Simone aveva bottega da fabbro
ferraio alla periferia della città, sulla strada della collina. Era
uno stanzone nero con una gran porta e nessuna finestra in una
catapecchia bassa e lunga che era la sua casa; attigue alla bottega
c'erano tre stanze nelle quali abitavano lui, la moglie e la figlia,
Lidia. La casa era proprio brutta, cadente; costituita dal solo piano
terreno, aveva il tetto molto spiovente, che arrivava a meno di tre
metri da terra; facendo un salto col braccio teso in alto si poteva
toccare la grondaia che era qua e là slabbrata, arrugginita, bucata:
quando pioveva sembrava un colabrodo. Dietro la casa si stendeva un
lenzuolo d'orto, lungo e largo una ventina di passi, dove Lidia e sua
madre coltivavano l'insalata, i ravanelli, le patate e altro del
genere. Su quest'orto si affacciavano le uniche finestre della casa,
tre, una per ogni stanza dell'abitazione.
Io lavoravo con Simone già da
sei anni: ero entrato nella sua bottega a quattordici anni, nel 1940,
come garzone, per imparare l'arte della mascalcia
perché in quei tempi di cavalli da ferrare ce n'erano ancora e io
sentivo una vocazione per quel mestiere. Casa e orto erano circondati
solo da prati, le villette della prima periferia distavano quasi un
chilometro. Venivano da noi i barocciai e i contadini che portavano
la verdura e la frutta al mercato ogni mattina all'alba con i
carretti e poi, sulla strada del ritorno, una volta ogni due o tre
mesi, si fermavano a far ferrare il cavallo. Nella fetta d'aia che
separava la casa dalla strada c'erano sempre barocci e cavalli in
attesa. Io tiravo il mantice per far diventare roventi i ferri da
adattare e inchiodare agli zoccoli e tenevo strette le zampe dei
cavalli mentre Simone ferrava. Il fumo e l'odore acre che s'alzava
dall'unghia intaccata dal fuoco mi stordivano, ma mi piacevano anche.
Lidia era una ragazzina magra
e pallida, con i capelli biondi, alta più di me sebbene avesse un
anno di meno. Non poteva sopportare l'odore degli zoccoli strinati e
io, per farla arrabbiare, se la vedevo in giro intorno alla casa in
quei momenti, la chiamavo come se suo padre avesse bisogno; lei,
quando s'accorgeva dello scherzo, mi dava uno scappellotto
approfittando del fatto che le mie mani erano occupate a trattenere
la zampa del cavallo, ma io ridevo contento. Sua madre era una donna
nera di vestiti e di espressione, triste e chiusa in sé, altissima e
un po' curva. Cercava sempre che sua figlia restasse lontana dalla
bottega, nella parte della abitazione. Se la vedeva scherzare con me
la chiamava con una voce secca e brusca. Io ci restavo male.
Col passare del tempo il
lavoro era calato: certi barocciai avevano venduto il cavallo e
comperato il camion; i contadini portavano le verdure dalla campagna
con i motofurgoni o i camioncini. La guerra era finita e c'era un
grande fervore di lavoro. I palazzi e le ville delle periferia
avanzavano verso di noi a vista d'occhio. Quasi ogni settimana
s'apriva nella zona un cantiere nuovo. I campi ormai si facevano
radi. Passavamo giornate intere senza ferrare un cavallo e stavamo
seduti, Simone ed io, davanti alla porta della bottega a guardare i
palazzi in costruzione che sembravano dapprima grandi scheletri e che
via via si andavano mettendo addosso carne e pelle. «Ma guarda che
roba» diceva Simone, «sono proprio diventati tutti matti con questa
mania di costruire». E se vedeva scavare le fondamenta di un
fabbricato nuovo, per tutta la giornata rimaneva immusonito e
mormorava, di tanto in tanto, che così non si andava più avanti. La
Lidia era un po' meno magra, più colorita, sempre bionda; si era
fatta ancora più bella. Se cercavo di farla venire vicino alla
bottega era per dirle qualcosa che le potesse fare piacere, non per
farle annusare l'odore delle unghie bruciate.
Sua madre una sera era morta
d'improvviso. Per tutto il giorno successivo io ero rimasto in casa
di Simone per aiutarlo nei preparativi del funerale e per vegliare la
defunta. Avevo anche confortato Lidia e lei si era stretta a me per
piangere contro il mio petto. Eravamo soli, ai piedi della bara. I
sussulti dei suoi singhiozzi mi si ripercuotevano dentro come se
fossi io a piangere convulsamente; e l'odore buono, caldo, che veniva
su da lei mi inondava di tenerezza. Le passai le braccia intorno alla
schiena e la strinsi forte. Anche lei mi strinse: piangeva più
rumorosamente, ma sentivo che le faceva piacere essere con me. Mi
sfregò la guancia rorida di pianto contro la mia e mi chiamò per
nome con un tono che non le avevo mai sentito: era come se fosse la
prima volta che pronunciava il mio nome.
Adesso eravamo sui vent'anni,
Lidia e io. Le ville e i palazzi nuovi avevano già raggiunto la casa
e non c'erano più cavalli da ferrare. Passavamo lunghe giornate in
ozio, Simone e io, oppure forgiavamo dei cancelli per le palazzine in
costruzione: un lavoro insulso, senza vita, nemmeno da paragonare
con la mascalcia, con il cavallo - lo si capiva bene - che
partecipava all'operazione; e con l'odore inebriante dell'unghia
bruciata. Ma del resto di quelle commissioni ne avevamo poche. Sarei
andato a lavorare da un'altra parte, se fossi stato capace di
staccarmi da Lidia. Ci trovavamo di nascosto dietro la casa, ogni
giorno verso sera, quando suo padre andava per una mezz'ora a bere un
quartino in un negozio di vini aperto lì vicino in una casa nuova.
Di nascosto, perché non voleva che lei venisse in bottega quando
c'ero io e non voleva che parlasse di fitto con me. Mi faceva capire
che Lidia era sua figlia e come padre intendeva farne quello che
voleva. Doveva sposare un uomo importante; uno, almeno, che avesse
dei soldi. Diceva tutte queste cose come se non fossero rivolte a me
e invece lo si capiva lontano un miglio che erano dette per le mie
orecchie. E mi diceva anche che io non ero niente, uno senza
istruzione, con un mestiere che non rendeva più il becco di un
quattrino. Ciononostante Lidia e io ci incontravamo tutte le sere
sull'imbrunire e ci abbracciavamo nascostamente nell'orto o in
cucina. Ci volevamo un bene che ci sembrava fosse come una pasta
tenera che si plasmasse sui nostri corpi.
Anche dietro la casa, al
confine con l'orto, c'era un cantiere per la costruzione di un
palazzo. Gli operai non finivano mai di fare le fondamenta perché
ogni giorno gli scavi si estendevano sempre più: avevano ormai
circondato la casa su tre lati affacciandosi alla strada. La
catapecchia di Simone sembrava presa in trappola, senza possibilità
di scampo, e certo sarebbe sembrata ancora più piccola quando i muri
del palazzo si fossero innalzati tutt'intorno. Simone era invelenito.
«È roba mia e loro sono matti a costruire tutti questi palazzi.
Vorrebbero anche questa terra, dicono che mi offrono quello che
voglio, ma è mia e non gliela do neanche per tutto l'oro del mondo».
Ora non ci potevamo più
incontrare, io e Lidia, perché c'erano sempre operai a pochi metri
di distanza con occhi indiscreti e su di noi campeggiava un'enorme
gru che passava minacciosamente sulle nostre teste con grossi carichi
di mattoni che penzolavano dalle grandi fauci. Ci rifugiavamo in
cucina, appena Simone si assentava per qualche minuto. Pure di fronte
alla bottega, sull'altro lato della strada, stavano costruendo e
anche più in là, verso la collina. Tutta la zona che circondava la
casa era ormai un solo cantiere, fragoroso, sempre animato da rombi
di motori, da autocarri che andavano e venivano, da gru altissime
che giravano intorno le loro lunghe braccia tese. Di cavalli non
c'era più traccia e trascorrevamo giorni senza che dovessimo dare un
colpo di mantice. Nemmeno cancelli dovevamo più fabbricare, perché
gli impresari li facevano venire già fatti dalle officine che li
costruivano in serie, di varie misure. Gli uomini del grande palazzo
non lasciavano quasi passare mese senza tornare a chiedere di
comperare la terra dell'orto e della casa. «No, no» diceva Simone,
«via non ci vado, non so cosa farmene dei vostri soldi: per mangiare
mi basta quel poco che ho messo da parte ferrando cavalli. Voglio
restare nella mia casa. Sono io il padrone e faccio come mi pare». E
quando quelli se ne erano andati picchiava grosse martellate
sull'incudine, per sfogare la rabbia. Poi andava a bere e io
abbandonavo la bottega per correre in cucina da Lidia.
Fu qui che ci sorprese un
pomeriggio. Appena entrato nel negozio di vini era subito uscito e
trovando vuota la bottega era venuto in cucina. Lei e io eravamo
abbracciati in un angolo, tra il camino e la parete di fondo. Ci
stavamo baciando e sul momento non ci accorgemmo di lui che era
entrato adagio, senza far rumore. Rimase un momento a guardarci poi
lanciò un urlo: «Disgraziati» gridò, «ma cosa fate?» Era nel
mezzo della cucina con una mano in alto, minacciosa, stagliata contro
la luce della porta che era rimasta aperta dietro le sue spalle. Io
mi affiancai a Lidia e le passai un braccio intorno a una spalla.
«Noi ci vogliamo bene» dissi. Lui abbassò il pugno e lo picchiò
sulla tavola: «No, no, non voglio» gridò. Io rimasi fermo,
attaccato a lei che come me stava immobile con gli occhi arditamente
fissi al padre. Dal cantiere giungevano rombi di motori e voci
sguaiate di uomini; la gru passava sul tetto della casa con un ronzio
incombente.
Aspettavamo che accadesse
qualcos'altro, che lui dicesse ancora una parola per poter reagire e
dirgli che proprio eravamo fermamente decisi a stare uniti.
Improvvisamente alle spalle di Simone, nel vano della porta aperta,
si presentò un uomo. «Si può?» chiese, e intanto venne dentro.
Simone si voltò a guardarlo con occhio acceso e interrogativo.
«Scusi» disse l'uomo, «vengo per un avviso». Tolse da una borsa
di pelle un foglio e lo presentò a Simone. «Che roba è?» chiese
lui. «Un invito: è la giunta comunale che in considerazione
dell'impulso assunto dalla città in questa zona la invita ad
abbattere questa casa o a ristrutturarla, per esigenze di carattere
pubblico». Simone abbassò gli occhi al foglio, poi si guardò
intorno a cercare una sedia. Si sedette con lentezza. «E se io non
faccio niente?» chiese. «In questo caso si inizierebbe l'azione per
l'esproprio» rispose l'uomo.
Simone non si mosse; taceva e
guardava il foglio, ma senza leggere, perché i suoi occhi erano
immobili su un punto qualsiasi. Poi si voltò a guardare noi che
stavamo ancora stretti e abbracciati, quindi guardò il messo.
Riabbassò la testa. Aveva un braccio abbandonato sul tavolo con la
mano aperta, sembravano il braccio e la mano di un morto tanto erano
immobili. «Va bene» disse poi con voce debole, senza alzare gli
occhi, «farò come volete». L'uomo salutò e uscì. Rimanemmo a
lungo in silenzio. Infine Simone sollevò lo sguardo a noi:
«Bisognerà che andiate a cercare quelli del palazzo che mi
chiedevano la terra e la casa» disse, con appena un filo di voce.