sabato 27 febbraio 2016

Scommettiamo una cena?

Un ricordo della bella amicizia tra Remo e Augusto Minucci.
Ci sono stati, è vero, geni come Leonardo, che seppe eccellere come pittore scienziato architetto ingegnere e inventore. Più vicino a noi, abbiamo un Dino Buzzati che si riteneva un pittore prestato alle lettere; ora, pur apprezzando il suo Poema a fumetti e constatando che i suoi quadri hanno raggiunto quotazioni rispettabili, ho l'impressione che le sue opere pittoriche siano state trascinate dalla sua fama di scrittore e non reggano il confronto con le opere letterarie. O vogliamo parlare della pittura del cantautore-musicista Battiato? I critici che se ne sono occupati ne hanno scritto in maniera più indulgente che benevola, e sono convinto che i giudizi sarebbero stati diversi se diverso fosse stato il nome. Per farla breve, secondo me la norma è che chi eccelle in un campo difficilmente potrà ottenere grandi risultati anche in altri settori.
Mio padre, Remo Lugli, indubbiamente aveva qualcosa da raccontare, e sapeva scriverlo; aveva inoltre l'hobby della pittura, in stile naïf. Ha lasciato alcuni dipinti gradevoli: mentre scrivo ho sotto gli occhi un panorama delle rive del Po, viste da un ponte torinese, che mi ricorda Rousseau il Doganiere. Anche l'autoritratto riportato qui nel suo blog non mi sembra male. Quell'ombra che copre metà del viso, dandogli un aspetto tenebroso, riflette il fatto che, fuori dal contesto professionale in cui doveva sciorinare, come un ferro del mestiere, l'estroversione del giornalista che domanda e intervista, Remo era invece piuttosto introverso, pessimista, talvolta cupo, quasi timoroso delle trame che il destino, ineluttabile, tesse alle nostre spalle, come in molti dei suoi racconti.
Altre sue opere pittoriche (la maggior parte, ad essere sinceri) non sono altrettanto ben riuscite. Ho in mente, ad esempio, i ritratti delle nipoti, che furono quasi causa di crisi di pianto (“Siamo così brutte?”) C'è da dire, però, che Remo fu sempre pienamente conscio dei propri limiti come pittore; non dipingeva certo nella convinzione di creare dei capolavori ma perché provava soddisfazione nel farlo e, dopo la pensione, era anche un modo per far passare il tempo. C'era poi una forte componente legata alla manualità della preparazione dei supporti (cartoni, in genere) e alla gestione di colori e pennelli. Lavorare con le mani gli era sempre piaciuto e si era anche costruito da sé il cavalletto, in legno e ferro, che adesso languisce in cantina.
Uno dei più grandi amici di mio padre fu sicuramente Augusto Minucci, suo conterraneo (di origini toscane, ma 'naturalizzato' emiliano) e collega, prima alla Gazzetta di Modena e poi, per tanti anni, a La Stampa. Alto quasi quanto Remo e moro come lui, magro, un lungo viso scavato, una Gitane sempre accesa tra le dita ingiallite, Augusto si occupava, tra l'altro, di critica d'arte, ed era anche un discreto pittore. Un carattere molto diverso da quello di Remo: allegro, iperbolico, un po' guascone, sempre incline alla battuta e allo scherzo. Anche in politica erano su sponde diverse: mio padre era un fedele elettore di Valerio Zanone mentre Augusto distribuiva il proprio voto verso l'estremo opposto. Un anno, quando alle elezioni ci fu un tracollo del PLI, Augusto telefonò a Remo imitando la voce di Zanone e lo ringraziò per averlo votato, poi si congedò dicendo che doveva chiamare gli altri tre suoi elettori. Sfottò bonari, insomma, che non intaccarono mai la loro amicizia e cui mio padre qualche volta rispondeva per le rime ma che più spesso liquidava con un gesto della mano, uno scuotimento del capo e un accenno di sorriso, come se non valesse la pena sforzarsi per ribattere.
Negli anni sessanta mio padre comprò un piccolo appartamento al mare, in Liguria, e poco tempo dopo Augusto trovò anche lui, da quelle parti, una casa rustica nell'entroterra. Acquisti fatti per portare in vacanza i figli, visto che il mare non piaceva a nessuno dei due. Nei periodi di vacanza condivisi passavano molto tempo insieme, parlando spesso in dialetto emiliano; disdegnando le spiagge, giravano per i paesini scattando fotografie (Augusto con la sua Leica M6 che vantava come nettamente superiore alla Contarex di mio padre); oppure andavano alla ricerca di robivecchi e rigattieri, sempre con la speranza di fare il colpaccio, di scovare il pezzo importante sottovalutato dal venditore. Remo e Augusto erano ambedue fieri delle proprie collezioni di antiquariato e spesso si perdevano in interminabili discussioni confrontando i pezzi, ciascuno vantando i propri e denigrando quelli dell'amico; poteva anche capitare, ma raramente e dopo lunghe ed estenuanti trattative, che facessero degli scambi. È anche da giornate come queste che viene l'ispirazione per molti dei racconti di mio padre centrati sull'antiquariato, usciti prima su La Stampa e poi raccolti nel volume Tarlo ci cova.
Alla sera sovente si ritrovavano con le famiglie alla Trattoria del Bosco, sull'altopiano delle Mànie alle spalle di Finale Ligure. Un locale rustico, immerso nel silenzio e nel verde della “macchia mediterranea”, che offriva coniglio, allevato in libertà e preso con il fucile come fosse selvaggina; arrosto; cima alla genovese; cinghiale, quando capitava a tiro; vino nostralino; raramente menu di mare, boghe per lo più. Cibo genuino, cucina semplice, trattamento famigliare, lunghe tavolate, gran risate, piccolo conto rigorosamente pagato alla romana.
Avendo tempo a disposizione, era inevitabile che le punzecchiature di Augusto arrivassero a toccare anche il tema della pittura di Remo. Io non ero presente, probabilmente ero in spiaggia a fare a botte con i bambini di Milano, ma credo proprio che le cose siano andate come ora le descrivo: Augusto deve aver detto a Remo che non sarebbe riuscito a trovare chi accettasse un suo dipinto neanche in regalo e deve averlo sfidato scommettendo una cena. A quell'epoca, i paesini della Riviera brulicavano di piccole gallerie d'arte, aperte solo d'estate, che vendevano quadri di artisti più o meno improvvisati ai turisti desiderosi di arredare con poca spesa le case delle vacanze. Remo deve aver pensato che, se tanti erano disposti a spendere qualche lira per quadri di modesto valore, anche lui sarebbe riuscito a piazzarne uno dei suoi, tantopiù gratis. Così, pur essendo contrario per carattere alle scommesse ed a qualsiasi azzardo, finì per accettare.
Quel pomeriggio si trovarono sulla passeggiata a mare, o su qualche altra via con buon traffico pedonale. Mio padre aveva portato una sua opera, una natura morta con frutta, credo. La appoggiò ad un muretto, ben in vista, come fosse stata abbandonata; poi, lui e l'amico sedettero su una panchina poco distante a sorvegliare la scena.
Ogni tanto qualche passante rallentava, gettava un'occhiata, poi tirava avanti.
Dopo forse due ore, un refolo di vento o l'aria mossa da un'auto veloce fecero cadere il quadro a faccia in giù. Remo fece per alzarsi e andare a raddrizzarlo ma fu preceduto dall'ennesimo passante che, incuriosito, lo raccolse da terra, lo guardò a lungo – mio padre deve aver creduto, per un attimo, di aver vinto la scommessa – ma poi lo rimise giù, come l'aveva trovato, e se ne andò.
Fu troppo. Raccolse la sua natura morta, la gettò con rabbia in un bidone lì vicino e, tra le risate di Augusto, si dichiarò sconfitto.
Quella sera ci trovammo tutti alla Trattoria del Bosco. Remo toccò appena il cibo mentre Augusto mangiò ben più del solito, con grande appetito. Il giorno dopo non si fece vivo. Sua moglie Piera ci riferì che era rimasto a casa con un gran mal di stomaco e, timorosa, sperava che non fosse qualcosa di brutto. «Moché cancher, n'èt vést ch'aièr sira a l'a magné com on nimèl?» fu la rassicurazione un po' stizzita di mio padre.

Augusto superò bene quell'indigestione e morì oltre quarant'anni dopo, tre anni prima di mio padre. Mi piacerebbe credere in un aldilà per pensare che l'abbia aspettato, con le loro mogli che li avevano preceduti, per fargli da anfitrione nella nuova località di villeggiatura, dove i rigattieri danno via a poco tele di Caravaggio e dove sicuramente c'è un posto molto simile alla Trattoria del Bosco, tranne che lì si potrà anche esagerare senza timore di doverne pagare lo scotto. Passeranno il tempo sostenendo le parti chi di San Gimignano e chi di San Prospero, e perduti in eterne discussioni sulla forma delle nuvole o su altri dettagli che noi, qui, non possiamo nemmeno immaginare.

Daniele Lugli

Nessun commento:

Posta un commento

Dimmi la tua opinione: