Via della Vigna 45: una casa
bassa color piombo, due botteghe sormontate da un'unica insegna di
lamiera gialla con un nome in alto, Amerigo Martinelli, sottile e
lungo, che si stendeva sulla scritta grossa: salumeria-osteria. Forse
in tutta la città era l'unico negozio che riunisse due esercizi di
natura diversa, un modo che era abbastanza diffuso agli inizi del
novecento. Il quartiere, molto popolare, aveva tuttavia parecchi
altri negozi antiquati, con le insegne di stile ottocentesco e
l'arredamento di legno nero, malandato. Ma si aprivano anche, qua e
là, botteghe modernissime, splendenti di luci colorate, di insegne
che strizzavano l'occhio con giochi luminosi, che emanavano allegria.
E nel confronto le botteghe vecchie precipitavano ancora di più
nello squallore.
Lui, dunque, era qui, in
questa salumeria-osteria. Nella tasca destra della giacca stringevo
la lettera. Mi pareva di saperla tutta a memoria. A un certo punto
diceva: "È una casa bassa e scura con due negozi. Sono suoi:
lui fa il salumiere e l'oste". E più avanti: "Ti dico
tutto questo per scrupolo. Tu farai quello che crederai meglio. Se
vorrai potrai anche non conoscerlo mai: la città è tanto grande, si
può passare tutta la vita senza aver bisogno di andare in via della
Vigna". Indugiai un poco davanti alla casa, feci finta di
guardare la vetrina di un orologiaio di fronte, uno dei negozi belli
e pieni di luci, poi mi decisi, attraversai la strada e entrai
nell'osteria.
Era un camerone stretto e
lungo, quasi deserto in quell'ora di pieno pomeriggio. Due vecchi in
maniche di camicia stavano seduti a un tavolo sulla destra, vicino
alla porta, e giocavano a briscola davanti a due bicchieri di vino;
altri tre uomini, di media età, intorno al primo tavolo, vicino al
banco, chiacchieravano e bevevano. Tutti gli altri tavoli, una
dozzina, erano vuoti, anche al banco non c'era nessuno. Mi sedetti.
Uno dei tre si voltò a guardarmi e poi chiamò l'oste: «Martinelli»
gridò verso il retrobottega. Martinelli entrò un minuto dopo
pulendosi le mani nel grembiule che una volta doveva essere stato
bianco e che ora era unto e macchiato di chiazze rossastre di carne.
Certo veniva dalla attigua salumeria. «Eccomi qua» disse con una
voce secca, puntuta. Mi guardò con aria curiosa e senza smettere di
pulirsi le mani si accostò al mio tavolo per chiedermi che cosa
volevo ordinare. Non avevo la forza di guardarlo in viso a così
breve distanza: mi sentivo emozionato, pensavo di essere pallido o
rosso, non capivo bene; il cuore mi andava a sbalzi e avevo paura che
mi tremasse la voce. Guardando il tavolo chiesi un quartino. «Rosso
o bianco?» domandò lui. «Rosso» dissi io.
Adesso che l'oste era dietro
al banco intento a versare il vino lo guardai. Notai per prima cosa
il suo naso leggermente aquilino. Anch'io l'ho di quella forma e mi
venne fatto di toccarmelo, ma subito ritrassi la mano per posarla sul
tavolo. L'oste era stempiato, tuttavia non doveva avere più di
quarant'anni; teneva la bocca socchiusa come per un lieve sorriso.
Venne al tavolo a posare il quartino e il bicchiere. «Eccolo
servito» disse con quella voce stridula, poi se ne tornò dietro al
banco e vi si appoggiò con gli avambracci, tutto curvo in avanti,
rivolto verso il gruppo dei tre uomini per prendere parte ai loro
discorsi.
Bevvi un sorso e continuai a
guardarlo. Il cuore mi si era calmato, ora; anzi mi meravigliavo
d'essermi agitato. Rividi mia madre nel letto che mi cercava la mano
e me la stringeva. «Mario» mi sussurrava, «quando avrò finito di
penare mi metterai il vestito nero con il collo di pizzo. È nel
cassetto di fondo del mio comò. Voglio che sia tu a prenderlo fuori.
Ricordati bene: prendilo fuori tu». Quell'insistenza s'era ripetuta
ancora e mi aveva insospettito. Una sera, mentre mia madre si era
assopita, avevo tirato il cassetto di fondo del comò e in mezzo al
vestito nero avevo trovato la lettera: "per Mario, da aprire
quando sarò morta". L'avevo letta in bagno, dieci giorni dopo,
mentre mia zia e l'infermiera mettevano a mia madre il vestito nero
con il collo di pizzo. "Credo d'avere il dovere di dirti la
verità che ti abbiamo sempre nascosto: Rino non è tuo padre. È un
cuore d'oro, buono come il pane buono, e tu lo sai bene. Mi ha
conosciuta quando io avevo già te, da un anno, e sposandomi ti ha
dato il suo cognome. Tuo padre vero è Amerigo Martinelli e abita in
via della Vigna 45...".
Bevevo a piccole sorsate e non
toglievo gli occhi dall'oste che stava ridacchiando con i tre
avventori. Parlavano di un tale che, tornato a casa ubriaco, aveva
dovuto trascorrere il resto della notte sul pianerottolo perché la
moglie non gli aveva aperto. Una storia banalissima, da concludere in
cinque parole. Loro invece ne stavano parlando diffusamente e
continuavano a riderci sopra come se fosse una vicenda davvero comica
e interessante. Cercavo di non sentire le loro voci, socchiudevo gli
occhi e pensavo con intensità alle parole della lettera e
all'espressione di mia madre quando m'invitava con aria densa di
significati a togliere dal cassetto il vestito nero. "È mio
padre, questo" mi dicevo e poi riaprivo gli occhi a guardare
fissamente il profilo dell'oste. Ma questo pensiero non mi suscitava
dentro alcun sentimento. Non sapevo nemmeno trovare una differenza
fra l'oste e gli altri tre seduti al tavolo coi quali parlava: erano
tutti uomini sulla stessa età, vestiti piuttosto neglettamente. "Ma
è mio padre" insistevo a pensare. Niente: lo trovavo diverso
solo perché stava dietro al banco e gli altri erano seduti al
tavolo; diverso perché se si fosse drizzato avrebbe mostrato un
grembiule biancastro, sporco, trattenuto da una fettuccia che gli
girava intorno al collo. "È mio padre" mi ripetevo.
Il pensiero mi ricordò invece
Rino, Rino Lovatti, quello che mi aveva dato il suo cognome, quello
che per venti anni avevo creduto mio padre vero. Adesso, certo, stava
in piedi davanti al tornio e fra un'ora avrebbe finito il lavoro,
sarebbe tornato a casa. Dopo cena si sarebbe seduto in poltrona
davanti alla televisione, con un gomito appoggiato al bracciolo e il
palmo della mano alla guancia, non tanto per guardare quanto per
pensare. Stava lì immobile come se seguisse la trasmissione, invece
teneva gli occhi bassi, al tavolino di supporto dell'apparecchio. Per
lui era come se lo schermo fosse spento, non vibrassero suoni e voci.
Questo accadeva da quando era morta mia madre. Serate angosciose, per
lui e per me che gli stavo accanto. Ogni tanto apriva bocca per dire:
«Ma». Nient'altro. E in quelle desolate esclamazioni c'era tutto il
rimpianto di ciò che noi avevamo perduto, c'era l'amore e il dolore
per lei, mia madre, che non c'era più.
Mi ricordai di lui com'era tre
anni prima, a Natale. La sera della vigilia, rincasando in motorino,
era stato travolto da una automobile e l'avevano portato all'ospedale
svenuto e sanguinante. Per tutto il giorno dopo era rimasto in preda
allo choc e ci guardava senza dimostrare di conoscerci. Aveva un
braccio spezzato e la testa fasciata per una larga ferita alla
fronte. Piano piano nei giorni che seguirono incominciò a
riprendersi. Due settimane dopo era già a casa, con il braccio
ingessato, ma allegro. Trascorrevamo lunghe ore, di sera, tutti e tre
seduti intorno alla tavola a chiacchierare. La ritrovata possibilità
di restare così riuniti, dopo il pericolo e il timore di perderlo,
ci sembravano un dono nuovo del quale prima non avevamo mai saputo
apprezzare il valore. Non ci importava dei programmi della
televisione, preferivamo discorrere tranquilli, senza distrazione,
per sentirci vicini, uniti.
Dal retrobottega venne una
donna piccola, grassa, coi capelli grigi, le maniche rimboccate e un
grembiule bigio. Si infilò tra il banco e batté il dorso della mano
su di un braccio dell'oste: «Dammi della moneta» disse. Era certo
la moglie che veniva dall'altra bottega. L'oste non le dette retta e
continuò a parlare coi tre clienti. «Spòstati, perdiana» gridò
la donna e passò a forza per andare ad aprire il cassetto. L'oste
ora stava ritto contro lo scaffale, sullo sfondo delle bottiglie, in
attesa che la moglie tornasse ad uscire. Rideva con un riso stridente
che pareva saltellare per lo stanzone semivuoto. «Starete a vedere
quante gare vincerà, quest'anno» diceva. Parlava di qualche
campione della bicicletta. «Starete a vedere» ripeteva e ancora
rideva. Non potei continuare a guardarlo. Sentii improvviso il
desiderio di andare davanti all'oste, di prenderlo per le spalle e
scuoterlo perché smettesse di ridere, ma non mi mossi. Gli ripiantai
gli occhi addosso e glieli tenni fissi, ma lui non se ne accorgeva.
Il discorso delle corse
ciclistiche mi riportò alla mente una domenica estiva di sei o sette
anni prima. Ero a letto con la febbre alta, nella strada la gente
gridava perché passavano i corridori e nella stanza semibuia, al
fondo del letto, mia madre e mio padre in silenzio mi ascoltavano
battere i denti. Restai malato per un mese. Mio padre in quel tempo
non aveva lavoro e girava per le officine a cercare un posto;
tornando a casa veniva a sedersi in fondo al letto e si lamentava
della mutua perché non passava le medicine. Era stata un'estate
brutta, quella, indimenticabile. Ma l'oste tutte queste cose non le
poteva sapere e continuava a ridacchiare; per lui le gare in
bicicletta erano soltanto legate a nomi di corridori, quelli che
avevano vinto e quelli che avrebbero potuto vincere. Continuavo a
guardarlo: stava vuotando da bere ai tre uomini. Era grassottello,
forse la sua pelle era anche unta perché appariva lucida. Certo con
la salumeria sotto mano doveva sempre aver mangiato bene, senza
economie.
E Rino, che cosa avrebbe
mangiato stasera? Si sarebbe messo a sedere come al solito davanti
alla tivù e sarebbe rimasto lì senza guardarla a farsi sorprendere
dal buio, non avrebbe mangiato niente se non fossi andato io a
preparargli qualcosa e a insistere perché mangiasse. Pensai al
salume: avrei potuto comperare dell'affettato per risolvere con
facilità il problema della cena per entrambi. Il pensiero mi era
corso alla bottega accanto, ma immaginai che l'oste passasse di là
per servirmi. No, sarei andato a comperarlo altrove, lontano di lì,
vicino a casa mia. Un affettato incartato da altre mani, che non mi
ricordasse niente.
A momenti mio padre sarebbe
uscito dall'officina. Era tardi, volevo essere a casa per il suo
ritorno. «Babbo» gli avrei detto, «stasera preparo io la cena,
prova a indovinare cos'ho comperato». Non gli avrei permesso di
rimanere davanti alla televisione a covare pensieri grevi, gli avrei
parlato, l'avrei fatto parlare. «Oste» chiamai forte, «quant'è?»
L'oste disse il prezzo e venne a prendere la moneta. E io uscii in
fretta, dimenticandomi di dare la buonasera.
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