venerdì 18 settembre 2015

Il padre

Via della Vigna 45: una casa bassa color piombo, due botteghe sormontate da un'unica insegna di lamiera gialla con un nome in alto, Amerigo Martinelli, sottile e lungo, che si stendeva sulla scritta grossa: salumeria-osteria. Forse in tutta la città era l'unico negozio che riunisse due esercizi di natura diversa, un modo che era abbastanza diffuso agli inizi del novecento. Il quartiere, molto popolare, aveva tuttavia parecchi altri negozi antiquati, con le insegne di stile ottocentesco e l'arredamento di legno nero, malandato. Ma si aprivano anche, qua e là, botteghe modernissime, splendenti di luci colorate, di insegne che strizzavano l'occhio con giochi luminosi, che emanavano allegria. E nel confronto le botteghe vecchie precipitavano ancora di più nello squallore.
Lui, dunque, era qui, in questa salumeria-osteria. Nella tasca destra della giacca stringevo la lettera. Mi pareva di saperla tutta a memoria. A un certo punto diceva: "È una casa bassa e scura con due negozi. Sono suoi: lui fa il salumiere e l'oste". E più avanti: "Ti dico tutto questo per scrupolo. Tu farai quello che crederai meglio. Se vorrai potrai anche non conoscerlo mai: la città è tanto grande, si può passare tutta la vita senza aver bisogno di andare in via della Vigna". Indugiai un poco davanti alla casa, feci finta di guardare la vetrina di un orologiaio di fronte, uno dei negozi belli e pieni di luci, poi mi decisi, attraversai la strada e entrai nell'osteria.
Era un camerone stretto e lungo, quasi deserto in quell'ora di pieno pomeriggio. Due vecchi in maniche di camicia stavano seduti a un tavolo sulla destra, vicino alla porta, e giocavano a briscola davanti a due bicchieri di vino; altri tre uomini, di media età, intorno al primo tavolo, vicino al banco, chiacchieravano e bevevano. Tutti gli altri tavoli, una dozzina, erano vuoti, anche al banco non c'era nessuno. Mi sedetti. Uno dei tre si voltò a guardarmi e poi chiamò l'oste: «Martinelli» gridò verso il retrobottega. Martinelli entrò un minuto dopo pulendosi le mani nel grembiule che una volta doveva essere stato bianco e che ora era unto e macchiato di chiazze rossastre di carne. Certo veniva dalla attigua salumeria. «Eccomi qua» disse con una voce secca, puntuta. Mi guardò con aria curiosa e senza smettere di pulirsi le mani si accostò al mio tavolo per chiedermi che cosa volevo ordinare. Non avevo la forza di guardarlo in viso a così breve distanza: mi sentivo emozionato, pensavo di essere pallido o rosso, non capivo bene; il cuore mi andava a sbalzi e avevo paura che mi tremasse la voce. Guardando il tavolo chiesi un quartino. «Rosso o bianco?» domandò lui. «Rosso» dissi io.
Adesso che l'oste era dietro al banco intento a versare il vino lo guardai. Notai per prima cosa il suo naso leggermente aquilino. Anch'io l'ho di quella forma e mi venne fatto di toccarmelo, ma subito ritrassi la mano per posarla sul tavolo. L'oste era stempiato, tuttavia non doveva avere più di quarant'anni; teneva la bocca socchiusa come per un lieve sorriso. Venne al tavolo a posare il quartino e il bicchiere. «Eccolo servito» disse con quella voce stridula, poi se ne tornò dietro al banco e vi si appoggiò con gli avambracci, tutto curvo in avanti, rivolto verso il gruppo dei tre uomini per prendere parte ai loro discorsi.
Bevvi un sorso e continuai a guardarlo. Il cuore mi si era calmato, ora; anzi mi meravigliavo d'essermi agitato. Rividi mia madre nel letto che mi cercava la mano e me la stringeva. «Mario» mi sussurrava, «quando avrò finito di penare mi metterai il vestito nero con il collo di pizzo. È nel cassetto di fondo del mio comò. Voglio che sia tu a prenderlo fuori. Ricordati bene: prendilo fuori tu». Quell'insistenza s'era ripetuta ancora e mi aveva insospettito. Una sera, mentre mia madre si era assopita, avevo tirato il cassetto di fondo del comò e in mezzo al vestito nero avevo trovato la lettera: "per Mario, da aprire quando sarò morta". L'avevo letta in bagno, dieci giorni dopo, mentre mia zia e l'infermiera mettevano a mia madre il vestito nero con il collo di pizzo. "Credo d'avere il dovere di dirti la verità che ti abbiamo sempre nascosto: Rino non è tuo padre. È un cuore d'oro, buono come il pane buono, e tu lo sai bene. Mi ha conosciuta quando io avevo già te, da un anno, e sposandomi ti ha dato il suo cognome. Tuo padre vero è Amerigo Martinelli e abita in via della Vigna 45...".
Bevevo a piccole sorsate e non toglievo gli occhi dall'oste che stava ridacchiando con i tre avventori. Parlavano di un tale che, tornato a casa ubriaco, aveva dovuto trascorrere il resto della notte sul pianerottolo perché la moglie non gli aveva aperto. Una storia banalissima, da concludere in cinque parole. Loro invece ne stavano parlando diffusamente e continuavano a riderci sopra come se fosse una vicenda davvero comica e interessante. Cercavo di non sentire le loro voci, socchiudevo gli occhi e pensavo con intensità alle parole della lettera e all'espressione di mia madre quando m'invitava con aria densa di significati a togliere dal cassetto il vestito nero. "È mio padre, questo" mi dicevo e poi riaprivo gli occhi a guardare fissamente il profilo dell'oste. Ma questo pensiero non mi suscitava dentro alcun sentimento. Non sapevo nemmeno trovare una differenza fra l'oste e gli altri tre seduti al tavolo coi quali parlava: erano tutti uomini sulla stessa età, vestiti piuttosto neglettamente. "Ma è mio padre" insistevo a pensare. Niente: lo trovavo diverso solo perché stava dietro al banco e gli altri erano seduti al tavolo; diverso perché se si fosse drizzato avrebbe mostrato un grembiule biancastro, sporco, trattenuto da una fettuccia che gli girava intorno al collo. "È mio padre" mi ripetevo.
Il pensiero mi ricordò invece Rino, Rino Lovatti, quello che mi aveva dato il suo cognome, quello che per venti anni avevo creduto mio padre vero. Adesso, certo, stava in piedi davanti al tornio e fra un'ora avrebbe finito il lavoro, sarebbe tornato a casa. Dopo cena si sarebbe seduto in poltrona davanti alla televisione, con un gomito appoggiato al bracciolo e il palmo della mano alla guancia, non tanto per guardare quanto per pensare. Stava lì immobile come se seguisse la trasmissione, invece teneva gli occhi bassi, al tavolino di supporto dell'apparecchio. Per lui era come se lo schermo fosse spento, non vibrassero suoni e voci. Questo accadeva da quando era morta mia madre. Serate angosciose, per lui e per me che gli stavo accanto. Ogni tanto apriva bocca per dire: «Ma». Nient'altro. E in quelle desolate esclamazioni c'era tutto il rimpianto di ciò che noi avevamo perduto, c'era l'amore e il dolore per lei, mia madre, che non c'era più.
Mi ricordai di lui com'era tre anni prima, a Natale. La sera della vigilia, rincasando in motorino, era stato travolto da una automobile e l'avevano portato all'ospedale svenuto e sanguinante. Per tutto il giorno dopo era rimasto in preda allo choc e ci guardava senza dimostrare di conoscerci. Aveva un braccio spezzato e la testa fasciata per una larga ferita alla fronte. Piano piano nei giorni che seguirono incominciò a riprendersi. Due settimane dopo era già a casa, con il braccio ingessato, ma allegro. Trascorrevamo lunghe ore, di sera, tutti e tre seduti intorno alla tavola a chiacchierare. La ritrovata possibilità di restare così riuniti, dopo il pericolo e il timore di perderlo, ci sembravano un dono nuovo del quale prima non avevamo mai saputo apprezzare il valore. Non ci importava dei programmi della televisione, preferivamo discorrere tranquilli, senza distrazione, per sentirci vicini, uniti.
Dal retrobottega venne una donna piccola, grassa, coi capelli grigi, le maniche rimboccate e un grembiule bigio. Si infilò tra il banco e batté il dorso della mano su di un braccio dell'oste: «Dammi della moneta» disse. Era certo la moglie che veniva dall'altra bottega. L'oste non le dette retta e continuò a parlare coi tre clienti. «Spòstati, perdiana» gridò la donna e passò a forza per andare ad aprire il cassetto. L'oste ora stava ritto contro lo scaffale, sullo sfondo delle bottiglie, in attesa che la moglie tornasse ad uscire. Rideva con un riso stridente che pareva saltellare per lo stanzone semivuoto. «Starete a vedere quante gare vincerà, quest'anno» diceva. Parlava di qualche campione della bicicletta. «Starete a vedere» ripeteva e ancora rideva. Non potei continuare a guardarlo. Sentii improvviso il desiderio di andare davanti all'oste, di prenderlo per le spalle e scuoterlo perché smettesse di ridere, ma non mi mossi. Gli ripiantai gli occhi addosso e glieli tenni fissi, ma lui non se ne accorgeva.
Il discorso delle corse ciclistiche mi riportò alla mente una domenica estiva di sei o sette anni prima. Ero a letto con la febbre alta, nella strada la gente gridava perché passavano i corridori e nella stanza semibuia, al fondo del letto, mia madre e mio padre in silenzio mi ascoltavano battere i denti. Restai malato per un mese. Mio padre in quel tempo non aveva lavoro e girava per le officine a cercare un posto; tornando a casa veniva a sedersi in fondo al letto e si lamentava della mutua perché non passava le medicine. Era stata un'estate brutta, quella, indimenticabile. Ma l'oste tutte queste cose non le poteva sapere e continuava a ridacchiare; per lui le gare in bicicletta erano soltanto legate a nomi di corridori, quelli che avevano vinto e quelli che avrebbero potuto vincere. Continuavo a guardarlo: stava vuotando da bere ai tre uomini. Era grassottello, forse la sua pelle era anche unta perché appariva lucida. Certo con la salumeria sotto mano doveva sempre aver mangiato bene, senza economie.
E Rino, che cosa avrebbe mangiato stasera? Si sarebbe messo a sedere come al solito davanti alla tivù e sarebbe rimasto lì senza guardarla a farsi sorprendere dal buio, non avrebbe mangiato niente se non fossi andato io a preparargli qualcosa e a insistere perché mangiasse. Pensai al salume: avrei potuto comperare dell'affettato per risolvere con facilità il problema della cena per entrambi. Il pensiero mi era corso alla bottega accanto, ma immaginai che l'oste passasse di là per servirmi. No, sarei andato a comperarlo altrove, lontano di lì, vicino a casa mia. Un affettato incartato da altre mani, che non mi ricordasse niente.

A momenti mio padre sarebbe uscito dall'officina. Era tardi, volevo essere a casa per il suo ritorno. «Babbo» gli avrei detto, «stasera preparo io la cena, prova a indovinare cos'ho comperato». Non gli avrei permesso di rimanere davanti alla televisione a covare pensieri grevi, gli avrei parlato, l'avrei fatto parlare. «Oste» chiamai forte, «quant'è?» L'oste disse il prezzo e venne a prendere la moneta. E io uscii in fretta, dimenticandomi di dare la buonasera.

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