Un
ricordo della bella amicizia tra Remo e Augusto Minucci.
Ci
sono stati, è vero, geni come Leonardo, che seppe eccellere come
pittore scienziato architetto ingegnere e inventore. Più vicino a
noi, abbiamo un Dino Buzzati che si riteneva un pittore prestato alle
lettere; ora, pur apprezzando il suo Poema a fumetti e
constatando che i suoi quadri hanno raggiunto quotazioni
rispettabili, ho l'impressione che le sue opere pittoriche siano
state trascinate dalla sua fama di scrittore e non reggano il
confronto con le opere letterarie. O vogliamo parlare della pittura
del cantautore-musicista Battiato? I critici che se ne sono occupati
ne hanno scritto in maniera più indulgente che benevola, e sono
convinto che i giudizi sarebbero stati diversi se diverso fosse stato
il nome. Per farla breve, secondo me la norma è che chi eccelle in
un campo difficilmente potrà ottenere grandi risultati anche in
altri settori.
Mio
padre, Remo Lugli, indubbiamente aveva qualcosa da raccontare, e
sapeva scriverlo; aveva inoltre l'hobby della pittura, in stile naïf.
Ha lasciato alcuni dipinti gradevoli: mentre scrivo ho sotto gli
occhi un panorama delle rive del Po, viste da un ponte torinese, che
mi ricorda Rousseau il Doganiere. Anche l'autoritratto riportato qui
nel suo blog non mi sembra male. Quell'ombra che copre metà
del viso, dandogli un aspetto tenebroso, riflette il fatto che, fuori
dal contesto professionale in cui doveva sciorinare, come un ferro
del mestiere, l'estroversione del giornalista che domanda e
intervista, Remo era invece piuttosto introverso, pessimista,
talvolta cupo, quasi timoroso delle trame che il destino,
ineluttabile, tesse alle nostre spalle, come in molti dei suoi
racconti.
Altre
sue opere pittoriche (la maggior parte, ad essere sinceri) non sono
altrettanto ben riuscite. Ho in mente, ad esempio, i ritratti delle
nipoti, che furono quasi causa di crisi di pianto (“Siamo così
brutte?”) C'è da dire, però, che Remo fu sempre pienamente
conscio dei propri limiti come pittore; non dipingeva certo nella
convinzione di creare dei capolavori ma perché provava soddisfazione
nel farlo e, dopo la pensione, era anche un modo per far passare il
tempo. C'era poi una forte componente legata alla manualità della
preparazione dei supporti (cartoni, in genere) e alla gestione di
colori e pennelli. Lavorare con le mani gli era sempre piaciuto e si
era anche costruito da sé il cavalletto, in legno e ferro, che
adesso languisce in cantina.
Uno
dei più grandi amici di mio padre fu sicuramente Augusto Minucci,
suo conterraneo (di origini toscane, ma 'naturalizzato' emiliano) e
collega, prima alla Gazzetta di Modena e poi, per tanti anni, a La
Stampa. Alto quasi quanto Remo e moro come lui, magro, un lungo viso
scavato, una Gitane sempre accesa tra le dita ingiallite,
Augusto si occupava, tra l'altro, di critica d'arte, ed era anche un
discreto pittore. Un carattere molto diverso da quello di Remo:
allegro, iperbolico, un po' guascone, sempre incline alla battuta e
allo scherzo. Anche in politica erano su sponde diverse: mio padre
era un fedele elettore di Valerio Zanone mentre Augusto distribuiva
il proprio voto verso l'estremo opposto. Un anno, quando alle
elezioni ci fu un tracollo del PLI, Augusto telefonò a Remo imitando
la voce di Zanone e lo ringraziò per averlo votato, poi si congedò
dicendo che doveva chiamare gli
altri tre suoi elettori. Sfottò bonari, insomma, che non
intaccarono mai la loro amicizia e cui mio padre qualche volta
rispondeva per le rime ma che più spesso liquidava con un gesto
della mano, uno scuotimento del capo e un accenno di sorriso, come se
non valesse la pena sforzarsi per ribattere.
Negli
anni sessanta mio padre comprò un piccolo appartamento al mare, in
Liguria, e poco tempo dopo Augusto trovò anche lui, da quelle parti,
una casa rustica nell'entroterra. Acquisti fatti per portare in
vacanza i figli, visto che il mare non piaceva a nessuno dei due. Nei
periodi di vacanza condivisi passavano molto tempo insieme, parlando
spesso in dialetto emiliano; disdegnando le spiagge, giravano per i
paesini scattando fotografie (Augusto con la sua Leica M6 che vantava
come nettamente superiore alla Contarex di mio padre); oppure
andavano alla ricerca di robivecchi e rigattieri, sempre con la
speranza di fare il colpaccio, di scovare il pezzo importante
sottovalutato dal venditore. Remo e Augusto erano ambedue fieri delle
proprie collezioni di antiquariato e spesso si perdevano in
interminabili discussioni confrontando i pezzi, ciascuno vantando i
propri e denigrando quelli dell'amico; poteva anche capitare, ma
raramente e dopo lunghe ed estenuanti trattative, che facessero degli
scambi. È anche da giornate come queste che viene l'ispirazione per
molti dei racconti di mio padre centrati sull'antiquariato, usciti
prima su La Stampa e poi raccolti nel volume Tarlo ci cova.
Alla
sera sovente si ritrovavano con le famiglie alla Trattoria del Bosco,
sull'altopiano delle Mànie alle spalle di Finale Ligure. Un locale
rustico, immerso nel silenzio e nel verde della “macchia
mediterranea”, che offriva coniglio, allevato in libertà e preso
con il fucile come fosse selvaggina; arrosto; cima alla genovese;
cinghiale, quando capitava a tiro; vino nostralino; raramente menu di
mare, boghe per lo più. Cibo genuino, cucina semplice, trattamento
famigliare, lunghe tavolate, gran risate, piccolo conto rigorosamente
pagato alla romana.
Avendo
tempo a disposizione, era inevitabile che le punzecchiature di
Augusto arrivassero a toccare anche il tema della pittura di Remo. Io
non ero presente, probabilmente ero in spiaggia a fare a botte con i
bambini di Milano, ma credo proprio che le cose siano andate come ora
le descrivo: Augusto deve aver detto a Remo che non sarebbe riuscito
a trovare chi accettasse un suo dipinto neanche in regalo e deve
averlo sfidato scommettendo una cena. A quell'epoca, i paesini della
Riviera brulicavano di piccole gallerie d'arte, aperte solo d'estate,
che vendevano quadri di artisti più o meno improvvisati ai turisti
desiderosi di arredare con poca spesa le case delle vacanze. Remo
deve aver pensato che, se tanti erano disposti a spendere qualche
lira per quadri di modesto valore, anche lui sarebbe riuscito a
piazzarne uno dei suoi, tantopiù gratis. Così, pur essendo
contrario per carattere alle scommesse ed a qualsiasi azzardo, finì
per accettare.
Quel
pomeriggio si trovarono sulla passeggiata a mare, o su qualche altra
via con buon traffico pedonale. Mio padre aveva portato una sua
opera, una natura morta con frutta, credo. La appoggiò ad un
muretto, ben in vista, come fosse stata abbandonata; poi, lui e
l'amico sedettero su una panchina poco distante a sorvegliare la
scena.
Ogni
tanto qualche passante rallentava, gettava un'occhiata, poi tirava
avanti.
Dopo
forse due ore, un refolo di vento o l'aria mossa da un'auto veloce
fecero cadere il quadro a faccia in giù. Remo fece per alzarsi e
andare a raddrizzarlo ma fu preceduto dall'ennesimo passante che,
incuriosito, lo raccolse da terra, lo guardò a lungo – mio padre
deve aver creduto, per un attimo, di aver vinto la scommessa – ma
poi lo rimise giù, come l'aveva trovato, e se ne andò.
Fu
troppo. Raccolse la sua natura morta, la gettò con rabbia in un
bidone lì vicino e, tra le risate di Augusto, si dichiarò
sconfitto.
Quella
sera ci trovammo tutti alla Trattoria del Bosco. Remo toccò appena
il cibo mentre Augusto mangiò ben più del solito, con grande
appetito. Il giorno dopo non si fece vivo. Sua moglie Piera ci riferì
che era rimasto a casa con un gran mal di stomaco e, timorosa,
sperava che non fosse qualcosa di brutto. «Moché cancher, n'èt
vést ch'aièr sira a l'a magné com on nimèl?» fu la
rassicurazione un po' stizzita di mio padre.
Augusto
superò bene quell'indigestione e morì oltre quarant'anni dopo, tre
anni prima di mio padre. Mi piacerebbe credere in un aldilà per
pensare che l'abbia aspettato, con le loro mogli che li avevano
preceduti, per fargli da anfitrione nella nuova località di
villeggiatura, dove i rigattieri danno via a poco tele di Caravaggio
e dove sicuramente c'è un posto molto simile alla Trattoria del
Bosco, tranne che lì si potrà anche esagerare senza timore di
doverne pagare lo scotto. Passeranno il tempo sostenendo le parti chi
di San Gimignano e chi di San Prospero, e perduti in eterne
discussioni sulla forma delle nuvole o su altri dettagli che noi,
qui, non possiamo nemmeno immaginare.
Daniele Lugli
Daniele Lugli
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