sabato 26 settembre 2015

L'ineluttabile

Simone aveva bottega da fabbro ferraio alla periferia della città, sulla strada della collina. Era uno stanzone nero con una gran porta e nessuna finestra in una catapecchia bassa e lunga che era la sua casa; attigue alla bottega c'erano tre stanze nelle quali abitavano lui, la moglie e la figlia, Lidia. La casa era proprio brutta, cadente; costituita dal solo piano terreno, aveva il tetto molto spiovente, che arrivava a meno di tre metri da terra; facendo un salto col braccio teso in alto si poteva toccare la grondaia che era qua e là slabbrata, arrugginita, bucata: quando pioveva sembrava un colabrodo. Dietro la casa si stendeva un lenzuolo d'orto, lungo e largo una ventina di passi, dove Lidia e sua madre coltivavano l'insalata, i ravanelli, le patate e altro del genere. Su quest'orto si affacciavano le uniche finestre della casa, tre, una per ogni stanza dell'abitazione.
Io lavoravo con Simone già da sei anni: ero entrato nella sua bottega a quattordici anni, nel 1940, come garzone, per imparare l'arte della mascalcia perché in quei tempi di cavalli da ferrare ce n'erano ancora e io sentivo una vocazione per quel mestiere. Casa e orto erano circondati solo da prati, le villette della prima periferia distavano quasi un chilometro. Venivano da noi i barocciai e i contadini che portavano la verdura e la frutta al mercato ogni mattina all'alba con i carretti e poi, sulla strada del ritorno, una volta ogni due o tre mesi, si fermavano a far ferrare il cavallo. Nella fetta d'aia che separava la casa dalla strada c'erano sempre barocci e cavalli in attesa. Io tiravo il mantice per far diventare roventi i ferri da adattare e inchiodare agli zoccoli e tenevo strette le zampe dei cavalli mentre Simone ferrava. Il fumo e l'odore acre che s'alzava dall'unghia intaccata dal fuoco mi stordivano, ma mi piacevano anche.
Lidia era una ragazzina magra e pallida, con i capelli biondi, alta più di me sebbene avesse un anno di meno. Non poteva sopportare l'odore degli zoccoli strinati e io, per farla arrabbiare, se la vedevo in giro intorno alla casa in quei momenti, la chiamavo come se suo padre avesse bisogno; lei, quando s'accorgeva dello scherzo, mi dava uno scappellotto approfittando del fatto che le mie mani erano occupate a trattenere la zampa del cavallo, ma io ridevo contento. Sua madre era una donna nera di vestiti e di espressione, triste e chiusa in sé, altissima e un po' curva. Cercava sempre che sua figlia restasse lontana dalla bottega, nella parte della abitazione. Se la vedeva scherzare con me la chiamava con una voce secca e brusca. Io ci restavo male.
Col passare del tempo il lavoro era calato: certi barocciai avevano venduto il cavallo e comperato il camion; i contadini portavano le verdure dalla campagna con i motofurgoni o i camioncini. La guerra era finita e c'era un grande fervore di lavoro. I palazzi e le ville delle periferia avanzavano verso di noi a vista d'occhio. Quasi ogni settimana s'apriva nella zona un cantiere nuovo. I campi ormai si facevano radi. Passavamo giornate intere senza ferrare un cavallo e stavamo seduti, Simone ed io, davanti alla porta della bottega a guardare i palazzi in costruzione che sembravano dapprima grandi scheletri e che via via si andavano mettendo addosso carne e pelle. «Ma guarda che roba» diceva Simone, «sono proprio diventati tutti matti con questa mania di costruire». E se vedeva scavare le fondamenta di un fabbricato nuovo, per tutta la giornata rimaneva immusonito e mormorava, di tanto in tanto, che così non si andava più avanti. La Lidia era un po' meno magra, più colorita, sempre bionda; si era fatta ancora più bella. Se cercavo di farla venire vicino alla bottega era per dirle qualcosa che le potesse fare piacere, non per farle annusare l'odore delle unghie bruciate.
Sua madre una sera era morta d'improvviso. Per tutto il giorno successivo io ero rimasto in casa di Simone per aiutarlo nei preparativi del funerale e per vegliare la defunta. Avevo anche confortato Lidia e lei si era stretta a me per piangere contro il mio petto. Eravamo soli, ai piedi della bara. I sussulti dei suoi singhiozzi mi si ripercuotevano dentro come se fossi io a piangere convulsamente; e l'odore buono, caldo, che veniva su da lei mi inondava di tenerezza. Le passai le braccia intorno alla schiena e la strinsi forte. Anche lei mi strinse: piangeva più rumorosamente, ma sentivo che le faceva piacere essere con me. Mi sfregò la guancia rorida di pianto contro la mia e mi chiamò per nome con un tono che non le avevo mai sentito: era come se fosse la prima volta che pronunciava il mio nome.
Adesso eravamo sui vent'anni, Lidia e io. Le ville e i palazzi nuovi avevano già raggiunto la casa e non c'erano più cavalli da ferrare. Passavamo lunghe giornate in ozio, Simone e io, oppure forgiavamo dei cancelli per le palazzine in costruzione: un lavoro insulso, senza vita, nemmeno da paragonare con la mascalcia, con il cavallo - lo si capiva bene - che partecipava all'operazione; e con l'odore inebriante dell'unghia bruciata. Ma del resto di quelle commissioni ne avevamo poche. Sarei andato a lavorare da un'altra parte, se fossi stato capace di staccarmi da Lidia. Ci trovavamo di nascosto dietro la casa, ogni giorno verso sera, quando suo padre andava per una mezz'ora a bere un quartino in un negozio di vini aperto lì vicino in una casa nuova. Di nascosto, perché non voleva che lei venisse in bottega quando c'ero io e non voleva che parlasse di fitto con me. Mi faceva capire che Lidia era sua figlia e come padre intendeva farne quello che voleva. Doveva sposare un uomo importante; uno, almeno, che avesse dei soldi. Diceva tutte queste cose come se non fossero rivolte a me e invece lo si capiva lontano un miglio che erano dette per le mie orecchie. E mi diceva anche che io non ero niente, uno senza istruzione, con un mestiere che non rendeva più il becco di un quattrino. Ciononostante Lidia e io ci incontravamo tutte le sere sull'imbrunire e ci abbracciavamo nascostamente nell'orto o in cucina. Ci volevamo un bene che ci sembrava fosse come una pasta tenera che si plasmasse sui nostri corpi.
Anche dietro la casa, al confine con l'orto, c'era un cantiere per la costruzione di un palazzo. Gli operai non finivano mai di fare le fondamenta perché ogni giorno gli scavi si estendevano sempre più: avevano ormai circondato la casa su tre lati affacciandosi alla strada. La catapecchia di Simone sembrava presa in trappola, senza possibilità di scampo, e certo sarebbe sembrata ancora più piccola quando i muri del palazzo si fossero innalzati tutt'intorno. Simone era invelenito. «È roba mia e loro sono matti a costruire tutti questi palazzi. Vorrebbero anche questa terra, dicono che mi offrono quello che voglio, ma è mia e non gliela do neanche per tutto l'oro del mondo».
Ora non ci potevamo più incontrare, io e Lidia, perché c'erano sempre operai a pochi metri di distanza con occhi indiscreti e su di noi campeggiava un'enorme gru che passava minacciosamente sulle nostre teste con grossi carichi di mattoni che penzolavano dalle grandi fauci. Ci rifugiavamo in cucina, appena Simone si assentava per qualche minuto. Pure di fronte alla bottega, sull'altro lato della strada, stavano costruendo e anche più in là, verso la collina. Tutta la zona che circondava la casa era ormai un solo cantiere, fragoroso, sempre animato da rombi di motori, da autocarri che andavano e venivano, da gru altissime che giravano intorno le loro lunghe braccia tese. Di cavalli non c'era più traccia e trascorrevamo giorni senza che dovessimo dare un colpo di mantice. Nemmeno cancelli dovevamo più fabbricare, perché gli impresari li facevano venire già fatti dalle officine che li costruivano in serie, di varie misure. Gli uomini del grande palazzo non lasciavano quasi passare mese senza tornare a chiedere di comperare la terra dell'orto e della casa. «No, no» diceva Simone, «via non ci vado, non so cosa farmene dei vostri soldi: per mangiare mi basta quel poco che ho messo da parte ferrando cavalli. Voglio restare nella mia casa. Sono io il padrone e faccio come mi pare». E quando quelli se ne erano andati picchiava grosse martellate sull'incudine, per sfogare la rabbia. Poi andava a bere e io abbandonavo la bottega per correre in cucina da Lidia.
Fu qui che ci sorprese un pomeriggio. Appena entrato nel negozio di vini era subito uscito e trovando vuota la bottega era venuto in cucina. Lei e io eravamo abbracciati in un angolo, tra il camino e la parete di fondo. Ci stavamo baciando e sul momento non ci accorgemmo di lui che era entrato adagio, senza far rumore. Rimase un momento a guardarci poi lanciò un urlo: «Disgraziati» gridò, «ma cosa fate?» Era nel mezzo della cucina con una mano in alto, minacciosa, stagliata contro la luce della porta che era rimasta aperta dietro le sue spalle. Io mi affiancai a Lidia e le passai un braccio intorno a una spalla. «Noi ci vogliamo bene» dissi. Lui abbassò il pugno e lo picchiò sulla tavola: «No, no, non voglio» gridò. Io rimasi fermo, attaccato a lei che come me stava immobile con gli occhi arditamente fissi al padre. Dal cantiere giungevano rombi di motori e voci sguaiate di uomini; la gru passava sul tetto della casa con un ronzio incombente.
Aspettavamo che accadesse qualcos'altro, che lui dicesse ancora una parola per poter reagire e dirgli che proprio eravamo fermamente decisi a stare uniti. Improvvisamente alle spalle di Simone, nel vano della porta aperta, si presentò un uomo. «Si può?» chiese, e intanto venne dentro. Simone si voltò a guardarlo con occhio acceso e interrogativo. «Scusi» disse l'uomo, «vengo per un avviso». Tolse da una borsa di pelle un foglio e lo presentò a Simone. «Che roba è?» chiese lui. «Un invito: è la giunta comunale che in considerazione dell'impulso assunto dalla città in questa zona la invita ad abbattere questa casa o a ristrutturarla, per esigenze di carattere pubblico». Simone abbassò gli occhi al foglio, poi si guardò intorno a cercare una sedia. Si sedette con lentezza. «E se io non faccio niente?» chiese. «In questo caso si inizierebbe l'azione per l'esproprio» rispose l'uomo.

Simone non si mosse; taceva e guardava il foglio, ma senza leggere, perché i suoi occhi erano immobili su un punto qualsiasi. Poi si voltò a guardare noi che stavamo ancora stretti e abbracciati, quindi guardò il messo. Riabbassò la testa. Aveva un braccio abbandonato sul tavolo con la mano aperta, sembravano il braccio e la mano di un morto tanto erano immobili. «Va bene» disse poi con voce debole, senza alzare gli occhi, «farò come volete». L'uomo salutò e uscì. Rimanemmo a lungo in silenzio. Infine Simone sollevò lo sguardo a noi: «Bisognerà che andiate a cercare quelli del palazzo che mi chiedevano la terra e la casa» disse, con appena un filo di voce.

venerdì 18 settembre 2015

Il padre

Via della Vigna 45: una casa bassa color piombo, due botteghe sormontate da un'unica insegna di lamiera gialla con un nome in alto, Amerigo Martinelli, sottile e lungo, che si stendeva sulla scritta grossa: salumeria-osteria. Forse in tutta la città era l'unico negozio che riunisse due esercizi di natura diversa, un modo che era abbastanza diffuso agli inizi del novecento. Il quartiere, molto popolare, aveva tuttavia parecchi altri negozi antiquati, con le insegne di stile ottocentesco e l'arredamento di legno nero, malandato. Ma si aprivano anche, qua e là, botteghe modernissime, splendenti di luci colorate, di insegne che strizzavano l'occhio con giochi luminosi, che emanavano allegria. E nel confronto le botteghe vecchie precipitavano ancora di più nello squallore.
Lui, dunque, era qui, in questa salumeria-osteria. Nella tasca destra della giacca stringevo la lettera. Mi pareva di saperla tutta a memoria. A un certo punto diceva: "È una casa bassa e scura con due negozi. Sono suoi: lui fa il salumiere e l'oste". E più avanti: "Ti dico tutto questo per scrupolo. Tu farai quello che crederai meglio. Se vorrai potrai anche non conoscerlo mai: la città è tanto grande, si può passare tutta la vita senza aver bisogno di andare in via della Vigna". Indugiai un poco davanti alla casa, feci finta di guardare la vetrina di un orologiaio di fronte, uno dei negozi belli e pieni di luci, poi mi decisi, attraversai la strada e entrai nell'osteria.
Era un camerone stretto e lungo, quasi deserto in quell'ora di pieno pomeriggio. Due vecchi in maniche di camicia stavano seduti a un tavolo sulla destra, vicino alla porta, e giocavano a briscola davanti a due bicchieri di vino; altri tre uomini, di media età, intorno al primo tavolo, vicino al banco, chiacchieravano e bevevano. Tutti gli altri tavoli, una dozzina, erano vuoti, anche al banco non c'era nessuno. Mi sedetti. Uno dei tre si voltò a guardarmi e poi chiamò l'oste: «Martinelli» gridò verso il retrobottega. Martinelli entrò un minuto dopo pulendosi le mani nel grembiule che una volta doveva essere stato bianco e che ora era unto e macchiato di chiazze rossastre di carne. Certo veniva dalla attigua salumeria. «Eccomi qua» disse con una voce secca, puntuta. Mi guardò con aria curiosa e senza smettere di pulirsi le mani si accostò al mio tavolo per chiedermi che cosa volevo ordinare. Non avevo la forza di guardarlo in viso a così breve distanza: mi sentivo emozionato, pensavo di essere pallido o rosso, non capivo bene; il cuore mi andava a sbalzi e avevo paura che mi tremasse la voce. Guardando il tavolo chiesi un quartino. «Rosso o bianco?» domandò lui. «Rosso» dissi io.
Adesso che l'oste era dietro al banco intento a versare il vino lo guardai. Notai per prima cosa il suo naso leggermente aquilino. Anch'io l'ho di quella forma e mi venne fatto di toccarmelo, ma subito ritrassi la mano per posarla sul tavolo. L'oste era stempiato, tuttavia non doveva avere più di quarant'anni; teneva la bocca socchiusa come per un lieve sorriso. Venne al tavolo a posare il quartino e il bicchiere. «Eccolo servito» disse con quella voce stridula, poi se ne tornò dietro al banco e vi si appoggiò con gli avambracci, tutto curvo in avanti, rivolto verso il gruppo dei tre uomini per prendere parte ai loro discorsi.
Bevvi un sorso e continuai a guardarlo. Il cuore mi si era calmato, ora; anzi mi meravigliavo d'essermi agitato. Rividi mia madre nel letto che mi cercava la mano e me la stringeva. «Mario» mi sussurrava, «quando avrò finito di penare mi metterai il vestito nero con il collo di pizzo. È nel cassetto di fondo del mio comò. Voglio che sia tu a prenderlo fuori. Ricordati bene: prendilo fuori tu». Quell'insistenza s'era ripetuta ancora e mi aveva insospettito. Una sera, mentre mia madre si era assopita, avevo tirato il cassetto di fondo del comò e in mezzo al vestito nero avevo trovato la lettera: "per Mario, da aprire quando sarò morta". L'avevo letta in bagno, dieci giorni dopo, mentre mia zia e l'infermiera mettevano a mia madre il vestito nero con il collo di pizzo. "Credo d'avere il dovere di dirti la verità che ti abbiamo sempre nascosto: Rino non è tuo padre. È un cuore d'oro, buono come il pane buono, e tu lo sai bene. Mi ha conosciuta quando io avevo già te, da un anno, e sposandomi ti ha dato il suo cognome. Tuo padre vero è Amerigo Martinelli e abita in via della Vigna 45...".
Bevevo a piccole sorsate e non toglievo gli occhi dall'oste che stava ridacchiando con i tre avventori. Parlavano di un tale che, tornato a casa ubriaco, aveva dovuto trascorrere il resto della notte sul pianerottolo perché la moglie non gli aveva aperto. Una storia banalissima, da concludere in cinque parole. Loro invece ne stavano parlando diffusamente e continuavano a riderci sopra come se fosse una vicenda davvero comica e interessante. Cercavo di non sentire le loro voci, socchiudevo gli occhi e pensavo con intensità alle parole della lettera e all'espressione di mia madre quando m'invitava con aria densa di significati a togliere dal cassetto il vestito nero. "È mio padre, questo" mi dicevo e poi riaprivo gli occhi a guardare fissamente il profilo dell'oste. Ma questo pensiero non mi suscitava dentro alcun sentimento. Non sapevo nemmeno trovare una differenza fra l'oste e gli altri tre seduti al tavolo coi quali parlava: erano tutti uomini sulla stessa età, vestiti piuttosto neglettamente. "Ma è mio padre" insistevo a pensare. Niente: lo trovavo diverso solo perché stava dietro al banco e gli altri erano seduti al tavolo; diverso perché se si fosse drizzato avrebbe mostrato un grembiule biancastro, sporco, trattenuto da una fettuccia che gli girava intorno al collo. "È mio padre" mi ripetevo.
Il pensiero mi ricordò invece Rino, Rino Lovatti, quello che mi aveva dato il suo cognome, quello che per venti anni avevo creduto mio padre vero. Adesso, certo, stava in piedi davanti al tornio e fra un'ora avrebbe finito il lavoro, sarebbe tornato a casa. Dopo cena si sarebbe seduto in poltrona davanti alla televisione, con un gomito appoggiato al bracciolo e il palmo della mano alla guancia, non tanto per guardare quanto per pensare. Stava lì immobile come se seguisse la trasmissione, invece teneva gli occhi bassi, al tavolino di supporto dell'apparecchio. Per lui era come se lo schermo fosse spento, non vibrassero suoni e voci. Questo accadeva da quando era morta mia madre. Serate angosciose, per lui e per me che gli stavo accanto. Ogni tanto apriva bocca per dire: «Ma». Nient'altro. E in quelle desolate esclamazioni c'era tutto il rimpianto di ciò che noi avevamo perduto, c'era l'amore e il dolore per lei, mia madre, che non c'era più.
Mi ricordai di lui com'era tre anni prima, a Natale. La sera della vigilia, rincasando in motorino, era stato travolto da una automobile e l'avevano portato all'ospedale svenuto e sanguinante. Per tutto il giorno dopo era rimasto in preda allo choc e ci guardava senza dimostrare di conoscerci. Aveva un braccio spezzato e la testa fasciata per una larga ferita alla fronte. Piano piano nei giorni che seguirono incominciò a riprendersi. Due settimane dopo era già a casa, con il braccio ingessato, ma allegro. Trascorrevamo lunghe ore, di sera, tutti e tre seduti intorno alla tavola a chiacchierare. La ritrovata possibilità di restare così riuniti, dopo il pericolo e il timore di perderlo, ci sembravano un dono nuovo del quale prima non avevamo mai saputo apprezzare il valore. Non ci importava dei programmi della televisione, preferivamo discorrere tranquilli, senza distrazione, per sentirci vicini, uniti.
Dal retrobottega venne una donna piccola, grassa, coi capelli grigi, le maniche rimboccate e un grembiule bigio. Si infilò tra il banco e batté il dorso della mano su di un braccio dell'oste: «Dammi della moneta» disse. Era certo la moglie che veniva dall'altra bottega. L'oste non le dette retta e continuò a parlare coi tre clienti. «Spòstati, perdiana» gridò la donna e passò a forza per andare ad aprire il cassetto. L'oste ora stava ritto contro lo scaffale, sullo sfondo delle bottiglie, in attesa che la moglie tornasse ad uscire. Rideva con un riso stridente che pareva saltellare per lo stanzone semivuoto. «Starete a vedere quante gare vincerà, quest'anno» diceva. Parlava di qualche campione della bicicletta. «Starete a vedere» ripeteva e ancora rideva. Non potei continuare a guardarlo. Sentii improvviso il desiderio di andare davanti all'oste, di prenderlo per le spalle e scuoterlo perché smettesse di ridere, ma non mi mossi. Gli ripiantai gli occhi addosso e glieli tenni fissi, ma lui non se ne accorgeva.
Il discorso delle corse ciclistiche mi riportò alla mente una domenica estiva di sei o sette anni prima. Ero a letto con la febbre alta, nella strada la gente gridava perché passavano i corridori e nella stanza semibuia, al fondo del letto, mia madre e mio padre in silenzio mi ascoltavano battere i denti. Restai malato per un mese. Mio padre in quel tempo non aveva lavoro e girava per le officine a cercare un posto; tornando a casa veniva a sedersi in fondo al letto e si lamentava della mutua perché non passava le medicine. Era stata un'estate brutta, quella, indimenticabile. Ma l'oste tutte queste cose non le poteva sapere e continuava a ridacchiare; per lui le gare in bicicletta erano soltanto legate a nomi di corridori, quelli che avevano vinto e quelli che avrebbero potuto vincere. Continuavo a guardarlo: stava vuotando da bere ai tre uomini. Era grassottello, forse la sua pelle era anche unta perché appariva lucida. Certo con la salumeria sotto mano doveva sempre aver mangiato bene, senza economie.
E Rino, che cosa avrebbe mangiato stasera? Si sarebbe messo a sedere come al solito davanti alla tivù e sarebbe rimasto lì senza guardarla a farsi sorprendere dal buio, non avrebbe mangiato niente se non fossi andato io a preparargli qualcosa e a insistere perché mangiasse. Pensai al salume: avrei potuto comperare dell'affettato per risolvere con facilità il problema della cena per entrambi. Il pensiero mi era corso alla bottega accanto, ma immaginai che l'oste passasse di là per servirmi. No, sarei andato a comperarlo altrove, lontano di lì, vicino a casa mia. Un affettato incartato da altre mani, che non mi ricordasse niente.

A momenti mio padre sarebbe uscito dall'officina. Era tardi, volevo essere a casa per il suo ritorno. «Babbo» gli avrei detto, «stasera preparo io la cena, prova a indovinare cos'ho comperato». Non gli avrei permesso di rimanere davanti alla televisione a covare pensieri grevi, gli avrei parlato, l'avrei fatto parlare. «Oste» chiamai forte, «quant'è?» L'oste disse il prezzo e venne a prendere la moneta. E io uscii in fretta, dimenticandomi di dare la buonasera.

venerdì 11 settembre 2015

Autunno

Ottobre. Nel livido cielo si è aperto un varco d'azzurro. Non piove più. Le foglie rosse dei tigli stillano l'ultima pioggia. Le gocce cadono su altre foglie a terra. I vialetti del parco hanno per tappeto le foglie gialle, rosso-cupo, color ruggine, larghe, strette, a triangolo, affusolate.
Gian Piero cammina sul tappeto morbido che geme, intriso d'acqua, sotto i suoi piedi. È già il secondo giro che fa intorno alla villa, lentamente, tenendo le mani in tasca, a tratti fischiettando, a tratti incantandosi a guardare i colori che gli sono intorno. Ha sedici anni, porta un maglione rosso con un arabesco giallo sul petto. È il primo giorno che l'indossa; era tanto che lo desiderava. Sua madre diceva: «Te lo farò io, quest'estate, in campagna». L'estate è ormai passata e la mamma ieri ha finito il maglione. Gian Piero lo sente caldo intorno al busto; gli rende molto piacevole il contrasto dell'aria umida e fresca sul viso.
Tra pochi giorni ritornerà in città, riprenderà le scuole, la seconda liceo. Lo studio è noioso, ma in città c'è una consolazione, Martina. Gli ha scritto una lettera ieri l'altro; la stringe nella mano sinistra, in tasca. Gian Piero conosce a memoria quelle parole, eppure ha ancora il desiderio di rileggerle. Accelera un po' il passo, raggiunge la parte posteriore della villa; nelle stanze, su questo lato, non c'è nessuno, può fermarsi liberamente, leggere con tranquillità. Scrive Martina: "Il mio amore è dolce come è dolce l'autunno, carico dei suoi colori e della sua tenerezza. Prendi in mano una foglia caduta da un albero, guarda i suoi riflessi, senti come è morbida, vellutata, tenera, è un gioiello di poesia. Io sento il mio amore come questa foglia, con la sola differenza della mia inesauribile vitalità".
Gian Piero rimette in tasca la lettera, si china, raccoglie una foglia, l'accarezza con mano leggera. Alza lo sguardo intorno: cento e mille foglie sono sugli alberi, tenere e morbide e colorate, un bosco di poesia. Ricomincia a piovere. Un tordo, dalla sommità di un faggio, saluta la pioggia con un canto melodioso.


Ottobre. Che giornata stupenda! Il caldo di settembre ha tracimato in questi primi giorni ottobrini e anche il cielo continua a mantenersi limpido, d'un azzurro che ravviva i colori della campagna. La natura sembra essere in tripudio come se volesse fare corona a questa festa che oggi c'è nel giardino. Sotto i faggi, i tigli, gl'ippocastani che delimitano il prato dietro la villa c'è una distesa di tavolini apparecchiati, quattro posti ogni tavolo, e sotto l'ombrello della secolare sofora s'allunga il tavolo delle vivande, delle bevande, con pile di piatti, file di bicchieri, vasi di fiori; e allineati davanti al tavolo ci sono sei camerieri in giacca bianca e guanti bianchi, in attesa. I tavoli sono vuoti. C'è silenzio e in questo silenzio vivono i canti e i controcanti degli uccelli.
Quando, un mese fa, l'ing. Gian Piero Bertini e la moglie Martina hanno deciso di fare il pranzo qui, nel giardino della loro villa, non osavano sperare di avere una giornata come questa, praticamente estiva: paventavano la pioggia, s'auguravano soltanto tempo mite. A decidere, comunque, non erano stati soltanto loro, ma anche Enrica e Lorenzo, entrambi appassionati di questa che loro chiamano la casa di campagna e nella quale vengono a trascorrere ogni momento libero. Enrica è la loro figlia e Lorenzo il genero. Si stanno sposando adesso, nella chiesa del paese tutta addobbata di fiori. Tra poco arriveranno, seguiti dai genitori, dai parenti e da un centinaio di invitati. Enrica ha ventiquattro anni, è laureata in medicina, mentre Lorenzo, procuratore, sta per diventare avvocato. Per questa figlia unica Gian Piero e Martina hanno sempre fatto quanto potevano e lei, da parte sua, li ha sempre ripagati con amore. Una figlia perfetta; anche il genero sembra un ragazzo molto per bene. Tutto lascia sperare che il matrimonio sia felice. La festa di oggi vuole essere l'avvio di questa felicità.
Ecco che arrivano. Ci sono clacson che strombazzano là in strada. Le prime auto varcano il cancello, parcheggiano nello spiazzo antistante l'ingresso; le altre, e sono decine, si fermano fuori, lungo la via. Ora il parco si sta animando di voci e di colori. C'è un grande movimento nel prato, molti si accingono a prendere posto ai tavoli, i camerieri entrano in casa, vanno in cucina dove i cuochi stanno preparando le portate, escono con piatti fumanti che posano sulla tavola. Oltre la distesa dei tavolini, sotto una quercia, c'è un palco e sul palco ci sono sei suonatori. Fino a qualche minuto fa non si vedevano, erano in giro per il parco, adesso si stanno sistemando davanti ai loro strumenti. Gli invitati cominciano a muoversi dai loro tavolini verso il tavolo lungo per prendere i piatti e scegliere cibi e vini. C'è ressa davanti ai sei camerieri che sono indaffarati a servire gli ospiti. Poi, a poco a poco, tutti vanno ai loro posti, l'impegno di ognuno è soprattutto rivolto al pranzo, c'è quindi un relativo silenzio del quale l'orchestra non abusa limitandosi a suonare in sordina musiche vivaci ma non chiassose.
Più tardi ci sono i brindisi, i clamori dell'allegria generale.
«Tutti gli uccelli del parco devono essere fuggiti spaventati» dice Gian Piero a Martina. Sono a un tavolo con i consuoceri. Finora con loro hanno conversato, discorsi di circostanza; adesso vorrebbero potersi distrarre, si girano a guardare l'orchestra, per non dover continuare a parlare. Sono fianco a fianco, il braccio sinistro di lui sfiora il destro di lei; si prendono per mano, una stretta silenziosa, e si guardano. Una domanda muta: cambierà la loro vita? Tra poco Enrica e Lorenzo partiranno per il viaggio di nozze e al ritorno andranno, in città, nel loro appartamento che da pochi giorni è pronto. Certo qualcosa cambierà per loro. Come vorrebbero essere soli, almeno un momento: forse si abbraccerebbero in silenzio.


Ottobre. Piove: un'acquerugiola sottile e lenta, ma per tre giorni è piovuto a dirotto. Al cancello della villa si ferma un'auto, il clacson suona. Corre ad aprire un giovanotto stempiato con una giacca a righine blu e grigie.
«Bentornato, ingegnere». L'ing. Gian Piero Bertini risponde al saluto con la mano e innesta la marcia, la macchina percorre qualche decina di metri, poi si ferma davanti al portone. È la fine della settimana e l'ingegnere è tornato per rimanere fino a lunedì. In città ha la sua azienda che dirige personalmente, qui oltre alla villa ha il podere con il contadino; nella villa si è trattenuta ancora sua moglie.
L'ingegnere scende dall'auto, si guarda intorno, ha il viso accigliato.
«Ma Bartolomeo» dice al giovanotto stempiato, «c'è bisogno che te lo dica io di pulire il parco? I piedi affondano nelle foglie fradice».
«Scusi tanto ingegnere, ma non si fa in tempo a pulire che subito si sporca di nuovo: le foglie cadono in continuità e piove sempre». L'ingegnere si sofferma sulla soglia, chiede:
«Novità?»
«Con la pioggia di questi giorni è entrata acqua nelle soffitte, ci sono delle tegole rotte, bisognerà far ripassare tutto il tetto».
«Ah» esclama con una smorfia di disappunto l'ingegnere. Poi chiede: «E in campagna?» Il domestico fa un gesto negativo:
«Tonio dice che con tutta quest'acqua l'uva non si può raccogliere e marcisce». L'ingegnere si gira con gesto brusco, innervosito, entra, sale.
Ora riprende a piovere più forte. A un angolo della villa una grondaia ha un foro, l'acqua cade sul marciapiedi, rumorosamente, alzando alti schizzi. L'ingegnere si affaccia a una finestra del primo piano. Indossa una veste da camera nocciola con bavero marrone. Si appoggia con i gomiti al davanzale e guarda gli alberi, i vialetti del parco, il cielo; le nubi sono basse, sembrano quasi toccare le vette degli alberi. Certo se la sofora fosse rimasta intatta, alta com'era, quasi trenta metri, adesso la cima si perderebbe nella nuvolaglia. Ma la sofora è dimezzata: dieci anni fa, d'agosto, durante un temporale notturno, un fulmine l'ha troncata; e ancora adesso la pianta termina con una punta smozzicata: una ferita ancora aperta, che nessuno è mai salito a curare con un taglio netto. Così la sofora, che era un'immagine di eleganza maestosa e dava al parco il tocco della imponenza, ora lo svilisce e immiserisce.
L'ingegnere resta un po' a guardare; si stringe nelle spalle, ha freddo: Chiama:
«Martina, vieni a vedere». Martina gli si affianca. «Guarda che tristezza» dice lui: «siamo già in inverno, ormai, e non ne va bene una. In azienda le vendite sono ferme per la stagione, qui il tetto fa acqua, bisogna mettersi nelle mani dei muratori, l'uva non si può vendemmiare, il parco è sepolto dalle foglie. E Gilda ha telefonato?».
«No, sono quindici giorni che non si fa sentire». Lui scuote la testa, in un gesto di avvilimento. Gilda è la nipote, ha sedici anni e vive con il padre, l'avvocato Lorenzo. La madre, Enrica, da quando si è separata dal marito, otto anni fa, si è trasferita in una città del sud dove lavora in un laboratorio di analisi. La bambina all'inizio della separazione trascorreva un po' di tempo con la madre e un po' con il padre, poi ha optato per lui. Dai nonni andava abbastanza spesso, sia in città, sia in campagna durante i fine settimana, ma negli ultimi tempi queste visite si sono rarefatte. Anche Enrica viene sempre più di rado; laggiù convive con un collega che i genitori non hanno mai conosciuto.
L'acqua che cade dalla grondaia scroscia sul marciapiedi, intorno al suo rumore c'è la punteggiatura sonora delle gocce sulle foglie degli alberi vicini. Un branco di corvi neri solca lo spazio grigio di cielo, tra il tetto e le cime dei faggi, gracchiando. L'ingegnere solleva il busto, si porta una mano alla schiena come per alleviare una sofferenza, invita la moglie a rientrare, chiude la finestra.
«Di questi giorni» dice, «sembra che non debba mai più venire il sole».


Ottobre. Il vento scuote gli alberi del parco, le foglie si staccano, volano, vanno a cadere lontano, quelle che sono a terra s'alzano o si rincorrono in mulinelli. In cielo vagano grosse nubi bianche, sembrano montagne di neve. È freddo. Bartolomeo, iI domestico, varca il cancello, lo richiude, si incammina con passo svelto verso la villa. Nella mano sinistra stringe un pacchetto, con la destra cerca di tenersi serrata la giacca davanti al petto. Sulla testa quasi calva ha un berretto a visiera. Sale al primo piano.
L'ingegnere è nella camera di soggiorno, seduto in poltrona, di spalle alla porta; a lato ha una stufetta elettrica accesa, sulle ginocchia una coperta. Gli è davanti la finestra oltre la quale gli alberi scuotono le loro cime ancora frondose disperdendo le foglie che fuggono rapide. Sono foglie rosse, gialle, strette, larghe, allungate: il bianco delle nubi le fa risaltare. Il domestico entra.
«Ingegnere» dice, «il farmacista mi ha voluto aggiungere un'altra specialità, un prodotto nuovo che assicura ottimo».
«Martina» chiama il vecchio voltandosi verso l'uscio della camera accanto, «vieni un po' a vedere queste medicine».
Martina entra, ha uno scialletto sulle spalle, è pallida, con la pelle rugosa, ma è ancora alta e ritta. Si avvicina al domestico, prende il pacchetto, lo apre. Dentro ci sono due tubetti e due scatole rotonde metalliche. Prende in mano uno dei tubetti.
«Questo non era nella ricetta», osserva.
«Appunto» dice l'ingegnere, «gliel'ha dato il farmacista assicurandogli che è buonissimo». Martina legge:
«Conteril B2, contro lombaggini, artriti, reumatismi».
«Bene» dice l'ingegnere, «lo proverò, vedremo se è più efficace degli altri. Stasera, quando andiamo a letto, mi frizionerai la schiena; questo vento lo sento nelle ossa. L'importante, ad ogni modo» continua l'ingegnere, «è che il farmacista non sia mai sprovvisto di Pertramina, che è la migliore di tutte queste pomate. Dopo un buon massaggio mi sentirei di andare anche in giro per il parco, nel vento freddo e sotto la pioggia».

L'ingegnere tace un momento, guarda gli alberi che si flettono; ode, fuori, un assiolo che ripete il suo grido: chiù, chiù, chiù. Ha un momento di esitazione, poi chiama la moglie:
«Martina, sarà bene che la frizione con la nuova pomata me la faccia subito».




giovedì 3 settembre 2015

Dignità

La casa in fiamme. L'incendio, divampato al pianterreno in un magazzino di vernici, aveva già conquistato il secondo piano dello stabile. I pompieri lavoravano senza sosta con gli idranti e con le lunghe scale per salvare, attraverso le finestre, gli inquilini bloccati nelle stanze. Urla laceranti di donne e pianti di bimbi s'innestavano via via nel rombo dei motori delle pompe e nel crepitare del fuoco.
Dall'alto della sua scala il pompiere Anderlini si affacciò a una finestra del quarto piano: «Venga» gridò, «venga che la porto giù». Il vecchio, forse ottuagenario, rimaneva immobile al centro della stanza, la camera da pranzo. Avvolto dal fumo che mangiava i contorni di tutte le cose, era in piedi a fianco del tavolo, con una mano posata sul piano, l'altro braccio disteso lungo il fianco: sembrava in posa per una fotografia dell'Ottocento, con i baffi lunghi, gli occhi fissi. «Venga avanti, si appoggi al davanzale, così la carico su una spalla e scendiamo» l'invitò ancora il pompiere. Il vecchio fece un passo avanti: un passo incerto. «Sono un colonnello» disse con voce stentorea, ma si interruppe scosso da un accesso di tosse per l'asprezza dell'aria ormai irrespirabile. Poi riprese: «non ho bisogno di essere portato a spalle, io» e decisamente avanzò fino alla finestra facendo largo con una mano perchè il pompiere si scansasse. Si mise di sbieco, sollevò una gamba per farla arrivare al davanzale, ma stentava a riuscirci e il pompiere allungò una mano per aiutarlo a sollevarla. Con molta fatica la manovra approdò: seduto sul davanzale il colonnello riuscì a tirar su anche l'altra gamba e si girò verso l'esterno. Dondolava la testa in segno positivo, per dire con orgoglio che ce l'aveva fatta, era già pronto per la discesa. Posò un piede sul primo gradino, poi l'altro sul secondo, sempre sorretto dalle mani del pompiere. A metà discesa ebbe un moto di liberazione per togliersi di torno le braccia soccorritrici. «So scendere da solo» disse. Gli tremavano le mani e i piedi, tuttavia scendeva, ora preceduto dal pompiere che stava pronto per afferrarlo. Due minuti ancora e poi era a terra, annerito dal fumo, con gli occhi sbarrati, scintillanti. «Ero negli alpini, io: un colonnello degli alpini», disse.

L'albero di cuccagna. C'era la fiera nel villaggio collinare. La piazza era gremita di bancarelle e dietro la chiesa, nel campo di calcio, si alzava un alto palo alla cui sommità erano attaccati, a grappolo, i più svariati oggetti: dal salame al copertone di bicicletta, dal fiasco di vino al barattolo di conserva. Era l'albero di cuccagna: i premi appesi sarebbero andati a chi li avesse raggiunti per primo dopo essersi arrampicato lungo la superficie liscia e insaponata. La gara, aperta a tutti, si sarebbe svolta nel pomeriggio. La gente faceva pronostici: «Vincerà Domenico, il garzone del fornaio». «No, vincerà Luigino, il figlio di Battista». Nel gruppo s'alzò una voce: «Ve lo dico io chi vincerà: il pompiere Anderlini che oggi deve venire dalla città a trovare la famiglia qui in villeggiatura, più agile di un pompiere non c'è nessuno».
Nel pomeriggio la folla si accalcò intorno al palo e la gara ebbe inizio, ma nessuno riusciva ad andare oltre la metà della salita. Le risate nascevano dalla folla a ondate, ogniqualvolta il concorrente di turno all'assalto della cuccagna scivolava perdendo la quota conquistata a costo di tanta fatica. A un tratto un giovane gridò: «Sta arrivando il pompiere». Tutti si voltarono verso la strada e videro Anderlini che veniva avanti lentamente assieme alla moglie e alla bambina; vestiva in borghese, un abito grigio con camicia bianca e scarpe di camoscio, e guardava incuriosito verso il palo. Uno gridò: «Vieni giù Michele, che adesso il pompiere ti fa vedere come si fa ad arrivare in cima». Il pompiere si voltò di scatto a guardare quello che aveva parlato. Gli puntò addosso due occhi fissi e freddi e così glieli tenne a lungo. Tutta la gente tacque e guardò il pompiere che continuava a fissare l'altro. Sembrava che stesse per partire un gesto d'ira, un gesto violento. Infine disse, lentamente: «Continuate pure a giocare» e si avviò per tornare indietro, assieme alla moglie e alla bimba, a passeggiare sulla strada.
Un'ora dopo alla cuccagna arrivò Luigino, il figlio del contadino Battista.


Un paio di pantaloni. Quando il giovane Luigino ebbe finito di scaricare le bottiglie di vino dal motocarro, nel cortile del padrone, fece un fischio e chiamò Mafalda, la donna di servizio, perché dicesse alla signora che lui aveva ultimato e se ne tornava in campagna. Invece di Mafalda venne sul balcone la vecchia signora, moglie dell'avvocato proprietario del podere del quale il padre di Luigino era affittuario. «Che bravo ragazzo, sei», disse guardando le bottiglie allineate a terra davanti alla porta della cantina. Aggiunse: «Ma come mai sei così mal conciato?» e gli indicò i pantaloni che avevano, in una gamba, uno strappo sopra il ginocchio. Luigino tirò su le spalle: «Non importa» disse, «mica devo andare a ballare, per lavorare vado bene anche così». La signora gli fece segno di aspettare e rientrò nella stanza. Riapparve poco dopo con un involto che buttò giù, sul motocarro. «È un regalo per te» disse. Luigino ringraziò e andò in sella a mettere in moto.
Appena fu due strade più in là accostò al marciapiedi e aprì il fagotto: moriva dalla voglia di vedere cosa conteneva. C'era un paio di pantaloni color marrone, usati, lo si vedeva bene: erano pantaloni del padrone, Luigino ricordava di averglieli visti una volta che era venuto in campagna a vedere vendemmiare. Avevano delle macchie qua e là e dietro erano lisi. Con un gesto brusco, iroso, li gettò nel cassone del motocarro. In fondo alla strada c'era una chiesa e su un gradino della porta stava seduto un mendicante. Fermò il motocarro, afferrò i pantaloni e andò ad offrirglieli: «Le vuole queste braghe?» Il vecchio si alzò, prese in mano i pantaloni, li rigirò e incominciò a ringraziare: «Dio la benedica, Dio la benedica». Luigino stava già andandosene col suo motore rombante.


Una cicca lunga. La chiesa, illuminata a giorno anche all'esterno con grossi riflettori, s'andava affollando di fedeli per la cerimonia notturna in onore del patrono della città. Davanti alla porta il mendicante era contento: la gente era generosa e lui aveva i pantaloni nuovi, color marrone, che gli aveva regalato un bravo giovane tre giorni prima. Il mendicante stendeva la mano e pronunciava in continuità parole di benedizione, guardando in faccia i fedeli.
Un uomo alto, coi baffi biondi, quando fu sulla soglia della chiesa si tolse di bocca la sigaretta, ancora lunga per metà, e la buttò a terra. Il mendicante non potè evitare di seguire con l'occhio la parabola dell'oggetto bianco che cadeva e sbagliò il ritornello di ringraziamento che stava pronunciando. Subito si riprese; tuttavia continuò a pensare alla cicca, alla lunga cicca: era lì, a tre passi, vicino al muro, ancora accesa. Ma non poteva chinarsi: lui chiedeva la carità, non andava a raccattare gli avanzi degli altri come fanno i cani. Pensava alla cicca e intanto si ergeva sempre più sul busto e con la mano libera si apriva la giacca perchè si vedessero i pantaloni belli, color marrone. Mendicava l'elemosina, ma era pulito, ben curato, non era uno che facesse schifo, lui; la gente doveva ben notarle queste cose.
Improvvisamente le luci si spensero, tutte, sia dentro che fuori della chiesa. Era una delle solite interruzioni di corrente, a volte duravano pochi minuti, qualche volta anche mezz'ora. Dalla folla si alzò come una preghiera un coro di esclamazioni. Sulla porta della chiesa giungeva tenue, rossastro, il chiarore delle candele, ma non riusciva a varcare la soglia e a forzare il buio della notte. Meno di due minuti dopo la luce tornò e i riflettori furono di nuovo incandescenti. Il mendicante riprese a stendere la mano; con l'altra toccava, in una tasca, la cicca, la lunga cicca dell'uomo coi baffi biondi. "Meno male che è venuta a mancare la corrente" pensò. Infatti, ad un'estremità del sagrato, a lato della gente che ancora entrava alla spicciolata in chiesa, aveva scorto il vecchio Tonino che avanzava a testa bassa, com'era sua abitudine, perché così vedeva le cicche da puntare col bastoncino chiodato.

Un raccolto bagnato. Il cielo si oscurò rapidamente, poi, ad uno strappo di tuono, incominciò a piovere. La gente si mise a correre per andare al coperto. Tonino era proprio di fronte a un balcone, attraversò la strada e ci andò al riparo. Un momento dopo arrivarono due giovani e anch'essi si fermarono, si asciugarono la faccia, si pettinarono. «Ehilà, Tonino» lo salutò uno dei due. L'altro fece una risata e disse: «Tonino, adesso la pioggia ti bagna il raccolto delle cicche». «Pazienza» disse Tonino, «aspetterò che si asciughino». Il primo chiese: «E fino adesso ne hai raccolte molte?» «No, stavo andando allo stadio: ieri c'è stata la partita, ci sarà da far bene». «Sei proprio scalognato» disse il secondo giovane, «quanti soldi perderai?» «Forse due mila lire». «Perché» chiese l'altro, «il tabacco che raccogli lo vendi?» «Lo vendo ai vecchi del ricovero». «E coi soldi che ci fai?» «Ci mangio».
La pioggia batteva forte sul selciato. I giovani e il vecchio ora tacevano e ascoltavano quel suono disteso sulla terra. Poi, all'improvviso come aveva incominciato, smise di piovere. Uno dei giovani tolse dal portamonete un po' di spiccioli e li allungò al vecchio. «Tieni» disse, «così rimedi un po' alla pioggia». Il vecchio guardò le monete, poi guardò il giovane. «Grazie» disse, «ma io vado a cicche, non vado all'elemosina», e si avviò rasente al muro, per evitare le pozzanghere.