sabato 27 febbraio 2016

Scommettiamo una cena?

Un ricordo della bella amicizia tra Remo e Augusto Minucci.
Ci sono stati, è vero, geni come Leonardo, che seppe eccellere come pittore scienziato architetto ingegnere e inventore. Più vicino a noi, abbiamo un Dino Buzzati che si riteneva un pittore prestato alle lettere; ora, pur apprezzando il suo Poema a fumetti e constatando che i suoi quadri hanno raggiunto quotazioni rispettabili, ho l'impressione che le sue opere pittoriche siano state trascinate dalla sua fama di scrittore e non reggano il confronto con le opere letterarie. O vogliamo parlare della pittura del cantautore-musicista Battiato? I critici che se ne sono occupati ne hanno scritto in maniera più indulgente che benevola, e sono convinto che i giudizi sarebbero stati diversi se diverso fosse stato il nome. Per farla breve, secondo me la norma è che chi eccelle in un campo difficilmente potrà ottenere grandi risultati anche in altri settori.
Mio padre, Remo Lugli, indubbiamente aveva qualcosa da raccontare, e sapeva scriverlo; aveva inoltre l'hobby della pittura, in stile naïf. Ha lasciato alcuni dipinti gradevoli: mentre scrivo ho sotto gli occhi un panorama delle rive del Po, viste da un ponte torinese, che mi ricorda Rousseau il Doganiere. Anche l'autoritratto riportato qui nel suo blog non mi sembra male. Quell'ombra che copre metà del viso, dandogli un aspetto tenebroso, riflette il fatto che, fuori dal contesto professionale in cui doveva sciorinare, come un ferro del mestiere, l'estroversione del giornalista che domanda e intervista, Remo era invece piuttosto introverso, pessimista, talvolta cupo, quasi timoroso delle trame che il destino, ineluttabile, tesse alle nostre spalle, come in molti dei suoi racconti.
Altre sue opere pittoriche (la maggior parte, ad essere sinceri) non sono altrettanto ben riuscite. Ho in mente, ad esempio, i ritratti delle nipoti, che furono quasi causa di crisi di pianto (“Siamo così brutte?”) C'è da dire, però, che Remo fu sempre pienamente conscio dei propri limiti come pittore; non dipingeva certo nella convinzione di creare dei capolavori ma perché provava soddisfazione nel farlo e, dopo la pensione, era anche un modo per far passare il tempo. C'era poi una forte componente legata alla manualità della preparazione dei supporti (cartoni, in genere) e alla gestione di colori e pennelli. Lavorare con le mani gli era sempre piaciuto e si era anche costruito da sé il cavalletto, in legno e ferro, che adesso languisce in cantina.
Uno dei più grandi amici di mio padre fu sicuramente Augusto Minucci, suo conterraneo (di origini toscane, ma 'naturalizzato' emiliano) e collega, prima alla Gazzetta di Modena e poi, per tanti anni, a La Stampa. Alto quasi quanto Remo e moro come lui, magro, un lungo viso scavato, una Gitane sempre accesa tra le dita ingiallite, Augusto si occupava, tra l'altro, di critica d'arte, ed era anche un discreto pittore. Un carattere molto diverso da quello di Remo: allegro, iperbolico, un po' guascone, sempre incline alla battuta e allo scherzo. Anche in politica erano su sponde diverse: mio padre era un fedele elettore di Valerio Zanone mentre Augusto distribuiva il proprio voto verso l'estremo opposto. Un anno, quando alle elezioni ci fu un tracollo del PLI, Augusto telefonò a Remo imitando la voce di Zanone e lo ringraziò per averlo votato, poi si congedò dicendo che doveva chiamare gli altri tre suoi elettori. Sfottò bonari, insomma, che non intaccarono mai la loro amicizia e cui mio padre qualche volta rispondeva per le rime ma che più spesso liquidava con un gesto della mano, uno scuotimento del capo e un accenno di sorriso, come se non valesse la pena sforzarsi per ribattere.
Negli anni sessanta mio padre comprò un piccolo appartamento al mare, in Liguria, e poco tempo dopo Augusto trovò anche lui, da quelle parti, una casa rustica nell'entroterra. Acquisti fatti per portare in vacanza i figli, visto che il mare non piaceva a nessuno dei due. Nei periodi di vacanza condivisi passavano molto tempo insieme, parlando spesso in dialetto emiliano; disdegnando le spiagge, giravano per i paesini scattando fotografie (Augusto con la sua Leica M6 che vantava come nettamente superiore alla Contarex di mio padre); oppure andavano alla ricerca di robivecchi e rigattieri, sempre con la speranza di fare il colpaccio, di scovare il pezzo importante sottovalutato dal venditore. Remo e Augusto erano ambedue fieri delle proprie collezioni di antiquariato e spesso si perdevano in interminabili discussioni confrontando i pezzi, ciascuno vantando i propri e denigrando quelli dell'amico; poteva anche capitare, ma raramente e dopo lunghe ed estenuanti trattative, che facessero degli scambi. È anche da giornate come queste che viene l'ispirazione per molti dei racconti di mio padre centrati sull'antiquariato, usciti prima su La Stampa e poi raccolti nel volume Tarlo ci cova.
Alla sera sovente si ritrovavano con le famiglie alla Trattoria del Bosco, sull'altopiano delle Mànie alle spalle di Finale Ligure. Un locale rustico, immerso nel silenzio e nel verde della “macchia mediterranea”, che offriva coniglio, allevato in libertà e preso con il fucile come fosse selvaggina; arrosto; cima alla genovese; cinghiale, quando capitava a tiro; vino nostralino; raramente menu di mare, boghe per lo più. Cibo genuino, cucina semplice, trattamento famigliare, lunghe tavolate, gran risate, piccolo conto rigorosamente pagato alla romana.
Avendo tempo a disposizione, era inevitabile che le punzecchiature di Augusto arrivassero a toccare anche il tema della pittura di Remo. Io non ero presente, probabilmente ero in spiaggia a fare a botte con i bambini di Milano, ma credo proprio che le cose siano andate come ora le descrivo: Augusto deve aver detto a Remo che non sarebbe riuscito a trovare chi accettasse un suo dipinto neanche in regalo e deve averlo sfidato scommettendo una cena. A quell'epoca, i paesini della Riviera brulicavano di piccole gallerie d'arte, aperte solo d'estate, che vendevano quadri di artisti più o meno improvvisati ai turisti desiderosi di arredare con poca spesa le case delle vacanze. Remo deve aver pensato che, se tanti erano disposti a spendere qualche lira per quadri di modesto valore, anche lui sarebbe riuscito a piazzarne uno dei suoi, tantopiù gratis. Così, pur essendo contrario per carattere alle scommesse ed a qualsiasi azzardo, finì per accettare.
Quel pomeriggio si trovarono sulla passeggiata a mare, o su qualche altra via con buon traffico pedonale. Mio padre aveva portato una sua opera, una natura morta con frutta, credo. La appoggiò ad un muretto, ben in vista, come fosse stata abbandonata; poi, lui e l'amico sedettero su una panchina poco distante a sorvegliare la scena.
Ogni tanto qualche passante rallentava, gettava un'occhiata, poi tirava avanti.
Dopo forse due ore, un refolo di vento o l'aria mossa da un'auto veloce fecero cadere il quadro a faccia in giù. Remo fece per alzarsi e andare a raddrizzarlo ma fu preceduto dall'ennesimo passante che, incuriosito, lo raccolse da terra, lo guardò a lungo – mio padre deve aver creduto, per un attimo, di aver vinto la scommessa – ma poi lo rimise giù, come l'aveva trovato, e se ne andò.
Fu troppo. Raccolse la sua natura morta, la gettò con rabbia in un bidone lì vicino e, tra le risate di Augusto, si dichiarò sconfitto.
Quella sera ci trovammo tutti alla Trattoria del Bosco. Remo toccò appena il cibo mentre Augusto mangiò ben più del solito, con grande appetito. Il giorno dopo non si fece vivo. Sua moglie Piera ci riferì che era rimasto a casa con un gran mal di stomaco e, timorosa, sperava che non fosse qualcosa di brutto. «Moché cancher, n'èt vést ch'aièr sira a l'a magné com on nimèl?» fu la rassicurazione un po' stizzita di mio padre.

Augusto superò bene quell'indigestione e morì oltre quarant'anni dopo, tre anni prima di mio padre. Mi piacerebbe credere in un aldilà per pensare che l'abbia aspettato, con le loro mogli che li avevano preceduti, per fargli da anfitrione nella nuova località di villeggiatura, dove i rigattieri danno via a poco tele di Caravaggio e dove sicuramente c'è un posto molto simile alla Trattoria del Bosco, tranne che lì si potrà anche esagerare senza timore di doverne pagare lo scotto. Passeranno il tempo sostenendo le parti chi di San Gimignano e chi di San Prospero, e perduti in eterne discussioni sulla forma delle nuvole o su altri dettagli che noi, qui, non possiamo nemmeno immaginare.

Daniele Lugli

lunedì 22 febbraio 2016

I taccuini di Remo al Centro Pestelli

I taccuini di inviato che mio padre aveva donato al Centro Studi sul giornalismo Pestelli fanno ora ufficialmente parte della biblioteca specializzata del Centro, accanto a documenti di Gino Apostolo, Igor Man, Renzo Villare. Qui la notizia sul sito web del Centro, dove sono anche visibili alcune fotografie di pagine dei taccuini. Ringrazio il Centro per le parole di apprezzamento con cui li presenta e mi auguro che questo materiale possa risultare utile per le attività di ricerca che il Centro promuove.

Daniele Lugli

domenica 14 febbraio 2016

L'uomo a cavallo

La prima volta fu all’incrocio di Sant’Egidio. Ero fermo al semaforo, in attesa del verde. Solo nell’auto, anzi, no: alle mie spalle, sul sedile posteriore, c’era Jolly, il mio cane. Al momento di partire, non appena avevo aperto lo sportello era balzato dentro e io non avevo avuto animo di farlo scendere; da qualche tempo gli era venuta la smania del giretto in macchina, gli piaceva talmente che quando lo accettavo a bordo si sdilinquiva in squittii di gioia e nei primi minuti tentava anche di darmi i bacini di ringraziamento dietro l’orecchio, se non lo tenevo lontano con la mano. Così ogni tanto lo portavo con me. Ero lì soprappensiero, incantato a guardare le nuvolette dei fiati dei pedoni che attraversavano. Per terra c’era ghiaccio e tutti camminavano lentamente, facendo attenzione ai loro passi. D’un tratto il mio occhio fu attratto dal gesto brusco di un uomo che sul passaggio pedonale stava per cadere. Si sbilanciò su un fianco, alzò il braccio opposto, ondeggiò e poi si ricompose: tutto in due o tre secondi, poi proseguì. Era Mirco, mio fratello. Un’emozione violenta, una vampata di calore alla testa: avrei voluto poter scendere, corrergli al fianco, ma non potevo abbandonare l’auto lì in mezzo e il semaforo continuava a rimanere rosso; a Sant’Egidio il rosso è sempre lunghissimo e in quella circostanza mi parve proprio interminabile. Vidi mio fratello scomparire nel flusso dei passanti sul marciapiede, diretti verso il fiume; oltre tutto da quella parte c’era il divieto di svolta. Al verde ripartii, detti un’ultima occhiata ma Mirco non lo vidi più. Avevo una grande agitazione. Cento metri più avanti, in un parcheggio, mi infilai in un posto libero. Spensi il motore. Mio fratello qui, in città, nella mia città, a cento chilometri dalla sua, senza che mi avesse avvertito; ma com’era possibile? Mi sentivo sconvolto; le mani, posate sul volante, mi tremavano. Era come se mi si aprisse davanti agli occhi uno squarcio nero, un buio di vuoto e di mistero. Mio fratello era qui per un motivo che mi taceva, dunque una sua trama nascosta. Ci eravamo parlati la sera prima per telefono e non mi aveva detto niente, quindi proprio un segreto. E se c’era oggi, chissà quante altre volte c’era stato senza che mi informasse. Incredibile. Al telefono ci parlavamo almeno due volte alla settimana, lunghe chiacchierate per dirci tutte le notizie, anche minime, delle nostre vite. Così da anni, da quando io mi ero sposato e mi ero trasferito per il mio nuovo lavoro e lui era rimasto con la mamma e il babbo. Morti loro, dopo qualche mese di solitudine si era deciso a concludere con il matrimonio il fidanzamento quasi decennale con Ornella la quale, mi aveva poi confidato, credeva ormai che sarebbe rimasta zitella.
In quel parcheggio, con Jolly che nella sosta era passato sul sedile anteriore del passeggero e mi guardava interrogativamente perché ci eravamo fermati, rimasi almeno per mezz’ora a rimuginare sulla immagine dell’uomo che era scivolato sul ghiaccio e sui possibili motivi della sua presenza nella mia città. Che quell’uomo fosse mio fratello non avevo dubbi: lo avevo visto con chiarezza anche in viso. Sul perché lui era lì non riuscivo proprio a focalizzare alcun ragionevole movente. Motivi di lavoro? No, aveva un impiego parastatale, non aveva alcun motivo di spostarsi dall’ufficio se non per passare in qualche stanza accanto. Una relazione extraconiugale? Nemmeno: era saldamente ancorato a sua moglie sia perché le voleva bene, sia perché tradirla avrebbe comportato dispendio di energie e impegno organizzativo: era un uomo tranquillo, un po’ indolente.
La sera, all’ora solita, dopo cena, telefonai. Se non mi avesse detto niente avrei avuto la prova del suo sotterfugio. E così fu, infatti. Discorsi soliti, le banalità quotidiane, niente resoconto d’un viaggio, niente esclamazione: “Sai, oggi sono venuto lì...” Adesso l’enigma si infittiva: il suo era un segreto solo nei miei confronti o anche in quelli di Ornella? L’avevo visto a metà della giornata e, dato che per colazione non andava a casa perché mangiava in mensa, avrebbe avuto tutto il tempo per arrivare qui, fermarsi magari un paio d’ore e poi fare ritorno, senza che lei lo sapesse.
«Marco, oggi avrei giurato che ti avevo visto» mi trovai a dire senza che l’avessi prima pensato e intanto mi avvidi di essermi lanciato in un discorso spinoso: lo interrogavo, stavo insinuando, lo accusavo? Ma mi rendevo anche conto che era importante sentire e analizzare la sua reazione. Tacqui e attesi. Ci fu un momento di silenzio. Poi disse, con voce un po’ incerta: «Cosa vuoi dire, in che senso mi avevi visto?» Dovevo spiegare, non potevo lasciare una frase simile sospesa per aria. «A un semaforo dove ero fermo ho visto uno che stava per cadere mentre attraversava la strada e sembravi proprio tu». «Già, tanti si assomigliano», disse, «io comunque non stavo per cadere, ero seduto alla mia scrivania». Poi subito cambiò discorso: «Te lo ricordi il tavolino del nonno, quello con l’intarsio della dama, ha l’impiallacciatura che si scolla...»
Quella notte tardai a prendere sonno. Il pensiero era fisso su questa vicenda. Provavo la sensazione della presenza di un muro di sbarramento oltre il quale non potevo procedere: restavo di qua impossibilitato ad andare avanti e di là c’era lui, Mirco, che prima era sempre stato un tutt’uno con me e adesso diventava estraneo, forse anche rivale. Ma che cosa tramava, che cosa era lui per me e che cosa ero io per lui? I giorni che seguirono furono diversi dai precedenti, mi sentivo in un cono d’ombra; anche se il pensiero e la tensione si erano un po’ attenuati, ero immerso in un offuscamento che mi rattristava e incupiva. Telefonai a mio fratello con maggiore frequenza, sperando di poter cogliere nelle consuete conversazioni qualche segnale che potesse farmi capire qualcosa, aprirmi uno squarcio nel buio. Una sera chiacchierai con Ornella, lui era andato a una riunione di condominio. «Ho voglia di vedervi» dissi, «perché una volta tanto non fate voi una gita fin qui?». «Figurati» disse lei, «con Mirco così pantofolaio com’è non si può programmare niente. Non muove mai neanche la macchina, che sta invecchiando senza nemmeno aver fatto il rodaggio. Vieni tu, che ci fai sempre piacere». No, Ornella certamente non sapeva nulla di ciò che lui poteva aver fatto quel giorno a cento chilometri da casa. Dovevo tenere per me l’enigma, ci avrei arzigogolato intorno con tormento d’animo e scarsa probabilità di riuscire a svelarlo.
Avevo la speranza che il mio almanaccare si sarebbe a poco a poco affievolito man mano che mi allontanavo da quell’episodio, ma un paio di settimane dopo, di primo pomeriggio, mentre stavo parlando per strada, fermo con un amico che non vedevo da tempo e che avevo incontrato un momento prima, vidi la faccia di Mirco passarmi veloce a meno di un metro. Era quasi appiccicata, frontalmente, al vetro del finestrino di un tram diretto a un capolinea collinare. Istintivamente feci un gesto con la mano come per fermarlo e aprii la bocca ma non mi venne alcuna parola. L’amico mi guardò meravigliato e si girò per capire che cosa mi avesse colpito. «Volevo salutare uno» dissi e subito tagliai corto, dovevo andare alla macchina, inseguire il tram. Purtroppo avevo parcheggiato lontano. Ansante e sudato, col cuore in tumulto, mi misi al volante e puntai verso la collina seguendo un percorso più breve della linea tranviaria. Arrivai un paio di minuti prima del tram. Ne scesero in molti, ma lui no, evidentemente era smontato ad una fermata intermedia. Mi sedetti in macchina e rimasi a lungo a cuocermi nella delusione e nelle solite intricate supposizioni.

Due incontri, questi, nel giro di una ventina di giorni. L’inizio. Quante altre volte ho visto mio fratello nella mia città e quante volte, parlandogli al telefono, sono stato tentato di dirgli “Insomma, mi dici come mai vieni qui e non mi avverti, non mi vieni a trovare? Che cosa mi nascondi?” Ma mai il mio pensiero si è realizzato con delle parole. Ogni mancato intervento era per me una sconfitta, mi sentivo un incapace, un soggiogato e mi chiedevo anche perché non avevo il coraggio di prendere in pugno la situazione, di pretendere di sapere. A malincuore mi davo la risposta: inconsciamente temevo che qualsiasi motivo mi avesse prospettato avrebbe turbato il nostro annoso, quieto andamento di relazione fraterna a distanza. In certi momenti cercavo di scrutare nel mio intimo e allora la risposta m’appariva più chiara: mi sentivo in colpa per avere, tanti anni prima, lasciato la nostra casa e lui solo con la mamma e il babbo, che già erano malandati in salute, unicamente pensando al mio interesse. Nessuno di loro aveva mai fatto alcuna insinuazione a questo proposito, ma io, senza dirmelo apertamente, mi ero caricato di una dose di responsabilità. In questo periodo parlavamo al telefono delle piccole cose quotidiane fingendo normalità mentre tra noi gravava un peso enorme, almeno così io sentivo e pensavo: il peso di un mistero per me, e per lui di un segreto.
Vedevo, o meglio scorgevo, Mirco con frequenza variabile, in certi periodi una o due volte al mese, in altri anche cinque o sei, e nelle circostanze più strane; sempre, comunque, di sfuggita, non incontrandolo faccia a faccia, un’eventualità questa che in certi momenti mi auguravo e in altri temevo, pensando di trovarmi impreparato ad affrontare la situazione: dipendeva dal mio umore. Certo, mio fratello era diventato per me un pensiero fisso: aspiravo a risolverne l’enigma come si può aspirare a vincere il primo premio di una grande lotteria, con la convinzione che sia cosa impossibile. Questo chiodo mentale mi accompagnava fino a quando, la sera, posavo la testa sul cuscino. E lì le fantasiose astruserie sconfinavano dal ragionamento al sonno trasformandosi in sfilacciature, frantumi di sogni; al risveglio li ricordavo appena per qualche minuto e subito dopo si disperdevano diventando inafferrabili. Ma una notte il sogno fu così chiaro e intenso che alla fine mi svegliai con il cuore in tumulto per l’emozione. Capivo che questa volta non lo avrei dimenticato, tuttavia, per maggiore sicurezza, mi alzai, presi foglio e matita e scrissi qualche appunto sulla traccia di quello che avevo vissuto. Mi sarebbe anche servito come testimonianza se mi fossero sorti dubbi.
Ero in auto e procedevo su un controviale rasentando il marciapiedi, lentamente, perché cercavo un certo negozio. Sul sedile posteriore avevo il cane. Improvvisamente davanti a me un braccio si protende e una mano è aperta come segnale di stop. Blocco la macchina, alzo gli occhi e vedo lui, Mirco: alto, elegante. Mi guarda ed esclama il mio nome come se fosse sorpreso di vedermi lì. Il mio primo istinto è quello di dirgli che sono io che devo essere meravigliato di vedere lui nella mia città senza essere stato preavvertito. Ma sta aprendo lo sportello per salire e una valanga di sensazioni mi sommerge, la più intensa è il timore che Jolly, geloso dell’intimità della sua automobile, tenti di aggredirlo; e allora lo cerco alle mie spalle con la mano, afferro il collare, lo chiamo con voce rassicurante per tranquillizzarlo. Lo guardo, è calmo, come se conoscesse l’ospite o come se non fosse salito nessuno. Meno male, il problema cane è superato, adesso devo affrontare la piena dei miei sentimenti, dire a Mirco rabbia e amore, chiedergli perché, perché e ancora perché. Metto in fila le parole sforzandomi di essere calmo e intanto lo fisso: guarda davanti a sé, la strada, è come se fosse solo, come se non mi avesse nemmeno visto; eppure un momento fa ha pronunciato con vigore il mio nome. Lo sento freddo, distante, e allora tutto il mio dire si spegne, le parole muoiono soffocate in gola dal groppo che sale. Lo guardo in silenzio e incomincio a piangere, a dirotto. Nemmeno si volta e tace, continua a tacere. Jolly è allarmato per il mio singhiozzare, si mette a gemere e mi bacia dietro un orecchio; lo capisco, vuole farmi coraggio. Adesso Mirco pone la mano alla maniglia, apre lo sportello e scende, sempre in silenzio, senza dirmi nemmeno ciao. Io lo chiamo per fermarlo e intanto mi sveglio, in tempo per sentire la mia voce che pronuncia il suo nome.
Quel sogno non lo avrei dimenticato neanche senza gli appunti. Mi era rimasto talmente impresso che per molti giorni lo rivivevo di continuo, con la fantasia movimentavo la scena, immaginavo di essere riuscito a parlargli, gli chiedevo ragione di tutti quei perché che sognando avevo in animo di dire senza riuscire ad aprire bocca. Entravo tanto in quell’atmosfera dentro l’auto con noi due e Jolly che si struggeva per il mio pianto che a tratti mi pareva che l’evento fosse davvero accaduto. Allora prendevo in mano il foglio con gli appunti per convincermi che Mirco non era affatto salito sulla mia auto. Poi entrai in un periodo di relativa tranquillità: pensavo un po’ meno alla storia di mio fratello e quand’ero in giro per la strada il mio occhio non s’accaniva più a gettare occhiate panoramiche tutt’attorno per vedere se scoprivo la sua figura. L’ossessione si placava e me ne rendevo conto con sollievo. Ormai mi stavo assuefacendo all’idea che tra noi c’era questo qualcosa misterioso che lui faceva, o meglio tramava, e che io non dovevo conoscere. Mi rassegnavo; forse, pensavo, non merito di sapere perché non ne sono degno, probabilmente a causa del mio lontano abbandono della nostra famiglia.

Un giorno – di pomeriggio; era autunno e io, a piedi, mi ero fermato in un viale ad ammirare le foglie che il vento faceva danzare come per gioco a mezz’aria – lo vidi. Era a cavallo. Si direbbe, incredibile. E invece no, era proprio lui, su un cavallo morello. Un gruppetto di cinque cavalieri avanzava al passo sul sentiero tra il filare degli ippocastani e la siepe che delimita un piccolo parco giochi. È un percorso ogni tanto frequentato dai soci di un club di equitazione che è ai margini della città. Non lo sapevo, me lo disse un vecchio che pure si era fermato ed evidentemente si meravigliava di vedermi fissare la scena con gli occhi sbarrati. «Di tanto in tanto càpitano, vengono dall’Ippica del Ronchetto, e a volte qualche cavallo si spaventa per le automobili che passano come fulmini» aveva commentato. Ma io non ero stupito perché lì c’erano degli uomini a cavallo, ero come imbambolato perché uno di quegli uomini era lui, mio fratello. Anch’egli in tenuta da cavallerizzo come gli altri, che erano tre uomini e un’amazzone. Mirco era il più anziano, stava ritto impettito, con lo sguardo fisso, e montava con eleganza, in modo armonioso, almeno così mi pareva. Io e il vecchio eravamo dalla parte opposta del viale e tra noi e il gruppo sfrecciavano le macchine. Immobile, solo girando lentamente la testa per seguire il passaggio dei cavalli, non mi venne fatto di gridare il nome di Mirco, non ci pensai proprio. Era come se vedessi qualcuno o qualcosa di irraggiungibile, sebbene in qualche modo mi appartenesse o mi avesse appartenuto. Ormai i cavalieri si stavano allontanando e io continuavo a guardarli. In quel momento mi affiorò un vago ricordo: io, bambino, avevo sentito dire che Mirco andava a cavallo. Lui era un ragazzo, maggiore di me di otto anni; comunque non lo avevo mai visto cavalcare; e poi aveva smesso presto perché, mi pare, spaventato dalla brutta caduta di un suo compagno. Adesso mi chiedevo se poteva mai esserci qualche relazione tra quel breve lontanissimo rapporto di Mirco con le cavalcate e la sua presenza nella mia città, dopo decine e decine d’anni, a spasso col cavallo, come se fosse a cento metri da casa sua.
L’incontro sul viale di ippocastani mi annullò di colpo quella rassegnazione che avevo conquistato negli ultimi tempi: Mirco tornò al centro dei miei pensieri, ripresi a telefonargli con frequenza, sempre con la speranza di scoprire nelle sue parole qualcosa che lo tradisse, che mettesse allo scoperto il suo doppio, il Mirco segreto che veniva nascostamente nella mia città per cavalcare o per fare chissà quali altre astruse cose. Ma era sempre ben vigile, chiacchierava con la massima naturalezza e io sentivo che non avrei mai potuto chiedergli di svelarmi quello che mi nascondeva. Tra me e lui c’era un abisso che con quelle domande avrei dovuto superare d’un balzo. Dovevo per forza adattarmi alla mia sudditanza psicologica, alla mia inferiorità, alla sola speranza, se sperare era possibile, di vedere svelato l’enigma per una qualche circostanza fortunata. Dopo quel giorno andai ancora qualche volta, appena mi fu possibile, lungo quel viale, ma non incontrai più i cavalieri. Poi venne l’inverno.

Quello che era un modesto parco giochi lungo il viale degli ippocastani è irriconoscibile: le altalene, i tralicci a scacchiera, gli scivoli sono stati rinnovati e aumentati di numero, ma soprattutto oltre a questi è stato creato un parco vero con tante piante, aiuole, stradine. Tutto questo su una vasta area, una volta occupata da uno stabilimento per la riparazione delle carrozze ferroviarie che è stato eliminato. Ci sono anche dei laghetti e delle piazzuole di cemento sulle quali corrono i ragazzi coi pattini a rotelle. E le stradine per il passeggio sono fiancheggiate da molte panchine. Ai lati del viale, tra gli ippocastani e la siepe, c’è ancora il sentiero sul quale una volta vidi passare Mirco a cavallo insieme con altri quattro cavalieri. Qualche cavaliere passa ancora, di tanto in tanto, ma Mirco non l’ho più visto. E vengo spesso, quando la stagione lo permette; adesso che è estate sono qui quasi tutti i giorni. Vengo con l’autobus perché non ho più l’auto: mi scadeva la patente e quando sono andato alla visita medica mi hanno respinto, per la cataratta: avevo sbagliato a leggere una lettera in un cartello. Ma va bene anche l’autobus, tanto sono solo, Jolly non c’è più, era vecchio e se ne è andato. Di solito mi siedo su una panchina vicino alla siepe e di qui posso tenere d’occhio il sentiero degli ippocastani.
Ho fatto amicizia con altri vecchi e anche con dei ragazzi. Coi vecchi parliamo, ci raccontiamo delle nostre vicende, di quando eravamo giovani, in buona salute e facevamo la nostra vita. Mi è capitato di raccontare di mio fratello e dell’ultima volta che lo vidi, ormai tanto tempo fa, venire avanti in sella al cavallo. Se qualcuno vede dei cavalieri prima di me mi avverte subito perché possa controllare se c’è anche lui. Ma non c’è mai. Da molto non riesco nemmeno a parlare col telefono né con lui né con Ornella. Faccio il numero e mi dicono che non c’è nessun Mirco e nessuna Ornella. L’altro giorno una donna mi ha risposto sgarbata: «Ma la vuole smettere di fare questo numero, la vuol capire sì o no che da due anni qui c’è una lavanderia e non una abitazione?». Non so come mai mi rispondano così, quello era il numero di Mirco. Parlavamo del più e del meno, non mi diceva niente dei suoi viaggi fin qui, ma mi faceva piacere scambiare un po’ di parole con lui.
Vedo venire verso di me sui pattini un ragazzino alto, biondo, è Sandro, siamo diventati amici. Una volta era caduto proprio davanti alla mia panchina, sanguinava a un ginocchio e si era fermato a fasciarselo con il fazzoletto. Avevamo chiacchierato un bel po’ e da allora ogni tanto mi viene a salutare. Quando arriva le prime parole sono sempre per la stessa domanda: «E l’uomo a cavallo l’ha rivisto?»


mercoledì 10 febbraio 2016

Facile dimenticare

ll controllore del gas entrò nel cortile e lo abbracciò con lo sguardo da destra a sinistra. Era la prima volta che veniva in servizio in questa zona. Dette la voce: «gas» e la ripeté due, tre volte. Il cortile era grande, quadrato e percorso sui lati, ai quattro piani, dai ballatoi le cui ringhiere erano tappezzate di biancheria stesa. Le abitazioni erano vecchie e i contatori erano all'interno, nel primo vano, di solito la cucina. Solo in qualche caso, dove erano state fatte delle ristrutturazioni, l'azienda aveva imposto che fosse collocato all'esterno, sul ballatoio. Il controllore con il suo richiamo avvertiva gli inquilini perché fossero pronti ad aprirgli la porta e farlo entrare. 
In fondo al cortile c'era un gruppo di donne intente a chiacchierare. Erano per lo più anziane, grasse, sbracciate. Continuarono a parlare. Il controllore si accingeva ad entrare nella prima abitazione a pianterreno quando al terzo piano si affacciò alla ringhiera una donna. «Gasista, io tra poco dovrei uscire, se lei potesse venire subito da me» disse. Il controllore fece cenno di sì con la testa e imboccò la scala sotto l'androne.
Quando fu sul ballatoio la donna gli si fece incontro, lo invitò ad entrare. Lui fece la sua lettura, annotò il numero sul quaderno. Era magro, alto, sui cinquant'anni; il volto ben rasato e la divisa blu in ordine gli davano un aspetto rassicurante. «Che disgrazia» disse la donna. Il controllore sollevò gli occhi dal quaderno e la guardò interrogativamente, con meraviglia. Lei riprese: «Le donne, giù, stanno parlando di questo. Mezz'ora fa hanno portato all'ospedale con la croce rossa una povera donna che si è avvelenata con il gas, una del quarto piano». «Già» disse lui, «arrivando nel cortile ho avvertito un po' di puzza, la si sente anche qui». E chiese: «Si salva?» «Non si sa: hanno detto che respirava debolmente quando l'hanno trovata. Era fuori di conoscenza». «Come è stato?» chiese ancora il gasista. «Aveva voglia di farla finita, ecco come è stato, non gliene andava bene una». «Poveretta» disse l'uomo. «Pensi che appena tre giorni fa suo figlio, un giovanotto di venticinque anni pieno di forza e di salute, nella cava dove lavorava è stato travolto da un masso che gli ha spezzato la schiena: se campa forse deve restare per tutta la vita su una carrozzella».
Il controllore non disse nulla, ma atteggiò la bocca a una smorfia di doloroso stupore. Aveva rilevato i suoi numeri, aveva sentito la novità del cortile, a questo punto si sarebbe dovuto girare per uscire e proseguire le sue visite, ma rimase fermo come se aspettasse ancora qualche parola. Invece fu lui che fece eco alla donna: «Tutta la vita su un carrozzella!» e tornò a ripetere la smorfia. «Quella poveretta» disse la donna, «quando l'altra sera rientrò dall'ospedale piangeva tanto forte che la sentiva tutta la casa. Non aveva torto: se va bene rimane con un invalido da mantenere e accudire e lei ha l'asma e non può far niente, quando sale le scale impiega mezz'ora. E non sono tutte qui le sue disgrazie». Il controllore la guardò con sguardo ancora interrogativo, poi chiese: «Cos'altro le è successo?»
«Aveva anche due figlie» disse la donna, «ma la miseria era troppa nella casa e finirono male tutte e due. Una si sposò a quindici anni per la fretta di andarsene e non stette a guardare tanto per il sottile. Tra mesi dopo suo marito era già in prigione, per rapina. Da allora è più il tempo che passa dentro che quello che passa fuori e la ragazza se vuole mangiare deve andare a servizio. Sua sorella incominciò a bazzicare gli uomini, prima uno, poi un altro e poi un altro ancora. Un giorno sparì: dicono che sia in un'altra città a far la vita». «E adesso» commentò il controllore, «la madre ha tentato di avvelenarsi. È proprio una famiglia disgraziata».
L'uomo sembrava non avesse voglia di continuare il suo giro, preso dall'interesse per quella vicenda. «Quando sento raccontare di queste storie» commentò, «mi pare di avere dentro al petto qualcosa che non va né su né giù». Gli venne fatto di deglutire come se avesse davvero qualcosa di materiale da inghiottire. Aveva un viso asciutto, gli occhi tristi. «Povera gente» disse, «come vorrei poterla aiutare». Sollevò lo sguardo verso la donna che stava sempre in piedi appoggiata alla tavola. «E il marito» chiese, «quella disgraziata non ha un marito?» «Oh» disse la donna, «la storia del marito è lunga, è tutta colpa sua se sono successe tante disgrazie». «Sì?» chiese il controllore con meraviglia, «è mai possibile?» «Non aveva voglia di lavorare» continuò la donna, «faceva il meccanico, con bottega, ma invece di starci dentro a fare i lavori per i clienti, andava all'osteria o al bar. Almeno così ha sempre raccontato la moglie». «Che roba!» esclamò l'uomo e fece un gesto con la mano. «Sembrerebbe impossibile che potessero esistere dei tipi simili, eppure si vede che ci sono. È gente che bisognerebbe prendere a schiaffi». «Lo so» disse la donna, «ma quella poveretta non aveva certo la forza di prendere a schiaffi lui che era forte e prepotente».
«Non se ne accorgeva questo disgraziato» disse ancora il gasista, «che la famiglia andava in rovina, che una delle ragazze se la intendeva con gli uomini?» «Ma quando incominciarono a succedere queste cose lui non c'era, se ne era andato già da tempo. Abbandonò la casa cinque anni dopo il matrimonio, quando i tre figli erano piccoli». «E dove andò?» «Mah!» disse lei, allargando le braccia, «chi lo può sapere? Non si fece mai più vivo». «Ma è spaventoso» disse l'uomo, «si tratta proprio di un delinquente». Fece una smorfia di disgusto, poi chiese: «lei lo ha conosciuto?» «No» rispose la donna, «quella poveretta abita qui soltanto da qualche anno; prima, quando i figli erano piccoli e c'era ancora suo marito, abitava in montagna, a San Quintino».
«A San Quintino?» chiese l'uomo con stupore. «Ma è sicura?» «Altro che» rispose la donna, a sua volta meravigliata. Poi chiese: «Perché, lo mette in dubbio?» «No, non lo metto in dubbio, dicevo così, per dire. E come si chiama quella disgraziata?» «Si chiama Maddalena, Maddalena Corizzi. La conosce, forse?» «Oh, no» disse il gasista. Mise in tasca la matita che in tutto questo tempo aveva rigirato tra le dita della mano destra. Si voltò verso la porta, quasi di scatto. «Scusi le chiacchiere, le ho fatto perdere tempo». Si avviò per il ballatoio per imboccare le scale in discesa e andare ad iniziare il giro dal basso.
Nel cortile c'era ancora il gruppetto di casigliane che stavano parlando. Il gasista bussò alla prima porta e una delle donne si staccò dal crocchio. «Arrivo, arrivo» disse, mentre correva per farlo entrare. «È la prima volta che faccio questa strada» disse l'uomo, «mi deve indicare dov'è il contatore». Entrò, lesse i numeri, li trascrisse come un automa, come se nemmeno li vedesse. Pensava a Maddalena, da quanto tempo si era dimenticato di lei; gli venivano in mente anche i bambini, Gino, Tina, Evelina. Chissà delle due figlie qual era quella che faceva la vita.
Continuò le sue letture passando da un'abitazione all'altra senza più dire una parola; anche se qualche donna cercava di attaccar discorso, lui taceva. Tentava di figurarsi le facce che potevano avere i suoi figli diventati adulti. E gli venivano anche in mente quei giorni lontani, quella sua disaffezione al lavoro, quel vagare da un'osteria a un bar, passare da una partita a briscola a una al biliardo. Infine c'era stata la sua decisione di andarsene, non sapeva neanche lui dove e perché. Aveva trascorso alcuni mesi come un barbone fino a quando aveva trovato Marina, che era riuscita a tirarlo fuori da quel gorgo nel quale era scivolato, prima usando la dolcezza poi la fermezza, l'imposizione. Gli aveva fatto ritrovare la volontà di lavorare. E con Marina, sua attuale compagna, aveva due figli tra i cinque e i dieci anni.
I controlli nella grande casa di ringhiera erano finiti. Il gasista dal cortile si avviò sotto l'androne per uscire in strada. Quando fu sul marciapiedi si fermò a guardarsi intorno. A sinistra, oltre gli alberi che erano in fondo al viale, c'era l'ospedale. Era là che avevano portato Maddalena, forse c'era anche Gino che aveva la schiena spezzata e la prospettiva della carrozzella. Si aggiustò sulla spalla la cinghia del borsello nel quale teneva il quaderno dei controlli e girò a destra.





lunedì 1 febbraio 2016

La salsiccia del ciabattino

I calzolai col deschetto che facevano le risuolature, o anche soltanto rattoppavano la tomaia con una piccola cucitura, oggi sono praticamente introvabili. A cercare una di queste botteghe quasi sempre si gira a vuoto. Il diffondersi dell'industrializzazione ha di fatto cancellato le riparazioni, rendendo più conveniente l’oggetto nuovo; e così a poco a poco va scomparendo l’artigianato. Come i calzolai, appunto. Ce n’erano di bravissimi, che un piede, dopo averlo ben misurato, sapevano calzarlo alla perfezione. I più si limitavano alle riparazioni e anche tra questi c’erano diversi livelli di bravura: in genere i migliori erano in città, con una clientela esigente, mentre nelle campagne i ciabattini, avendo per le mani soprattutto zoccoli, sapevano più piantar chiodi che lavorare di trincetto. Di questi ne ricordo uno, negli anni trenta, nella Bassa modenese. Si chiamava Rigoni ma era conosciuto come Toppone, per le toppe che metteva nelle scarpe
In marzo, con le prime giornate tiepide, Rigoni portava fuori dalla cucina il deschetto e si metteva a lavorare in cortile. Il cortile era lungo e stretto: da una parte la fila di usci delle varie abitazioni, dall’altra un muro alto due piani, senza finestre. In fondo c’era una rete metallica e oltre la rete la campagna con i filari di olmi che reggevano le viti di Lambrusco. Sistemava il deschetto vicino alla rete, sempre nello stesso posto.
Usciva a lavorare fuori il più presto possibile, ai primi accenni di primavera, per sfuggire al baccano che gli facevano intorno i figli. Ne aveva dieci, la più grande contava quattordici anni, il più piccolo pochi mesi. E tutti stavano nella cucina che era abbastanza grande per farci da mangiare, ma molto piccola per viverci tutto il giorno in due adulti e dieci ragazzi, e soprattutto per lavorarci.
La moglie di Rigoni, alta, magra, sempre vestita di nero, con un fazzoletto nero in testa, aveva sempre un’aria trasognata. sembrava che stese chiedendosi se esisteva o no. I ragazzi le saltavano addosso mentre era seduta a rammendare o a far la calza e lei nemmeno se ne accorgeva, tutt’al più si metteva a lavorare di sbieco per scansarli. Rigoni invece si spazientiva per quel frastuono e quando il clamore si faceva proprio insopportabile gridava: «Basta, basta, vado via, vado in Africa». Si era alla vigilia della guerra in Abissinia e ogni tanto qualcuno del paese partiva volontario. L’Africa in quel tempo sembrava un miraggio che avrebbe potuto risolvere tanti problemi che gravavano sulla gente, per la disoccupazione e la miseria. «Vado in Africa, vado in Africa» ripeteva, ma si sentiva dalla sua voce che fingeva solo di essere arrabbiato e che in Africa, di sua volontà, non ci sarebbe mai andato. Quella masnada di figli, pur chiassosi e turbolenti, erano il suo mondo dal quale non avrebbe potuto separarsi. Quando proprio non ne poteva più gridava: «Tutti su, in camera». La camera era l’unica dell’abitazione, stava sopra la cucina ed era disseminata di pagliericci. Ma dopo un poco si pentiva, li faceva ridiscendere perché aveva paura che qualcuno, nella foga dei giochi, saltasse giù dalla finestra.
Il calzolaio Rigoni lavorava dodici, anche quattordici ore al giorno, incominciava con le prime luci dell’alba e smetteva quando non ci si vedeva più. Sgobbava tanto, ma guadagnava poco perché, com’era molta la sua buona volontà, così era scarsa la sua abilità. Non ne aveva colpa. Il mestiere del ciabattino l’aveva imparato da sé, aggiustando le scarpe dei suoi quindici fratelli, d’inverno, nella stalla. Sposandosi e non avendo voglia di lavorare nei campi, era uscito di famiglia e aveva messo su il deschetto. In paese, viste le sue esecuzioni, gli avevano affibbiato quel soprannome. Ma i suoi erano tutti clienti che andavano da lui solo per riparazioni grossolane: una pezza, due chiodi, una cucitura; per le scarpe nuove e le risolature andavano dagli altri tre calzolai del paese.
Conosceva i suoi limiti e non si lamentava di niente, nemmeno d’essere chiamato Toppone, e di dover lavorare tante ore per guadagnare poco più che la polenta per tutti i suoi figli. Era, anzi, sempre molto allegro. In cucina o nel cortile teneva al suo fianco una sedia, pronta per far sedere l’eventuale cliente. Chi portava un paio di zoccoli o di ciabatte doveva per forza mettersi a sedere, almeno due minuti, a scambiare qualche chiacchiera con lui. E tutti sostavano contenti perché a stare con Rigoni c’era da fare buon sangue. «Argia» gridava alla moglie, «metti a friggere un metro di salsiccia, ché il signore fa uno spuntino con noi». La moglie non alzava nemmeno la testa a quel finto ordine, ormai l’aveva udito migliaia di volte, perché Rigoni parlava molto di salsiccia. Magari insisteva, fingendosi impermalito: «Non crede che le faccia friggere un metro di salsiccia. Ma lo sa che su, in camera da letto, appesi a due stanghe che vanno da muro a muro, ce ne ho tredici metri?»
I clienti ridevano, qualcuno lo stuzzicava per farsi descrivere volume, colore, sapore della sua salsiccia e Rigoni allora si metteva a creare il suo poema per la saporita carne insaccata. Ne parlava con un trasporto e una competenza da far venire l’acquolina in bocca anche a chi s’era appena alzato da tavola. Lì, seduto al deschetto, con le mani abbandonate e immote sulla suola di uno stivale scalcagnato, Rigoni si trasformava con la fantasia in un macellaio-conditore di carne suina, di quei beccai che, nel pieno dell’inverno, vanno di cascina in cascina per le campagne della Bassa emiliana a scannar maiali e sono pagati, elogiati, riveriti dai contadini che in quella operazione da mattatoio vedono quasi un rito. Così Rigoni tritava con parole sapienti e sentite la rossa carne, le infondeva il giusto aroma, l’insaccava dentro un interminabile budello che poi suddivideva in tanti rocchi lunghi una spanna. Il cliente sorrideva divertito e Rigoni continuava a parlare con fervore: stagionava la salsiccia, la friggeva per mangiarla spellata con la polenta o la metteva in umido con l’uva secca, con le uova, con i fagioloni bianchi. In quei momenti la sua eccitazione era tanta che forse sentiva davvero, lì in cucina o nel cortile, il profumo della salsiccia. Per ascoltarlo, smettevano di correre e di gridare anche i suoi ragazzi e l’Argia si svegliava dal suo torpore, rideva quasi inebetita, come se stesse per mettersi a tavola a mangiare il piatto che suo marito aveva preparato con tanta passione. Poi l’incanto finiva e Rigoni concludeva: «Allora ha capito: quando ha bisogno di uno che sappia cucinare qualche metro di salsiccia, venga da me».
Era il grande desiderio che lo faceva parlare in quel modo. Forse di salsiccia in casa sua, da quando era sposato, non se n’era mai mangiata. Parlava per le esperienze giovanili, di quand’era contadino, figlio di famiglia, e nella cascina, in febbraio, ammazzavano il maiale. A comperarla in bottega la salsiccia costava cara, era cibo da gente che aveva soldi; e lui, con tutti quei figli, la salsiccia avrebbe davvero dovuto portarla a casa a metri. Le bocche dei suoi ragazzi erano abituate al baccalà e alle salacche. Fra tanti figli che aveva ce n’era sempre uno che credeva ai tredici metri di salsiccia, pensava che fossero nascosti in qualche angolo della camera. E diceva alla mamma: «Ma se è così buona come dice il babbo, perché non ce ne dai un poco?»


Fu d’autunno che Rigoni s’ammalò. Si era accanito a restare a lavorare in cortile, nonostante il freddo. Si prese la polmonite. Alla fine della prima settimana di malattia ebbe una crisi, i vicini dicevano: «Toppone muore stanotte». Invece si riprese, per tre giorni andò migliorando, il pericolo sembrava superato, qualcuno fra i più amici andò a fargli visita. Era già allegro, come al solito. «Adesso è ancora presto, ma appena sto meglio faccio friggere un paio di metri di salsiccia per riabituare lo stomaco. Ce n’ho tredici metri, giù, in cucina» e strizzava l’occhio contento.
Poi, d’improvviso, la quarta notte dopo la crisi, morì. Fu una notizia dolorosa, per tutto il paese, perché gli volevano bene anche quelli che non erano suoi clienti e disprezzavano le sue capacità di ciabattino. Per il funerale il cortile si riempì di folla. Arrivarono anche dei fiori, una corona mandata da tutte le classi delle scuole elementari, perché ogni classe era frequentata da almeno uno dei figli. Mentre il parroco stava per benedire il feretro, arrivò la fioraia con un grande involto. Aveva un atteggiamento incerto, l’aria confusa. Porgendolo a uno dei presenti che le era più vicino, disse: «Non sono fiori, ma io non c’entro, me l’hanno consegnato con la preghiera di portarlo». Ci fu un momento di esitazione, tutti gli occhi erano su quel misterioso pacco. Anche il prete indugiò, poi fece segno di aprirlo.
Sì, non erano fiori: era salciccia, una lunghissima catena di rocchi disposta in circolo a formare una corona e in mezzo era posato un nastro azzurro con la scritta I SUOI 13 METRI. Si sentì un coro di oh oh e poi parole di stupore e ammirazione. Però non c’era tempo da perdere, la cerimonia doveva concludersi. La bara fu posta sul carro e sulla bara la corona degli alunni. E la salciccia? Nel silenzio ci fu un cercarsi di sguardi, il prete fece un cenno in direzione della cucina, ma una voce disse: «No, portiamola in corteo». «Sì, sì» ribatte una donna e subito alcuni incominciarono a sciogliere la corona di rocchi e ad allungarla, sicché in un attimo, di mano in mano, andò ad ornare la parte posteriore e i fianchi del carro, come in un abbraccio. Ci appiccicarono anche il nastro con I SUOI 13 METRI. Un vecchio commentò: «Come sarebbe contento Toppone, se potesse vedere».
Un funerale memorabile. In paese ne parlano ancora adesso, sebbene siano passati tanti decenni. Naturalmente la salciccia fu mangiata dalla vedova e dai dieci orfani. Ne fecero conto, come fosse un filone d’oro. Servì a sfamare la famiglia per più di un mese. Proprio sul finire degli ultimi rocchi Clotilde, che era la figlia maggiore, trovò da occuparsi in città come serva e un mese dopo fece una scappata a casa a portare il primo stipendio.
Non si era mai saputo chi aveva consegnato alla fioraia il pacco da portare al funerale di Rigoni.