forbici o la manica di una giacca. Pippo a volte andava a trovare il nonno, in camera sua, ma spesso ne tornava piangendo perché il vecchio improvvisamente lo trattava male o lo impauriva; preferiva andare dall'altro capo della casa, nella camera che aveva il balcone sulla via. Nella buona stagione, su questo balcone, si intratteneva a lungo a parlare con Dirce, una bambina maggiore di un anno che abitava nella stessa casa e giocava sul balcone attiguo. Sotto, per la strada, c'era il via vai del traffico, il tram, le automobili, i pedoni.
La bimba chiacchierava molto: spesso indicava un passante, quasi sempre una donna, e improvvisava su questa persona una storia, inventata naturalmente, ma raccontata con tanta verosimiglianza da far rimanere Pippo incantato e alla fine sembrava che anche lei la credesse vera. Poi l'attenzione del bimbo cadeva, quasi sempre per il passaggio di qualche automobile o motocicletta più rumorose del solito: lui si accodava al volo a quel rombo per continuarlo con un'imitazione prodotta dalle labbra, che riusciva a fare vibrare con violenza mentre il viso gli diventava paonazzo. Il suono via via saliva di intensità fin che lei, stanca e infastidita, non gridava a sua volta per farlo tacere. Guidati sempre da Dirce i due bambini si avventuravano anche in altri discorsi: progetti fantastici per quando sarebbero stati grandi. Erano, quei loro incontri attraverso i rispettivi balconi, i soli che potevano avere perché entrambi raramente scendevano nel giardino della piazza: i genitori di Pippo non avevano mai tempo, presi com'erano dal lavoro, e Dirce aveva soltanto la madre che si guadagnava la vita confezionando abitini per bambole.
Andreino si alzava presto al mattino per portare avanti il lavoro. Era difficile far quadrare il bilancio: le commissioni non affluivano con regolarità. A volte gli sarebbero servite altre due lavoranti, in altri periodi gli erano di troppo anche le due che aveva. E il guadagno non compensava a sufficienza la fatica e i sacrifici. Pensava che sarebbe potuto entrare in uno stabilimento per la confezione in serie degli abiti: essendo sarto provetto probabilmente gli avrebbero affidato mansioni direttive in qualche reparto. Avrebbe potuto guadagnare bene. Ne parlava anche con la moglie e insieme fantasticavano su questo progetto, ma mai si decideva a interessarsi davvero della cosa, trattenuto forse istintivamente dal timore di un insuccesso. Quando, raramente, andava nella camera di suo padre e si sentiva avvolgere da quella penombra cupa e triste o investire dall'ondata nauseante degli odori, si riproponeva con fermezza di tentare di cambiar vita per andare in un'altra casa, per togliere suo padre da quella camera di fondo dov'era costretto a restare relegato. Ma poi, appena era uscito, la fermezza del proposito svaniva, allontanata dalle occupazioni del momento e dall'attenzione che il lavoro richiedeva, così il progetto si faceva vago.
Il bambino continuava a scorrazzare avanti e indietro per l'appartamento, gridava, faceva con le labbra l'imitazione di un motore. «Stai buono» gli diceva ogni tanto il padre, ma senza convinzione. Andreino pensava a questo suo figlio con grandi speranze. Chissà cosa avrebbe fatto nella vita, forse cose importanti, non per nulla parlava sempre di automobili e di moto, come se avesse già la tecnica nell'animo. Pensava che sarebbe forse diventato direttore di qualche fabbrica, avrebbe avuto una villa, una vita facile. Avrebbero cambiato casa, allora, fra venti, venticinque anni. Andreino pensava a se stesso: ora aveva trentotto anni, avrebbe potuto trascorrere una buona vecchiaia, con le comodità e le soddisfazioni che prima la vita gli aveva sempre negato. Pippo veniva, andava con la piccola bicicletta, scansando con abilità gli spigoli dei mobili. Ora tornava dalla camera che dava sulla strada; si fermò davanti al tavolo sul quale suo padre stava tagliando e si rivolse a lui: «Sai, babbo, che cosa faremo io e Dirce quando saremo grandi?» «Che cosa farete?» «Fabbricheremo tanti vestiti per le bambole, qui, in questa casa, perché quella di Dirce è troppo piccola». «E io e la mamma?» chiese con tono apprensivo suo padre. «Voi andrete nella camera di fondo, dove c'è il nonno».
Il bambino stava già nuovamente correndo. Andreino si sentì invadere da un senso di angoscia, capiva che c'era sopra di sé qualcosa di ineluttabile, sentiva che i suoi progetti erano tutti assurdi: il lavoro in una fabbrica di confezioni, il figlio personaggio importante dell'industria, la villa, la vita facile. Gli sembrò di sentire l'odore stomachevole che veniva dal cortile sul quale si affacciavano le finestre della cucina, quelle dei gabinetti e anche la finestra della camera di fondo del suo alloggio. Gli parve di essere di nuovo fanciullo, vicino a suo nonno che stava tutto proteso verso la finestra per godere la poca luce del cortile. Il ricordo delle immagini si mischiava al ricordo degli odori e su tutto pesava un senso di fatalità. Andreino si sforzava di distrarsi, ma non ci riusciva.




giovedì 7 gennaio 2016

Basta non sapere

Questi contatti settimanali con alcuni ex allievi gli danno forse l'illusione di avere fermato il tempo al periodo aureo della propria vita, quando insegnava latino e greco al liceo classico Carducci. Era il riveritissimo professor Aurelio Locci, stimato dai colleghi e amato dagli alunni perché da loro sapeva ottenere il massimo senza avere l'aria di usare imposizione: con la dolcezza, la tolleranza, il buon umore. Le sue grammatiche e le sue sintassi frequentemente viravano su improvvise facezie, sicché questo suo spirito allegro alleggeriva il peso delle cose dotte da digerire. Ha lasciato l'insegnamento da quindici mesi, nonostante non abbia ancora cinquant'anni, ma il momento del pensionamento gli era parso economicamente favorevole e ha fatto questa scelta. Gli sarebbe pesata molto la perdita del contatto con i giovani ma, grazie a una circostanza fortuita, questo rapporto diretto con gli ex allievi è rimasto. Erano passate appena tre settimane dalla sua uscita dall'insegnamento quando un pomeriggio, mentre era seduto in una saletta del Caffè Centrale, il locale più alla moda della cittadina, erano entrati quattro dei suoi studenti. Calorose strette di mano, grande soddisfazione da parte di tutti per l'incontro. I ragazzi si erano seduti al tavolino, Locci aveva offerto la consumazione, avevano chiacchierato, scherzato. Alla fine il professore aveva fatto una proposta: se voi e qualche altro vostro compagno avete voglia di incontrarmi, tenete presente che io a quest'ora sono sempre qui. Era un venerdì. Da allora tutti i venerdì, tra le sei e mezza e le sette e mezza di sera, due o tre tavolini del Caffè Centrale sono occupati dal professor Locci e da un gruppo di suoi ex allievi.
Naturalmente non parlano né di latino né di greco. A Locci piace filosofeggiare, ma lo fa con la sua solita arguzia, sa trovare sempre argomenti che tengono vivo l'interesse nel suo uditorio e così non c'è mai un venerdì vuoto, a volte i ragazzi sono cinque o sei, a volte una dozzina. Aperitivo per tutti, ovviamente offerto dal professore, e piacevole scandaglio di un argomento scelto a caso nell'ambito filosofico o del costume corrente, con grande soddisfazione sua e dei giovani. Il tema che Locci sta affrontando oggi è quello della conoscenza: non tanto la conoscenza delle cose scientifiche o comunque quelle che si apprendono con lo studio dei libri (va bene il latino e il greco che loro hanno affrontato fin qui e ancora stanno affrontando), ma la conoscenza degli eventi che riguardano lo stesso individuo e che possono essere avversi e procurargli contrarietà, dolore, angoscia a seconda della loro intensità e gravità. Meglio non sapere nulla, sostiene il professore.
Passa ad un esempio prendendo spunto da una notizia comparsa su un giornale. Un uomo improvvisamente dichiara di essere figlio illegittimo di John Kennedy, l'ormai mitico presidente degli Stati Uniti assassinato a Dallas, e della stella del cinema, altrettanto mitica, per la sua bellezza, Marilyn Monroe. «Ora» sostiene Locci, «questa notizia non porta nessuna conseguenza di qualche peso. Perché? Ma perchè sono morti Kennedy, la Monroe e Jacqueline che del presidente era moglie all'epoca in cui sarebbe nato questo figlio illegittimo. La notizia oggi può essere curiosa, suscitare un certo interesse nel pubblico che ha il ruolo di osservatore, ma non si ripercuote drammaticamente su nessuno perché i diretti interessati non ci sono più. Se invece la notizia avesse fatto la sua irruzione nei mezzi di informazione quando Kennedy era presidente, con gli occhi di tutto il mondo puntati su di lui, la risonanza sarebbe stata enorme. Cioè voglio dire che minore è il clamore che circonda un qualsiasi evento, maggiore è il suo svilimento: se è circondato dal silenzio è come se non esistesse. Ora trasferiamo, come ipotesi, la notizia di un figlio illegittimo su una coppia di semplici cittadini. In questa normalità cosa succede?»
I ragazzi sono attenti, incuriositi dalla strana tesi nella quale si è avventurato Locci. Riprende: «Succede che i rapporti tra marito e moglie si sconvolgono come investiti da un tempestoso fortunale. L'uomo indicato come padre, ammettendo che lo sia davvero, vede con sgomento svelato all'improvviso il suo segreto, sente tramutare la propria immagine di rettitudine in quella di abietto traditore e la moglie si infuria, piange, si dispera, assiste al crollo del mito che aveva creato intorno alla figura leale, onesta, esemplare del suo uomo. Sono entrambi tormentati dall'angoscia, non dormono la notte, litigano quasi in continuazione, basta una delle piccole normali contrarietà quotidiane perchè lei rovesci su di lui, a ripetizione quasi continua, la grande colpa di cui si è macchiato, incoronandola con le spine dei più cattivi epiteti, delle più penetranti offese. E se l'accusa è falsa, se l'uomo non è padre di nessun illegittimo, se non ha mai avuto alcuna relazione con la donna indicata, non meno sconvolgente sarà l'ambascia del suo animo perché dovrà far fronte a questa caterva di accuse infondate e di velenose invettive senza riuscire a convincere la moglie, diventata feroce parte avversa, della calunniosa menzogna».
Una domanda. «Professore, perché dice che è meglio non sapere niente? Come è possibile?»
«Vi ho fatto l'esempio di Kennedy, della Monroe e di Jacqueline: l'annuncio di una presunta illegittima paternità dell'ex presidente non suscita più nulla perchè loro non ci sono più e non succede nient'altro, non cade il mondo, il presunto figlio rimane tale e tutto si mette a tacere. Esattamente questo succederebbe se i nostri due comunissimi cittadini, viventi, non dessero segno di avere recepito la notizia. Dovrebbero assolutamente ignorarla, "non saperla", "non averla mai appresa": in altre parole "basta non sapere" per annullare il problema. Cosa certamente non facile perché si tratta di comandare ai propri sentimenti, soffocare gli istinti, riuscire a mantenere saldi gli equilibri esistenti tra gli interessati. Di fronte a questa apparente insensibilità dei protagonisti chiamati in causa, i commenti, le reazioni esterne si smorzano, non hanno materiale da ardere, tutto finisce».
Il professore tace e tacciono anche i giovani. Sono perplessi, non sembrano molto convinti di questo asserto. Poi uno prova ad obiettare: «Soffocare dentro di sé, o meglio annullare questa conoscenza che se palesata creerebbe disagio o dolore non può causare, alla fine, un più grave trauma psicologico?»
«L'opposizione totale, il rifiuto di questo sconvolgimento comporta senza dubbio uno sforzo che richiede animo molto saldo, ma il premio è grande: si tratta di far proseguire, immutata, la situazione di pace che esisteva un attimo prima dell'avvenuto contatto con la conoscenza dell'evento perturbatore».
«E se io alla fine dell'anno scolastico sarò bocciato, dovrò allegramente far conto di essere stato promosso?»
«No: dovrai semplicemente prendere la bocciatura come una fortunata possibilità di ripercorrere il cammino dell'anno passato con un maggiore impegno».
«Questa è rassegnazione».
«No, la rassegnazione è passiva, io sto parlando di un modo attivo di affrontare l'evento negativo, come se fosse una buona occasione, da vivere felicemente».
Un ragazzo con gli occhiali e il volto macchiato dalle efelidi solleva una mano.
«Dimmi Merlotti».
«E se la mia ragazza mi pianta per andare con un altro?»
«Benissimo, ti libera dall'impegno di dover convivere con una fedifraga. Sarai così più lieto di prima per la libertà e lo scampato pericolo>>.
Gli amici ridono. «Fortunato tu», commenta uno, ma lui ribatte:
«E se io continuo ad amarla?»
«Ma come?» si sorprende Locci, «Non sai proprio comandare ai tuoi istinti? Grave!» Aggiunge: «Vedi, il problema è questo: bisogna sempre regolare le proprie azioni non sulla passione, ma sulla ragione, sapersi mettere al di sopra degli accidenti che può provocare la vita e, anche questo è importante, al di sopra delle opinioni della gente. In altre parole, si deve saper conservare la tranquillità dello spirito sia quando la fortuna è favorevole, sia quando è avversa».

Arriva il titolare del Caffè, si rivolge a Locci: «Professore, la cercano al telefono». Locci lo guarda meravigliato, mormora: «Ma chi può essere che mi cerca qui?»
«È un condomino del palazzo dove abita lei».
«Un condomino? È mai possibile che mi telefoni mentre sono al Caffè Centrale?» Si alza visibilmente preoccupato e si avvia alla cabina. I giovani lo seguono e lo vedono poi, oltre i vetri, mentre sta parlando. A un tratto si porta la mano libera alla testa con un gesto rapido, poi se la tiene sulla fronte. E' un segno evidente di grande preoccupazione. La telefonata continua ancora per un paio di minuti poi il professore riattacca, esce, si dirige a grandi passi al tavolo. Si lascia cadere sulla sedia. E' pallido, sembra che faccia fatica a respirare, si passa ancora la mano alla fronte, come aveva fatto in cabina.
«Dio, cosa càpita!» mormora.
I ragazzi lo guardano allibiti, si chiedono che cosa sarà successo. Il professor Locci emette un lungo sospiro, poi dice tutto d'un fiato, sforzandosi di vincere l'afflizione: «La mia domestica, che era sola in casa, è uscita lasciando aperto un rubinetto in bagno, la casa si è allagata e l'acqua scende al piano di sotto. Dio mio, adesso devo correre, come farò?» Si guarda intorno con occhio smarrito, forse cerca il cameriere per pagare. Uno dei ragazzi, lo tranquillizza:
«Professore, al cameriere pensiamo noi, corra, corra».
Si alza: «Grazie, grazie», vorrebbe stringere le mani, ma non sa da che parte incominciare, anche perché si avvede che la mano destra gli trema. Fa un cenno di saluto, per tutti. «Ciao, ciao, vado, vado». Esce un po' barcollando.