domenica 29 novembre 2015

Paura

Si levò il vento. Folate correvano per i corridoi, sopra di me, percuotevano porte e imposte, popolavano di fantasmi tutta la casa. Tra una folata e l'altra c'era il battito della pioggia, fitta, continua e, sull'aia, un grondare fragoroso. Fuori c'era la notte, buia, distesa sui campi e sui boschi deserti, senza uomini e senza case.
Ero solo. Stavo seduto su una sedia, contro una parete dell'ingresso che era uno stanzone vasto, ingombro di tante cose sulle quali pioveva la luce fioca e rossastra di una lampadina attaccata al soffitto: una cassapanca, una distesa di patate e di mele, un barroccino con le stanghe a terra, tre sacchi allineati lungo il muro che avevo di fronte e, dalla mia parte, appesi a chiodi, dei finimenti da cavallo. In fondo c'era la scala, a sinistra c'era la porta della cucina, a destra quella della cantina. Ascoltavo il vento e la pioggia, i cigolii delle imposte e fissavo la porta della cantina, non sapevo staccare gli occhi da quella parte.
In cantina c'era il morto: stava appeso a una corda che scendeva dal trave centrale, di fianco al filo della lampadina, impiccato. La luce gli batteva proprio sulla testa, faceva una grande ombra circolare sul pavimento. Nel pomeriggio non avrei mai immaginato di trascorrere una notte simile. Eravamo partiti dalla caserma, il maresciallo e io, con la camionetta per andare a una casa che era al confine del comune, quasi alla sommità del monte. Dovevamo portare, a una delle famiglie che vi risiedevano, una citazione del tribunale. Lasciata la camionetta nella cascina Marcantoni, avremmo proseguito a piedi per la mulattiera.
Era appunto la cascina Marcantoni quella nella quale mi trovavo. Al nostro arrivo avevamo cercato il padrone, volevamo soltanto dirgli che lasciavamo l'automezzo davanti a casa sua perché proseguivamo a piedi. Lo avevamo chiamato a gran voce, inutilmente. La porta era aperta e il maresciallo era entrato spingendosi fino in cantina. Ma come aveva messo dentro la testa era rimasto allibito: Michele Marcantoni si era impiccato. Doveva essere successo pochi minuti prima perché il corpo dondolava ancora leggermente ed era caldo. Ma era morto, senza alcun dubbio: la lingua penzoloni fuori dalla bocca, gli occhi aperti, sbarrati. Un'immagine terribile. Non c'era però da meravigliarsi di quel fatto: Marcantoni era sempre stato un po' matto, quelle rare volte che scendeva in paese dava fastidio a qualcuno con le sue pretese assurde e i suoi discorsi stravaganti.
Nella cascina eravamo rimasti incerti, il maresciallo e io, sul da farsi. se staccare il corpo dalla corda o aspettare che lo vedesse il pretore. Una cosa era certa, bisognava andare a chiamare il pretore, il quale però sarebbe venuto su l'indomani mattina perché ormai il pomeriggio era avanzato e non c'era più tempo per un sopralluogo del genere. La decisione era stata quella che temevo. «Appuntato» mi aveva detto il maresciallo con aria dispiaciuta, «c'è poco fare: io devo tornare indietro e tu devi rimanere qui. La casa è aperta, non possiamo lasciarla incustodita con un suicida dentro. Mi spiace, ma dovrai passarci la notte».
Era venuta la sera, io avevo acceso le luci nell'ingresso e nella cantina, avevo chiuso le porte, mi ero seduto su una sedia. Sul tardi si era messo a piovere: il grondare dell'acqua nell'aia era la cosa più viva in quella solitudine. Ma poi s'era levato il vento e tutte le cose parevano essersi animate. Io stavo sempre più fermo sulla mia sedia, con le orecchie tese a tutti i rumori e ad ognuno di essi la mia fantasia dava un'immagine: un'imposta che sbatteva, una pianta che si curvava, un bastone che rotolava. E gli occhi, anche se fissavano le mele stese sul pavimento a fianco della scala che saliva al piano di sopra o i sacchi appoggiati alla parete, vedevano l'uomo impiccato con il suo sguardo sbarrato, la lingua pendente, l'ombra nera sul pavimento.
Pensavo che avrei fatto bene a andare al piano di sopra a fermare le imposte, almeno avrei eliminato quegli sbattimenti secchi che ogni volta mi si ripercuotevano dentro, ma non mi decidevo a muovermi. Nel pomeriggio, dopo che avevamo scoperto il cadavere, il maresciallo aveva perlustrato la casa, era andato anche su, io no. Non sapevo quindi come erano disposte le stanze, dove erano gli interruttori della luce. Non mi decidevo a staccarmi dalla sedia.
All'improvviso venne a mancare la corrente. Il mio cuore accelerò il battito, leggermente, per una istintiva reazione a quel fatto nuovo. Ma mi rendevo conto della normalità di quell'interruzione: il vento da qualche parte doveva aver fatto precipitare una linea elettrica. Capitava spesso, durante i temporali: la luce mancava, a volte per molte ore; altre volte, se il guasto dipendeva dalla centrale, tornava dopo pochi minuti.
Restavo immobile sulla sedia, le mani aperte sulle ginocchia. Ora, con il buio, i rumori mi parevano più intensi, più nitidi; era come se non vi fossero più porte né muri, come se l'acqua cadesse dalla grondaia al mio fianco, la pioggia battesse intorno a me, le imposte sbattessero sopra la mia testa, sospese nel vuoto. Pensai di accendere un fiammifero, ma immaginai le cose che mi stavano davanti alla pallida, tremolante fiammella, con ombre lunghe e nere, e non mossi le mani. Del resto il fiammifero si sarebbe spento dopo pochi attimi, non avrei fatto in tempo a trovare una candela; chissà dov'era una candela in quella casa, forse nelle stanze, di sopra, dove il vento correva per i corridoi.
D'un tratto udii un tonfo nella cantina. Dalla testa mi partì un'ondata di gelo che mi pervase tutto. Rimasi immobile, trattenendo a lungo il respiro. Non v'erano dubbi su quello che poteva essere successo: la corda s'era spezzata e il corpo era precipitato a terra. Mi sarei dovuto alzare, avrei dovuto accendere un fiammifero, aprire la porta, andare a vedere; ma non mi decidevo a farlo. L'ondata di gelo attraversandomi il corpo mi aveva lasciato un leggero tremito. «Avanti» dicevo a me stesso, «àlzati, sei un carabiniere, sei un appuntato». Ma continuavo a stare seduto. Pensavo che non c'era fretta, sarei potuto andare di là quando fosse tornata la luce o addirittura all'alba.
Nel mezzo di un sibilo del vento mi parve di udire, proveniente sempre dalla cantina, una voce, come un lamento. Mi sentii di nuovo e bruscamente pervadere dal ghiaccio. Il vento tacque e io distintamente udii venire dalla cantina una parola di invocazione: «pietà». Mi sentii scuotere dal tremito. Chiusi gli occhi, in abbandono, cercavo di dirmi che dovevo aver capito male, che non poteva essere stata una voce, ma nello stesso tempo avevo la certezza di non essermi sbagliato. Le forze mi lasciavano, ero soltanto in preda al tremito.
«Pietà» tornò a dire la voce di là dalla porta, «pietà, appuntato». Le mani mi stringevano le ginocchia come fossero una morsa, non riuscivo a controllare quella mia forza insensata. Cosa stava dunque accadendo nella cantina? Il contadino era caduto a terra e adesso implorava aiuto, rivolgendosi direttamente a me, sapeva anche che c'ero io nell'ingresso. Eppure lui era morto, non c'era nessun dubbio che fosse morto, il maresciallo ne era certo, tanto che non aveva esitato a lasciarlo impiccato com'era, in attesa del sopralluogo del pretore.
«Appuntato» tornò a dire la voce. Io scattai in piedi trovando la forza della disperazione, cercai di dire una parola, non so quale, ma le mie labbra non seppero emettere altro che un gemito. Frugai in un taschino, ne tolsi la scatola dei fiammiferi, ne accesi uno, ma la capocchia schizzò via; ne accesi un altro.
«Oh, Dio» sentii gemere dall'altra parte. Spalancai la porta con gesto risoluto, non sapevo immaginare che cosa avrei trovato; forse senza rendermene conto pensavo di trovare il contadino a terra, ancora in vita, gemente.
Come la porta si aprì mi apparve davanti per un attimo, nella luce del fiammifero che subito si spense, un uomo alto e magro, con occhi sbarrati, la bocca semiaperta. Lanciai un grido, indietreggiai, mi girai. Ora non mi controllavo più. Al buio mi precipitai verso la porta che dava all'esterno, ne cercai affannosamente il catenaccio, lo tirai, aprii, balzai fuori, mi misi a correre. Correvo per il viottolo che andava alla strada. Sentivo dietro di me l'uomo gridare. A un tratto intesi che diceva:
«Appuntato, sono Gelsomino». Riuscii a dominarmi, rallentai. Gelsomino era uno del paese, un ladro, lo conoscevo bene. Ripensai alla sua faccia illuminata dalla luce del fiammifero: poteva essere davvero quella di Gelsomino. Mi fermai, mi appoggiai a un castagno.
L'uomo mi fu subito vicino, si aggrappò a un mio braccio. Era proprio Gelsomino. Piangeva e tremava.
«Appuntato» disse, «credevo di morire dallo spavento. Una cosa così non mi era mai capitata». Fece una pausa per prendere fiato, poi continuò: «Sono andato in casa di Michele per rubare, ma poi lui è rientrato dai campi e io mi son dovuto rifugiare in cantina, dietro una botte. E proprio in cantina è venuto a impiccarsi: sentivo il suo tramestìo, credevo che lavorasse, poi non ho più udito niente, ho tirato fuori la testa e l'ho visto appeso, morto. Mentre stavo per fuggire ho sentito arrivare la camionetta e poi voi entrare, allora sono tornato a nascondermi dietro la botte. Sapendo che lei era lì nella loggia dell'ingresso mi ero rassegnato a passare la notte così, con la speranza di riuscire a scappare domattina. Poi, quando la corda s'è rotta e il morto è caduto, non sono più stato capace di resistere, Dio che spavento!»
Gelsomino continuava a tenermi stretto il braccio sinistro. Io stavo appoggiato all'albero con gli occhi fissi verso la casa che non si vedeva. C'era solo un gran buio intorno a noi. Sopra le nostre teste il vento frugava fra i ricci del castagno, la pioggia ci sferzava il viso. Com'era ancora lontana l'alba!




lunedì 23 novembre 2015

Mendicanti


A volte
quando fa freddo e viene la notte
mi sento mendicante.
E allora col pensiero
vado per le vie deserte
cercando un cane per compagno
e un uomo
per chiedergli la strada del ricovero.

Mi piace pensare
di non trovare nessuno
e di camminare
sui marciapiedi vuoti
per ore e ore
battendo i denti
e sognando un cibo
che non sia un avanzo.

Anche se sono
nel caldo del letto
continuo a vagare
per la città desolata
e sento il freddo
e la fame e il sonno.

Soffro
per i fratelli mendicanti
un poco delle loro pene
perché l’alba

non tardi a venire.

(1945)

lunedì 16 novembre 2015

Due sessualità


    Nella mia lontana prima giovinezza, a undici o dodici anni. Ero in treno con due cugine, loro già adulte. Un viaggio breve, tra due stazioni, ma scomodo. Stavamo in piedi sulla piattaforma davanti alla porta, stretti stretti; se fosse stato necessario soffiarsi il naso sarebbe stato un problema far risalire una mano. Dalle cugine ero staccato di alcuni metri, cioè tante persone. Con la schiena appoggiata alla parete, in certi scossoni il mio naso andava a strusciare contro la catena dell’orologio da taschino dell’uomo che mi stava davanti. A un tratto mi sono sentito frugare come mi volessero derubare.
    Non le vedevo ma erano sicuramente le mani del possessore della catena. Ho detto, con il viso rivolto in alto: «Qui ci sono io». Qualche minuto dopo il fatto si è ripetuto. Sono riuscito ad afferrare la mano che armeggiava, ma non a trattenerla. Ero in preda a rabbia e paura al tempo stesso ma per fortuna si incominciò a sentire lo stridore dei freni, il treno stava fermandosi. Scendemmo.
    Raccontai subito alle cugine la cosa, per me inspiegabile, che mi era successa. «Proprio non lo sai?» No, non lo sapevo; fu in quella occasione che imparai l'esistenza di uomini che provano attrazione verso persone dello stesso sesso.

domenica 8 novembre 2015

Barbagia

1972. Era un tempo di continui sequestri di persona a scopo di estorsione e di sanguinose faide tra famiglie. Le carceri della Sardegna non erano mai state così affollate e le campagne mai così frequentate da tanti latitanti, anche ergastolani. In un paese, negli ultimi venti anni erano state uccise trenta persone. Ci sono cimiteri nei quali la frase “tragica morte” si legge sul novanta per cento delle lapidi; c’è chi è stato ucciso dopo venti anni dal dissidio, quando ormai non si aspettava più la vendetta. Inoltre capita che la vendetta possa abbattersi non su chi è stato la causa dell’odio ma su altre persone del clan, familiari, cognati, cugini.
Nell’ultimo scorcio dell’anno avevo dedicato una serie di articoli alle donne dei banditi. Mi sovviene di Gabriela che aspetta il fidanzato condannato a vent’anni di reclusione. Si erano fidanzati nel ’63, lei a vent’anni, lui a 24. Poco dopo l’avevano cercato per una rapina e lui si era dato alla latitanza. Quello l’inizio dei guai. Dentro 29 mesi senza processo; poi libero, ma quando stanno per preparare le nozze, nell’aprile ’67, va di nuovo in carcere, accusato di un sequestro di persona. Da allora non è più uscito.
Chiedo a Gabriela se il fidanzato ha fratelli. «Sì, tre». Chiedo se vanno a trovarlo. «Ma due sono dentro, condannati a trent’anni per sequestro di persona». Parlando ancora scopro che anche il terzo fratello, il più giovane, è da poco incarcerato, anche lui per sequestro di persona. «Ma è innocente, come gli altri» dice la ragazza». Di tutti abbiamo le prove dell’innocenza, ma non ci credono perché siamo parenti».

domenica 1 novembre 2015

Le certezze del domani

Giravo per la Riviera in cerca di appartamenti e ville in vendita. Lavoravo per conto di una società che acquistava immobili nelle località turistiche per rivenderli poi ai ricchi stanchi di far quattrini in città o tormentati dai reumatismi, che andavano cercando la primavera anche d'inverno. Il mio compito era quello di segnalare alla società non solo gli stabili che venivano spontaneamente offerti sul mercato, ma anche – anzi, specialmente – quelli per i quali v'erano nascoste prospettive di vendita. L'esperienza dimostrava che, proprio quando i proprietari erano ancor lontani dalla decisione di alienare i loro beni, c'erano maggiori probabilità di successo e di guadagno. Io scrivevo o telefonavo in sede i risultati delle mie indagini e subito entravano in azione altri funzionari che incominciavano i sondaggi e gli approcci per le prime offerte.
A L., il proprietario del bar dove mi ero fermato e, senza fretta, avevo attaccato discorso, mi indicò una villetta in una piccola insenatura, tra la strada e il mare. Il terreno digradava dolcemente verso gli scogli; rispetto ai pendii aspri e ripidi che erano a monte della litoranea, quell'area, verde di olivi, di timi e di lauri, sembrava godere di un premio. Era mollemente distesa nel caldo sole di marzo e su di essa il profumo degli arbusti aleggiava, si alternava al pizzico salmastro portato dall'aria assieme al ritmico battito dell'onda contro gli scogli vicini, ma pure invisibili oltre le macchie della vegetazione. Una strada bianca di polvere, delimitata col pastello verde cupo di due siepi di bosso, ornava con le sue volute quel pezzetto di terra.
La villa era rosa, d'un rosa pallido e tenero come era pallido e tenero il verde degli ulivi. Aveva un balcone d'angolo con il parapetto guarnito di fiori. A mano a mano che scendevo con l'automobile per la stradetta bianca la villa mi precisava i suoi contorni, le sue proporzioni, il colore dei suoi fiori. Non sarebbe stato certo difficile venderla, così quieta com'era, assisa davanti al mare. Ma prima doveva essere comperata.
Quando fui quasi di fronte alla costruzione vidi una donna uscire dal cancelletto ed avviarsi nella direzione opposta alla mia. Rallentai, fermai la macchina al suo fianco, salutai con la mano fuori dal finestrino. «Scusi, signora» chiesi, «mi sa dire chi abita qui?» La donna aveva una cinquantina d'anni, era magra, priva di due denti incisivi, con i capelli grigi, un vestitino nero a bolli bianchi che poteva anche essere un grembiule da lavoro. Si chinò per abbassare la testa all'altezza del finestrino, posò una mano sul bordo del vetro. «Il cavalier Timoteo Rebecchi» rispose e, dopo un attimo di sospensione, chiese: «Cosa vuole da lui?» Dissi che mi interessava sapere se la villa era in vendita. «Non adesso» s'affrettò a dire la donna. Lo disse con voce sommessa, come se avesse paura d'essere sentita. «Quando?» chiesi io. La donna sollevò la mano dal vetro, la tenne a mezz'aria in un atteggiamento interrogativo. «Non so» disse; poi: «forse fra due mesi, un mese».
Non capivo. Soprattutto non capivo quell'aria di mistero che era più nella sua voce che nelle sue parole. «E perché non adesso?» domandai. «Perché lui è malato, è molto malato. Io lo so. Sono al suo servizio da quando avevo dieci anni: lo so che non c'è più speranza». «Posso chiedergli se vende?» domandai. «No, no, non è possibile. Se andassi al suo capezzale per dirgli che c'è gente che vuole comperare la villa, immaginerebbe la gravità della situazione, intuirebbe d'essere vicino alla fine».
«Allora» dissi, «come devo fare per sapere se la villa si può comperare?» La donna distese l'avambraccio sul bordo del finestrino, si curvò maggiormente, venne con il suo viso a un palmo dal mio, tacque un momento poi parlò ancora sommessamente: «Ritorni tra due mesi». Rimasi in silenzio. Mi aveva colpito la sicurezza con la quale la donna aveva fissato quel termine. «Che cosa ha» chiesi, «male di cuore?» La donna si sollevò per fare un gesto con il braccio: «Magari fosse male di cuore! È un brutto male, un brutto male» ripeté con la desolazione che si prova davanti a una condanna inappellabile.
Nel riquadro del finestrino vedevo la donna e a fianco di lei vedevo parte della villa, con le imposte socchiuse, i fiori vivaci sul balconcino, e dietro la chiazza rosa della villa il nero della montagna che s'alzava al di là della strada litoranea e l'azzurro del cielo. Il padrone era grave, stava per morire, secondo quanto affermava la donna, ma io in quel momento non pensavo tanto a lui quanto alla villa, all'affare che la villa rappresentava, alle parole che avrei adoperato per annunciare al mio direttore il possibile acquisto.
«Tra due mesi» dissi alla donna seguendo un subitaneo pensiero «chissà chi trovo qui dentro». Lei atteggiò il viso a un misurato sorriso o a una espressione composta di tranquillità e di soddisfazione insieme. Disse: «Non si preoccupi: ci sarò io, qui. Il cavaliere non ha altri all'infuori di me, io gli ho dedicato tutta la vita e lui ha lasciato una carta a mio favore. Ci sarò io». Non mi decidevo a ripartire. Continuavo a guardare oltre le spalle della donna la macchia rosa della casa e l'azzurro del cielo, poi guardavo gli occhi di lei. «Non abbia paura» disse ancora la donna. «Vada tranquillo, non sarà venduta prima. Ripassi fra un paio di mesi, magari fra un mese e mezzo». Avviai il motore e lei mi sorrise, mi salutò con un cenno della mano che pareva quasi un'intesa.
Continuai a girare nella zona per qualche giorno, poi cambiai località, mi spinsi più a ponente, vicino alla frontiera. Ma per poco tempo, perché una sera rientrai in albergo con la febbre alta. Era un attacco di orticaria e si protrasse per una settimana. Alla fine, quando credevo di poter riprendere il lavoro, fui colpito da una colica renale che mi sfibrò. Avevo bisogno di riposo e lo dissi per telefono al mio direttore. Lui mi invitò ad andarmene a casa e a rimanerci tranquillo per una quindicina di giorni. Quando mi ripresentai in ufficio trovai una novità: ero destinato in montagna, sulle Alpi trentine.
Ripresi là il mio lavoro. A volte facevo lunghe camminate per raggiungere case o ville isolate: l'aria e il moto mi ritempravano la salute. Finivo di visitare una borgata, mi spostavo di qualche centinaio di metri e dietro una curva della strada spuntava un altro paese. Ricominciavo da capo. Così i giorni passavano e l'estate avanzava. Una sera, mentre cercavo sonno, mi sovvenne della villetta rosa in riva al mare. Ebbi la sensazione di essermi lasciata sfuggire un'occasione e mi chiesi come mai non mi ero ricordato prima di quell'affare.
Con il pensiero riandai a quella vista, cercai di localizzarla nel tempo e vi riuscii facendo riferimento al periodo in cui ero stato ammalato: erano passati due mesi e mezzo. Certo il cavalier Timoteo Rebecchi aveva finito di soffrire. Ricordavo la domestica mentre diceva: «È un brutto male, è un brutto male»; si capiva da quelle parole che la fine sarebbe stata imminente. Avrei voluto essere con un balzo in Riviera, scendere la stradetta bianca fra le siepi di bosso.
Impensatamente, dieci giorni dopo mi fecero rientrare in sede. Ne approfittai per parlare della villetta rosa al direttore. Ottenni l’incarico di partire per L. L'indomani mattina, verso mezzogiorno, ero in vista della insenatura davanti alla quale si stendeva il terreno verde di ulivi, di timi e di lauri. Imboccavo la strada bianca, scendevo verso il mare, vedevo la villa stagliata sotto il sole. Fermai la macchina, scesi, passai il cancelletto, che era aperto; suonai alla porta. Trascorse un minuto, che fu lungo; pensavo già che non ci fosse nessuno: morto il padrone, allontanata la domestica.
Improvvisamente e in silenzio la porta si aprì: mi comparve davanti un vecchio piccolo, con il pizzo bianco, la zazzera sul colletto della giacca da camera. Gli diedi il buongiorno poi rimasi impacciato. Finalmente chiesi del cavalier Timoteo Rebecchi. «Sono io» disse il vecchio e mi fece entrare. Io deglutii, lo ringraziai. Ci sedemmo in un salotto in penombra. «Sono venuto» dissi, cercando di parlare con calma e chiarezza, «a vedere se lei è disposto a vendere la sua villa». Il vecchio mi lasciò spiegare chi ero e per conto di quale società parlavo.
«Lei è venuto in un momento propizio» disse poi. «Proprio in questi giorni stavo pensando all'opportunità di trasferirmi in albergo. Io sono solo, esco adesso da una lunga malattia e per giunta sono rimasto anche senza domestica». «Come mai?» chiesi io, senza avvedermi di interromperlo. «Poveretta» disse il vecchio, «se n'è andata improvvisamente due mesi fa, una sera, mentre era seduta a fianco del mio letto a tenermi compagnia. Ha fatto una smorfia e si è accasciata in avanti: il cuore... Adesso, così solo, in questa casa troppo grande per me, non mi ci trovo più. Ho pensato di andare in albergo dove ci sia personale di servizio e movimento, gente con cui stare in compagnia. Posso prendere in esame la sua proposta».