mercoledì 26 agosto 2015

Cammino sull'acqua

Nei sogni ci sono tante stranezze di luoghi e di argomenti, incongruenze e assurdità, personaggi a volte banali o strambi e a volte limpidi, come se fossero reali, tanto che l’indomani mi chiedo se li ho davvero conosciuti e fanno parte dei miei ricordi. Queste situazioni, questa gente della notte hanno un significato, vogliono dire qualcosa? Forse a saperle leggere con capacità psicoanalitica potranno dare indicazioni sul carattere e sulla personalità. Con qualche utilità? Il mondo onirico notturno è sempre rapidamente fuggevole, lo si ricorda con relativa chiarezza nell'immediato risveglio, ma pochi minuti dopo è già svanito. Se invece scrivo subito qualche appunto per fissare la trama del sogno, al mattino sono in grado di riesumare tutta la vicenda virtualmente vissuta nella notte e di ridarle vita. Così anche le emozioni si ravvivano, eccitano o mordono l'animo.


Siamo su un ascensore, in molti, stretti da soffocare. Ogni tanto una fermata e molti escono, ma restiamo sempre fitti. Sono comitive che vanno in visita. Esco anch’io con il mio gruppo. Dobbiamo seguire un itinerario. Siamo a Venezia, c’è acqua. Si cammina nell’acqua che è poco profonda e limpida, si vedono in lontananza punti in cui è più alta e là ci sono pesci, uno grosso che sembra ora un cane, ora un cavallo che nuota con fatica. Stiamo andando a visitare una specie di fiera, si salgono scale anguste che passano in mezzo a tanti oggetti esposti, roba di nessun conto, mucchi di cianfrusaglie. A poco a poco il gruppo si dirada, siamo in pochi, procediamo con difficoltà sui gradini sempre più ingombri. A un tratto mi accorgo che sono solo, mi sento abbandonato, cerco di fuggire, ma non so quale direzione prendere perché ci sono tante frecce che si contrastano a vicenda. Finalmente riesco a tornare all’aperto, a camminare nell’acqua. Incontro una signora che ha al guinzaglio un cagnolino. Mi fa segno di seguirla, mi farà da guida per ritrovare gli altri, le vado dietro tranquillizzato. Per poco, perché d’improvviso non la vedo più. La chiamo gridando, signora, signora. Inutilmente. E mi ritrovo nella fiera. Ora non ci sono più le scale ingombre ma corridoi abbastanza ampi. Lo riconosco, è un percorso normale di una esposizione, con gli stand e in ogni stand c’è, visibile a mezzo busto, una persona, uomo o donna. Meno male, mi rassicuro, anche perché tutti questi standisti sono ben animati, guardano intorno, parlano. Ma con chi parlano se ognuno è isolato e non ha in mano un telefono? Guardo meglio e m’accorgo che non sono uomini e donne, ma manichini azionati da congegni misteriosi. Allora ho la terribile consapevolezza di essere proprio solo, mi sento perduto. Mi metto a correre con la speranza di ritrovare la signora con il cagnolino. La chiamo, la chiamo.

giovedì 20 agosto 2015

Un balzo e si vola

Non di rado i miei sogni sono di tipo angoscioso. Uno che si ripete è quello dell’impossibilità di trasmettere un articolo al giornale che lo sta aspettando. Ho fatto l’inviato per decine d’anni e svolto alcune migliaia di servizi fuori sede, cioè sono andato sul posto, anche con viaggi lunghi centinaia di chilometri, ho raccolto le informazioni necessarie, ho scritto e poi ho trasmesso al giornale il testo via telefono dettando agli stenografi o servendomi del computer e del modem. Tutto nello stesso giorno, con tempestività, senza perdere un minuto. Non ho mai avuto problemi, nessun servizio è mancato e nemmeno giunto in ritardo per mia colpa. Certo, sapevo che con il poco tempo di cui disponevo lavoravo sul filo del rasoio: sarebbe bastata l’interruzione di una linea telefonica o un guasto all’auto che mi bloccava in una località isolata per farmi mancare il servizio. Lo sapevo ma non ne avevo turbamenti: una consapevolezza che mi lasciava indifferente; o per lo meno di questo ero convinto.
Da quando non lavoro più - ormai oltre venti anni - di tanto in tanto vivo in sogno un dramma per l’impossibilità di trasmettere il servizio già pronto. Solitamente c’è di mezzo il telefono: lunghe code di persone che mi precedono davanti all’unico apparecchio, oppure la linea che non si prende, il disco combinatore che si inceppa, la voce che va e viene, lo stenografo che ripete "non sento, non sento" o il computer centrale del giornale che non accetta il collegamento del modem. A volte non posso nemmeno scrivere, bloccato da un susseguirsi continuo di circostanze che non mi consentono di tradurre in articolo gli appunti.
Un altro sogno che si ripete è quello dell’automobile che non trovo più: vado in giro di parcheggio in parcheggio con angoscia crescente perché ho molta fretta, c’è chi mi aspetta oppure sono in ritardo con il lavoro; e mi struggo nel cercare di ricordare dove l’ho lasciata, senza riuscirci. Tutti ripartono con la loro automobile, solo io non ritrovo la mia.
Ancora. Sono lontano da casa ed è da tanto che non do mie notizie, vorrei telefonare ma non posso e sento crescere un senso di colpa. La casa non è la mia ultima, quella della mia famiglia nella quale ho trascorso la maggior parte della vita, ma quella della fanciullezza e giovinezza, che lasciai per sposarmi e per andare a vivere con mia moglie e mia suocera. E infatti la sensazione di rimorso è nei confronti dei miei genitori, soprattutto mia madre. Assieme all’angustia c’è un presentimento della gioia e dell’emozione che proverò nel momento in cui potrò mettermi in contatto con loro.

Fortunatamente qualche sogno è piacevole. Uno che ritorna di tanto in tanto è quello del volo. Un volo mio, del mio corpo, non con l’aereo o l’elicottero. Non so come lo spicco, se con un balzo da terra o lanciandomi dall’alto: mi trovo già sollevato a media altezza, poco al di sopra di chi cammina, e le mie braccia, come grandi ali, si aprono e si richiudono contemporaneamente in due ampi semicerchi. Il nuoto aereo mi fa avanzare rapido e io mi sento leggero ed elegante, pervaso da una contentezza sconfinata; sono anche sorpreso per l’evento che sento miracoloso ma al tempo stesso come una cosa naturale.

martedì 11 agosto 2015

L'imprevisto

Continuava a nevicare. Erano dieci giorni che i quattro operai aspettavano di poter eseguire i controlli agli impianti della diga per i quali erano saliti fin lassù. A duemila metri di quota, circondati da un paesaggio sommerso dalla neve, non avevano altra scelta che quella di rimanere rintanati nella casa del custode. E passavano il tempo giocando ai dadi. Era stato Carletto, il più giovane, ad avere l'idea. Carletto, abile sciatore, scendeva in paese ogni tre giorni. Andava giù nel pomeriggio e ritornava l'indomani mattina con uno zaino di provviste. Una faticaccia: sci in discesa e racchette ai piedi nella salita. Da quindici giorni il gatto delle nevi, il mezzo cingolato in dotazione alla centrale, era guasto; si aspettava che un meccanico potesse salire per ripararlo, ma non arrivava mai. Così era stato deciso che i quattro, ormai saliti, aspettassero di poter eseguire il loro lavoro e uno di loro provvedesse ai rifornimenti a piedi.
Carletto affrontava la fatica e i disagi del viaggio per le provviste e, cosa segreta ma per lui molto importante, per mantenere i contatti con il mondo femminile. In paese aveva la fama d'essere un conquistatore di donne. Di questo argomento non parlava mai: era uno di quelli che tacciono, ma agiscono. I compaesani dicevano ci fossero sempre almeno due ragazze che si consideravano fidanzate legittimamente con lui.
Una mattina, dunque, Carletto arrivò alla diga con i dadi. Li gettò sulla tavola in mezzo alle pagnotte, alle scatolette di carne, ai formaggi e ai pacchetti di sigarette: cinque dadi da poker con relativo bossolo di cuoio, bellissimi. Olivo e Adeodato li guardarono un po' stupiti, coi dadi non avevano mai giocato. Lino invece li aveva usati qualche volta, da militare. «Con questi passeremo il tempo bene» aveva detto Carletto, poi aveva spiegato le regole del gioco: «Si buttano i dadi: per il punteggio contano soltanto il re, che vale cinquanta punti, e l'asso, che ne vale cento. Fin che si fanno punti, si possono tirare i rimanenti dadi e se vengono tutt'e cinque si fa un altro giro. Qui però viene il bello» aveva sottolineato Carletto: «se nessun dado presenta un re o un asso, cioè se si fa cista, termine che indica zero punti, quelli appena realizzati si annullano e il punteggio rimane fermo come al precedente giro. Vince chi supera per primo duemila».
Dapprincipio Olivo e Adeodato avevano giocato con un certo impaccio perchè faticavano a prendere dimestichezza con le regole; poi, via via, avevano snellito i loro gesti e avevano messo nel gioco passione e entusiasmo. La posta era bassa, cinque euro, tanto per ravvivare le partite con l'interesse. Tuttavia erano tante le ore della giornata dedicate al gioco che al momento d'andar a letto qualcuno, bersagliato dalla sfortuna, poteva aver perduto anche più di cento euro. Aveva però la speranza di rifarsi il giorno dopo.
Ma ciò che dava vivacità alle partite non era tanto la paura di perdere molto denaro o la speranza di vincerlo, quanto la lotta che i giocatori ingaggiavano con la iettatura. Era stato Carletto, superstizioso sfegatato, che aveva portato, oltre alla smania per il gioco, il clima degli scongiuri. Sicché ogni lancio dei dadi era preceduto da parole propiziatorie del giocatore e da altre di malaugurio da parte dei rivali. Nella cucina del custode sembrava ci fossero non quattro giocatori ma venti, tante erano le risate, le imprecazioni, le grida di entusiasmo che via via si alternavano o si sommavano. Ma il tutto in una atmosfera bonaria, divertente anche per chi perdeva.
A mano a mano che passavano i giorni Adeodato si andava facendo il più accanito dei giocatori e affrontava ogni partita con l'impegno di chi si accinge a un compito di bravura. Il suo occhio scrutava con rapidità i dadi sulla tavola e il foglietto dei risultati; le sue mani tradivano l'emozione e il nervosismo con il continuo sfregamento dei polpastrelli sul palmo; le sue labbra bisbigliavano frasi di evocazione. Se il suo punteggio non procedeva di pari passo con quello degli altri, si lamentava come se fosse stato colpito da una sventura. Ma se la fortuna lo assisteva facendo balzare avanti i suoi punti, allora Adeodato trattava gli avversari con superiorità, li sbeffeggiava, rideva a crepapelle davanti a chi lanciava i dadi senza fare un punto. «Ha fatto cista» gridava, «ha fatto cista, cista, come gli sta bene questa cista». Ripeteva questa strana parola, che aveva sentito per la prima volta sulla bocca di Carletto, come se gli fosse familiare dall'infanzia. «Càlmati, càlmati» gli dicevano gli altri, «non ti esaltare troppo, lasciaci giocare tranquilli».
Un pomeriggio Adeodato, nel primo giro di una partita, fece duemila punti. Si mise a fare salti di gioia. «Guardate che giocatore, sono» diceva. «Provate voi, se siete capaci di fare qualcosa del genere». La partita praticamente l'aveva già vinta: Carletto aveva 150 punti, Lino 300 e Olivo appena 50. Chi poteva avere una fortuna come la sua, per fare un balzo tale da oltrepassare i duemila? E poi, a lui restava sempre l'ultima parola: chissà quanti altri punti avrebbe azzeccato.
«Bene» disse Carletto afferrando il bossolo con i dadi, «quanto vuoi scommettere che vinco io?» Adeodato gli fece una risata sulla faccia.
«Ti vuoi proprio suicidare» disse.
«Se perdo ti do cento volte la puntata, cinquecento euro; ma se vinco» e qui Carletto fece una pausa guardando l'amico fissamente negli occhi «mi lasci andare a portare i saluti a tua moglie, stasera, quando scendo in paese».
Ci fu silenzio. Adeodato si fece improvvisamente serio. Per la sua mente passarono, rapidi, molti pensieri: la fama di dongiovanni di Carletto; la propria moglie bella, giovane, sola nella casetta appartata dietro la chiesa; la provocazione che l'amico gli stava facendo, perché era evidente che, se gli chiedeva il permesso di andarla a «salutare», intendeva in realtà chiedergli il permesso di andarla a insidiare. Ma d'altra parte non poteva, lui, Adeodato, dimostrare d'aver paura della galanteria da strapazzo di Carletto; sua moglie gli era senza dubbio fedele, non avrebbe corso pericoli; e infine qui, al proprio attivo, aveva già duemila punti, vale a dire la partita di fatto vinta. Tutti lo stavano a fissare, tutti aspettavano una sua decisione.
«Ci sto» disse, «se tu riesci a vincere, puoi andare a portare i miei saluti a mia moglie».
Tirò per primo Lino e fece 150 portando la sua quota a 450, lontanissima dalla vittoria. Poi tirò Olivo: gli venne un asso e basta, era decisamente tagliato fuori. Carletto chiese, con un gesto delle braccia, che facessero largo. Tolse dal portamonete un piccolissimo corno di ferro, che non aveva mai usato e che nessuno gli aveva mai visto, e lo introdusse nel bossolo con i dadi. Era soltanto l'inizio di un complesso rito propiziatorio. Incominciò ad agitare il bussolotto con gesto largo e lento, pronunciando strane, incomprensibili parole. Adeodato lo guardava con un sorriso di sufficienza. Carletto, piccolo com'era, si protese sul tavolo, vi si sdraiò quasi col busto per raggiungere il centro, prese a fare con la bocca un richiamo delicato, pieno di amore e di dolcezza, come se dovesse chiamare un caro animale domestico che s'era sperduto. «Piccoli assi miei, venite, venite» disse alla fine e tirò i dadi con estremo garbo, facendoli uscire roteando il bossolo leggermente inclinato.
Ne vennero quattro, di assi. Carletto tirò il quinto e fu un re. Doveva quindi continuare il gioco. Rimise dentro l'amuleto assieme ai cubi, riprese a pronunciare le strane frasi. Adeodato si mise a gridare: «Cista, fai cista» per tentare di combattere l'atmosfera che il rivale stava creando. «Adesso ti viene una cista e perdi tutto, cista, cista, cista». Carletto vuotò ancora con delicatezza il bussolotto ed ebbe due assi e due re, tirò il rimanente dado e fu un asso. Era arrivato a 850 punti e poteva tirare di nuovo.
«Dài, che ce la fai» l'incitavano Lino e Olivo. Adeodato si mise a imprecare. «Basta con quel corno» gridò,«devi tirare i dadi da soli. Ma tanto, questa volta non fai niente e perdi tutto». Carletto, sempre steso sul tavolo, sempre chiamando gli assi come fossero gattini smarriti, tornò a tirare, questa volta senza amuleto: altri quattro assi e un re.
«Roba da matti, non si è mai saputo di una fortuna così sfacciata. Non voglio più vedere, guardate voi» disse Adeodato, rivolgendosi a Lino e Olivo, «poi mi chiamate» e si andò a sedere vicino alla finestra.
Passarono tre minuti di grande tensione, con un silenzio rotto solo dal bisbigliare di Carletto e dal rotolare dei dadi sulla tavola. Poi si udì un grido di Olivo: «Fuori! è arrivato a 2050, ha vinto lui».
Adeodato si alzò in piedi, pallido, si avvicinò al tavolo con l'impressione di vacillare. Ma non era perduto niente, ancora: toccava a lui chiudere il gioco. Possibile che non facesse cento punti, cinquanta più dell'avversario? Tirò senza pensarci tanto, voleva farsi vedere superiore a tutti, coraggioso. Non uscì niente.
«Cista, cista» gridò Carletto con un balzo: «ho vinto!»

Non riusciva a prender sonno, Adeodato. Pensava a Carletto che era giù, in paese, ed era andato a portare i saluti a Gisella. Chissà cosa aveva tentato di fare. Questo pensiero gli stava rodendo la testa e gli insinuava un senso di colpa crescente. Aveva voluto sfidare il normale corso delle cose. Ma perchè lo aveva fatto? Se lo chiedeva senza sapersi dare una risposta, solo ne raccoglieva maggiore peso, accoramento, consapevolezza dell'errore commesso. Pensava: non si può pretendere di affrontare i misteri che ci circondano, provocare ciò che non si conosce. Di Gisella aveva sempre avuto fiducia ed era certo che finora questa fiducia fosse stata ben riposta, ma adesso con questo atto insensato andava a sconvolgere la quiete, la linearità dell'andamento degli eventi. Gettava Gisella nelle braccia di Carletto, ecco il risultato: proprio una follia, sapendo quale fama di donnaiolo lui godeva.
E poi, a ben riflettere, c'era da essere proprio tanto sicuri di Gisella? Una volta, ricordava, l'aveva sorpresa a parlare con il postino e le aveva chiesto che cosa stessero dicendo, ma lei era arrossita e non aveva saputo rispondere. Ora Carletto era andato a casa sua a portare quei maledetti saluti. Forse era riuscito a prolungare la visita, forse era restato addirittura a cena con la Gisella; forse era ancora là adesso. Non poteva resistere. Si alzò, piano, perché Lino e Olivo non se ne accorgessero. Prese gli sci. Sarebbe andato giù, a vedere. Fortunatamente c'era la luna, in meno di due ore sarebbe arrivato davanti a casa.
Vi giunse poco dopo lo scoccare della mezzanotte, sudato e ammaccato in più punti per due cadute. Il cuore gli batteva forte. Che cosa avrebbe detto a Gisella, per giustificare quell'improvviso ritorno? Niente, che aveva tanta voglia di vederla. E se avesse trovato in casa Carletto? Picchiò tre colpi di battente poi, rapidamente, si portò a fianco della casa, un po' scostato, per tenere d'occhio sia la porta d'ingresso sia le finestre sul retro. Trascorse un minuto di silenzio che gli parve lunghissimo, poi la finestra del pianterreno, dietro, si spalancò di colpo e un uomo balzò fuori e subito si mise a correre sulla neve gelata, verso il bosco. Era alto, magro, non era Carletto. Quasi istupidito dalla visione, Adeodato tardò qualche momento a rendersi conto che ai piedi della finestra l'uomo aveva perduto un indumento. Andò a raccoglierlo, era una giacca di renna marrone. Era la giacca del figlio del farmacista: soltanto lui, in paese, ne aveva una.


Adeodato rimase immobile, come pietrificato. Poi si portò le mani a coprirsi la faccia e scoppiò in pianto. Dunque tutto finiva: non più giorni felici, a pensare a Gisella così buona, che gli voleva tanto bene. Era, è, una vigliacca traditrice che si merita solo di essere cacciata con un calcio in culo. Ma adesso che fare? Andare dentro e far partire il dramma per annunciarle che la caccerà, che divorzieranno? Rimase ancora per un po’ immobile. Il freddo era pungente, lo faceva tremare. Gli sovvennero gli amici che si sarebbero accorti della sua assenza e l’avrebbero aspettato. Si mosse per tornare: sì, bisognava pensarci su, possibilmente anche dormire. Comunque fosse andata, la sua vita cambiava.

mercoledì 5 agosto 2015

L'anguria

Una giornata molto piena, su e giù per paesi dell'Emilia a visitare sportelli bancari, a discutere con i direttori dei problemi che la banca deve affrontare in tempo di crisi. Ma il suo incarico ispettivo è di soddisfazione; e altro piacere gli viene dal poter viaggiare su questa automobile veramente confortevole. Era da tempo che ne desiderava una con il condizionatore. Adesso ce l'ha e può constatare che il caldo, mentre guida, non è più un problema. Siamo nel pieno d'agosto: se avesse viaggiato con la vettura che aveva prima, oggi avrebbe bagnato le classiche sette camicie e invece è fresco e riposato, per nulla preoccupato di dover affrontare, adesso che è sera, tanti altri chilometri per attraversare l'Appennino. L'ha da appena un mese questa auto: è di seconda mano, con un anno di vita e cinquantamila chilometri. Sembrano tanti, ma per una vettura di questo tipo, tedesca e di gran marca, non sono nulla. Con questi motori, dice chi se ne intende, si possono fare anche trecentomila chilometri prima di revisionarli.
È venerdì, inizio del fine settimana. Il viaggio che il dott. Sisto Verzuoli sta per affrontare come appendice al lavoro della giornata è motivo di ulteriore soddisfazione perché lo porterà sulla spiaggia della Versilia dove sono in vacanza sua moglie e i due bambini. Godrà di due giorni di intensa, lieta partecipazione alla vita familiare, per poi riprendere servizio in attesa delle ferie che gli toccheranno in settembre. Il percorso che sta affrontando è per lui di particolare interesse. Sul primo tratto appenninico, da Maranello all'Abetone, lo aveva portato in gita molti anni fa, quando era ancora ragazzo, suo padre, desideroso di rivedere i luoghi dove aveva combattuto la guerra partigiana. Con l'inoltrarsi della sera il buio non gli consentirà di ammirare il paesaggio, ma gli fa piacere ugualmente sapere che su questo territorio il suo caro papà - che purtroppo non c'è più, morto da un anno - aveva vissuto un periodo tra i più incisivi della sua vita, per i pericoli, le paure e le speranze.
Ora, con la pianura ormai alle spalle, la strada incomincia a salire e la collina presenta le sue quinte successive che sfumano nella bruma. Qua e là si vedono le chiazze bianche dei calanchi, avvallamenti classici di questa zona di terra argillosa che, corrosa dalla pioggia e dal vento, si denuda di ogni vegetazione offrendo alla vista dirupi scoscesi e rugosi. Verzuoli è attento alla strada ma riesce anche a dare rapide occhiate al paesaggio; può rallegrarsi constatando che il buio della notte non avanza, contrastato dalla luminosità della luna che è alta e piena. Benissimo: proprio un viaggio di grande piacevolezza. Tra l'altro c'è un traffico scarso, lui può ammirare la suggestiva scenografia che lo circonda e anche ripensare ai racconti che gli aveva fatto suo padre durante quella lontana gita. Una notte, mentre in pattuglia attraversavano la statale per passare da una vallata a un'altra, erano stati sorpresi dai fari di un camion sbucato da una curva. Era carico di soldati tedeschi, che avevano incominciato a sparare prima ancora che l'automezzo si arrestasse. I partigiani si erano sparsi alla ricerca di ripari da dove avevano risposto al fuoco; lo scontro era durato una ventina di minuti, poi i tedeschi erano ripartiti e da entrambe le parti non c'erano state perdite.
L'auto fila via liscia, silenziosa, il motore è dolce, sensibilissimo al lieve tocco sull'acceleratore. Ma poi, d'improvviso, che cosa succede? Un colpo secco, sotto il cofano, qualche secondo di sferragliamento e infine più nulla. Il motore s'è arrestato e anche la vettura, per la salita, si ferma in fretta. Accidenti, dice fra sé, esterrefatto, Verzuoli. Ripensa ai rumori uditi e gli sovviene che possa essersi rotta una catena. La catena della distribuzione? Se esiste: non lo sa, non se ne intende. Quello che sa è che è rimasto in panne. Infatti prova un po’ di volte a far girare il motorino d'avviamento ma il motore si rifiuta di ripartire. La tanto decantata vettura, eccezionale per la marca e la nazionalità, capace dei trecentomila chilometri, l'ha piantato in mezzo alla montagna, una terra che fino a qualche minuto fa gli era simpatica e cara e che adesso già vede come un odioso luogo di angustie. Che fare? Intanto bisogna sfruttare la strada in pendenza e lasciare andare un po' indietro l'auto per metterla al sicuro sullo spiazzo che poco prima aveva notato a lato della strada. Poi dovrà telefonare all'ACI, sempre che l'ACI a quest'ora faccia servizio, per chiedere l'intervento di un carro attrezzi. Ma dove trovare un telefono? Perché è senza cellulare: ha una carta ricaricabile, proprio oggi ha scoperto che malauguratamente gli è finito il credito e non ha avuto il tempo per provvedere.
Dunque, eccolo qui Sisto Verzuoli, all'inizio della notte, su una strada dell’Appennino, praticamente come nel deserto, di fianco a un'auto che non va più e con tanti chilometri ancora da fare. E il brutto è che non passa quasi nessuno; sembra impossibile, d'agosto, in epoca di vacanze. Arriva un motociclista, inutile fargli cenno; poi un'auto che lo illumina e lui alza una mano con gesto timido, con risultato nullo. In dieci minuti transitano sei vetture e un camion, tre in salita e quattro in discesa, ma dei conducenti non uno che risponda alla sua richiesta. È preoccupato. Bisogna decidersi: farà altri tentativi per cinque minuti, poi s'incamminerà in discesa per arrivare fino a Maranello che dista, forse, sei o sette chilometri.
E così, dopo altre vane richieste ad automobilisti frettolosi e insensibili, chiude l'auto e incomincia a scendere. Dopo pochi passi sente le prime gocce. Un lampo, poi il tuono. C’è la luna, bella, limpida, ma in giro si vedono anche nuvole nere, certamente è in arrivo un temporale, così dovrà anche bagnarsi: una sera proprio scalognata. Due minuti e poi vede arrivare un camioncino carico di rottami di ferro; si volta e prontamente alza il braccio, l’automezzo si ferma.
«Per favore» dice Verzuoli rivolgendosi al conducente, «potrebbe aiutarmi? Il mio cellulare non funziona e devo chiedere l'intervento di un carro attrezzi». Alla guida c'è un uomo magro, dalla faccia scavata, i capelli bianchi, ma forse ancora abbastanza giovane. Ascolta e tace, è come soprappensiero. Infine risponde: «Io non ho un cellulare. Stavo scendendo ma, visto che si sta mettendo a piovere, tutto sommato è meglio se cambio programma: torno a casa, e lei telefona dal mio fisso». Gli apre lo sportello di destra e lo fa salire. «Stavo andando a Maranello, nel giardino di un mio amico, un calzolaio, per mangiare con lui l’anguria che è lì tra i suoi piedi; invece la mangerò con mia moglie mentre lei telefona».
«È molto gentile, mi scuso per il disturbo».
«No, va bene così, non si preoccupi» dice l'uomo. E aggiunge: «Questo camioncino ha più anni lui dei rottami caricati nel cassone». Verzuoli cerca di sistemarsi sul sedile ma ha difficoltà a trovare il posto per i piedi. «Adesso giriamo e attacchiamo con calma la salita. Lei si metta l’anguria tra le gambe così la tiene ferma. Attento che c’è anche il coltello. Ah, si è già sistemato? Bene, allora andiamo».
Avvia il motore, partono in salita. Dice il ferravecchi: «È brutto rimanere a piedi in mezzo a una strada, lo so bene: questo mio vecchio trabiccolo mi ci ha lasciato più di una volta». Verzuoli ringrazia ancora, poi aggiunge: «Non è serata buona neanche per lei; sarebbe stato piacevole mangiare l'anguria nel fresco della sera con un amico».
La strada continua a salire, poi c'è un bel tratto pianeggiante e il motore dimostra di rallegrarsene schiarendo un po' il suo rombo roco. Ai lati della statale ogni tanto si incontra un gruppetto di case o una villa isolata.
«Tra poco arriviamo. Vede sulla destra quella chiazza chiara del calanco? La mia casa è là sotto. C'è una valletta con un bello spiazzo che io ho occupato con il deposito dei rottami di ferro. Una volta al mese viene un camion con la gru e il camionista si fa il carico da solo. L'unico problema è che la stradina è stretta. Per il resto va tutto bene: bisogna accontentarsi, anche tenendo conto che la casa è abusiva. Se l'era fatta un muratore, anni fa, lavorando il sabato e la domenica; alla fine ha cambiato idea e me l'ha ceduta per poco. Ho avuto un po' di grane, il tetto è basso e manca la grondaia; però è sicura perché le finestre sono protette da inferriate».
Sono arrivati. ll ferravecchi scende e va, nel pieno della luce dei fanali, ad aprire la porta. Verzuoli lo guarda: è allampanato, indossa jeans sporchi e stracciati e una canottiera gialla, pure vistosamente macchiata. Mentre spinge l'uscio si volta verso il camioncino e dice qualcosa a proposito dell'anguria, che è da portar dentro, e altre parole che Verzuoli non capisce perché è distratto e impressionato dalla vista del suo sguardo alla luce dei fari: gli occhi sono neri, penetranti e duri, con un'espressione assolutamente incongruente con il carattere che egli si era figurato ascoltando i bonari accenni all'anguria e all'amicizia con il calzolaio. Una spiacevole sorpresa per Verzuoli che istintivamente si guarda intorno come se cercasse un conforto, ma dalla vista di quel paesaggio brullo, spettrale sotto il poco di luce lunare che è rimasta, ottiene solo un ulteriore senso di disagio.
L'uomo si avvicina a Verzuoli che è sceso e sta di fianco allo sportello ancora aperto. Si china all'interno della cabina e si risolleva tenendo fra gli avambracci la grossa anguria. Dice: «Per favore, lei prenda il coltello. Attento però, lo afferri per il manico perché la lama è tagliente. Poi entriamo».
E così fa Verzuoli. Si raddrizza con il coltello in mano e si gira per seguire l'uomo che sta entrando. Il contatto con l'oggetto gli dà una sensazione spiacevole perché sente il manico umido, appiccicaticcio. Entrano. È una cucina con al centro il tavolo, sulla destra una credenza, sulla sinistra i fornelli con la bombola, l'acquaio senza rubinetto con un secchio appeso a un gancio. Di fronte alla porta di ingresso c'è un altro uscio.
«Posi il coltello sulla tavola» dice il ferravecchi mentre depone l'anguria nel lavello. «Il telefono è nella camera sul comodino; c'è anche la guida. Prego, s'accomodi» e gli fa cenno di avviarsi mentre lui apre la credenza per tirar fuori i piatti. Verzuoli esita, l'occhio gli è caduto sulla lama del coltello che è stretta e lunga e sembra macchiata, come se l'anguria fosse già stata tagliata; poi apre l’uscio della camera, è illuminata con la fioca luce di una lampadina che penzola al centro del soffitto: si vede, di fronte alla porta, una parte del letto.
«Prego, prego» insiste l'uomo, e allunga il braccio nella direzione della stanza per far entrare l'ospite; poi improvvisamente retrocede d'un passo e chiude la porta. Verzuoli non se ne accorge perché sta cercando con uno sguardo panoramico il comodino. Non lo vede e intanto sente alle sue spalle scattare una serratura. Si gira allarmato e afferra la maniglia deciso ad uscire perché di quella casa e di quell'uomo ne ha abbastanza. Ma la porta è bloccata.
«Apra, apra» grida. «Che cosa fa, è impazzito?» Batte i pugni sull'uscio, ma l'uomo non risponde. Verzuoli si porta le mani al capo. C'è la finestra, aperta sulla notte, ma con l'inferriata. E il telefono, c'è o non c'è? Non si vede. Va verso l'altro lato del letto per cercare meglio ma, come arriva al fondo, una visione lo blocca: vede spuntare, distesi sul pavimento, due piedi scalzi. Si lascia sfuggire «Dio, Dio!» Esita un momento ma poi si fa coraggio, perché vuole sapere fino a che punto è orribile questa verità nella quale è precipitato. I piedi sono di una donna, evidentemente la moglie del ferravecchi, con la gola squarciata; una pozza di sangue si è allargata sulle mattonelle. Grida «Apri, apri, vigliacco, assassino, apri, apri!» Si avventa contro la porta, la percuote con pugni e calci. Va alla finestra, urla, impreca. Ma fuori c'è solo silenzio. E là di fronte una parete di montagna che gli pare mostruosa.

Il ferravecchi è dentro al camioncino col cellulare in mano. Dice concitatamente: «Maresciallo, che tragedia, me l'hanno ammazzata, la mia povera moglie, me l'hanno sgozzata. Quando sono arrivato l'assassino aveva ancora il coltello in mano e sono riuscito a disarmarlo e a chiuderlo nella camera. È là che grida, corra subito a prenderlo, prima che abbatta la porta e scappi. Che tragedia, maresciallo. Corra, corra».