Si levò il vento. Folate
correvano per i corridoi, sopra di me, percuotevano porte e imposte,
popolavano di fantasmi tutta la casa. Tra una folata e l'altra c'era
il battito della pioggia, fitta, continua e, sull'aia, un grondare
fragoroso. Fuori c'era la notte, buia, distesa sui campi e sui boschi
deserti, senza uomini e senza case.
Ero solo. Stavo seduto su
una sedia, contro una parete dell'ingresso che era uno stanzone
vasto, ingombro di tante cose sulle quali pioveva la luce fioca e
rossastra di una lampadina attaccata al soffitto: una cassapanca, una
distesa di patate e di mele, un barroccino con le stanghe a terra,
tre sacchi allineati lungo il muro che avevo di fronte e, dalla mia
parte, appesi a chiodi, dei finimenti da cavallo. In fondo c'era la
scala, a sinistra c'era la porta della cucina, a destra quella della
cantina. Ascoltavo il vento e la pioggia, i cigolii delle imposte e
fissavo la porta della cantina, non sapevo staccare gli occhi da
quella parte.
In cantina c'era il
morto: stava appeso a una corda che scendeva dal trave centrale, di
fianco al filo della lampadina, impiccato. La luce gli batteva
proprio sulla testa, faceva una grande ombra circolare sul pavimento.
Nel pomeriggio non avrei mai immaginato di trascorrere una notte
simile. Eravamo partiti dalla caserma, il maresciallo e io, con la
camionetta per andare a una casa che era al confine del comune, quasi
alla sommità del monte. Dovevamo portare, a una delle famiglie che
vi risiedevano, una citazione del tribunale. Lasciata la camionetta
nella cascina Marcantoni, avremmo proseguito a piedi per la
mulattiera.
Era appunto la cascina
Marcantoni quella nella quale mi trovavo. Al nostro arrivo avevamo
cercato il padrone, volevamo soltanto dirgli che lasciavamo
l'automezzo davanti a casa sua perché proseguivamo a piedi. Lo
avevamo chiamato a gran voce, inutilmente. La porta era aperta e il
maresciallo era entrato spingendosi fino in cantina. Ma come aveva
messo dentro la testa era rimasto allibito: Michele Marcantoni si era
impiccato. Doveva essere successo pochi minuti prima perché il corpo
dondolava ancora leggermente ed era caldo. Ma era morto, senza alcun
dubbio: la lingua penzoloni fuori dalla bocca, gli occhi aperti,
sbarrati. Un'immagine terribile. Non c'era però da meravigliarsi di
quel fatto: Marcantoni era sempre stato un po' matto, quelle rare
volte che scendeva in paese dava fastidio a qualcuno con le sue
pretese assurde e i suoi discorsi stravaganti.
Nella cascina eravamo
rimasti incerti, il maresciallo e io, sul da farsi. se staccare il
corpo dalla corda o aspettare che lo vedesse il pretore. Una cosa era
certa, bisognava andare a chiamare il pretore, il quale però sarebbe
venuto su l'indomani mattina perché ormai il pomeriggio era avanzato
e non c'era più tempo per un sopralluogo del genere. La decisione
era stata quella che temevo. «Appuntato» mi aveva detto il
maresciallo con aria dispiaciuta, «c'è poco fare: io devo tornare
indietro e tu devi rimanere qui. La casa è aperta, non possiamo
lasciarla incustodita con un suicida dentro. Mi spiace, ma dovrai
passarci la notte».
Era venuta la sera, io
avevo acceso le luci nell'ingresso e nella cantina, avevo chiuso le
porte, mi ero seduto su una sedia. Sul tardi si era messo a piovere:
il grondare dell'acqua nell'aia era la cosa più viva in quella
solitudine. Ma poi s'era levato il vento e tutte le cose parevano
essersi animate. Io stavo sempre più fermo sulla mia sedia, con le
orecchie tese a tutti i rumori e ad ognuno di essi la mia fantasia
dava un'immagine: un'imposta che sbatteva, una pianta che si curvava,
un bastone che rotolava. E gli occhi, anche se fissavano le mele
stese sul pavimento a fianco della scala che saliva al piano di sopra
o i sacchi appoggiati alla parete, vedevano l'uomo impiccato con il
suo sguardo sbarrato, la lingua pendente, l'ombra nera sul pavimento.
Pensavo che avrei fatto
bene a andare al piano di sopra a fermare le imposte, almeno avrei
eliminato quegli sbattimenti secchi che ogni volta mi si
ripercuotevano dentro, ma non mi decidevo a muovermi. Nel pomeriggio,
dopo che avevamo scoperto il cadavere, il maresciallo aveva
perlustrato la casa, era andato anche su, io no. Non sapevo quindi
come erano disposte le stanze, dove erano gli interruttori della
luce. Non mi decidevo a staccarmi dalla sedia.
All'improvviso venne a
mancare la corrente. Il mio cuore accelerò il battito, leggermente,
per una istintiva reazione a quel fatto nuovo. Ma mi rendevo conto
della normalità di quell'interruzione: il vento da qualche parte
doveva aver fatto precipitare una linea elettrica. Capitava spesso,
durante i temporali: la luce mancava, a volte per molte ore; altre
volte, se il guasto dipendeva dalla centrale, tornava dopo pochi
minuti.
Restavo immobile sulla
sedia, le mani aperte sulle ginocchia. Ora, con il buio, i rumori mi
parevano più intensi, più nitidi; era come se non vi fossero più
porte né muri, come se l'acqua cadesse dalla grondaia al mio fianco,
la pioggia battesse intorno a me, le imposte sbattessero sopra la mia
testa, sospese nel vuoto. Pensai di accendere un fiammifero, ma
immaginai le cose che mi stavano davanti alla pallida, tremolante
fiammella, con ombre lunghe e nere, e non mossi le mani. Del resto il
fiammifero si sarebbe spento dopo pochi attimi, non avrei fatto in
tempo a trovare una candela; chissà dov'era una candela in quella
casa, forse nelle stanze, di sopra, dove il vento correva per i
corridoi.
D'un tratto udii un tonfo
nella cantina. Dalla testa mi partì un'ondata di gelo che mi pervase
tutto. Rimasi immobile, trattenendo a lungo il respiro. Non v'erano
dubbi su quello che poteva essere successo: la corda s'era spezzata e
il corpo era precipitato a terra. Mi sarei dovuto alzare, avrei
dovuto accendere un fiammifero, aprire la porta, andare a vedere; ma
non mi decidevo a farlo. L'ondata di gelo attraversandomi il corpo mi
aveva lasciato un leggero tremito. «Avanti» dicevo a me stesso,
«àlzati, sei un carabiniere, sei un appuntato». Ma continuavo a
stare seduto. Pensavo che non c'era fretta, sarei potuto andare di là
quando fosse tornata la luce o addirittura all'alba.
Nel mezzo di un sibilo
del vento mi parve di udire, proveniente sempre dalla cantina, una
voce, come un lamento. Mi sentii di nuovo e bruscamente pervadere dal
ghiaccio. Il vento tacque e io distintamente udii venire dalla
cantina una parola di invocazione: «pietà». Mi sentii scuotere dal
tremito. Chiusi gli occhi, in abbandono, cercavo di dirmi che dovevo
aver capito male, che non poteva essere stata una voce, ma nello
stesso tempo avevo la certezza di non essermi sbagliato. Le forze mi
lasciavano, ero soltanto in preda al tremito.
«Pietà» tornò a dire
la voce di là dalla porta, «pietà, appuntato». Le mani mi
stringevano le ginocchia come fossero una morsa, non riuscivo a
controllare quella mia forza insensata. Cosa stava dunque accadendo
nella cantina? Il contadino era caduto a terra e adesso implorava
aiuto, rivolgendosi direttamente a me, sapeva anche che c'ero io
nell'ingresso. Eppure lui era morto, non c'era nessun dubbio che
fosse morto, il maresciallo ne era certo, tanto che non aveva esitato
a lasciarlo impiccato com'era, in attesa del sopralluogo del pretore.
«Appuntato» tornò a
dire la voce. Io scattai in piedi trovando la forza della
disperazione, cercai di dire una parola, non so quale, ma le mie
labbra non seppero emettere altro che un gemito. Frugai in un
taschino, ne tolsi la scatola dei fiammiferi, ne accesi uno, ma la
capocchia schizzò via; ne accesi un altro.
«Oh, Dio» sentii gemere
dall'altra parte. Spalancai la porta con gesto risoluto, non sapevo
immaginare che cosa avrei trovato; forse senza rendermene conto
pensavo di trovare il contadino a terra, ancora in vita, gemente.
Come la porta si aprì mi
apparve davanti per un attimo, nella luce del fiammifero che subito
si spense, un uomo alto e magro, con occhi sbarrati, la bocca
semiaperta. Lanciai un grido, indietreggiai, mi girai. Ora non mi
controllavo più. Al buio mi precipitai verso la porta che dava
all'esterno, ne cercai affannosamente il catenaccio, lo tirai, aprii,
balzai fuori, mi misi a correre. Correvo per il viottolo che andava
alla strada. Sentivo dietro di me l'uomo gridare. A un tratto intesi
che diceva:
«Appuntato, sono
Gelsomino». Riuscii a dominarmi, rallentai. Gelsomino era uno del
paese, un ladro, lo conoscevo bene. Ripensai alla sua faccia
illuminata dalla luce del fiammifero: poteva essere davvero quella di
Gelsomino. Mi fermai, mi appoggiai a un castagno.
L'uomo mi fu subito
vicino, si aggrappò a un mio braccio. Era proprio Gelsomino.
Piangeva e tremava.
«Appuntato» disse,
«credevo di morire dallo spavento. Una cosa così non mi era mai
capitata». Fece una pausa per prendere fiato, poi continuò: «Sono
andato in casa di Michele per rubare, ma poi lui è rientrato dai
campi e io mi son dovuto rifugiare in cantina, dietro una botte. E
proprio in cantina è venuto a impiccarsi: sentivo il suo tramestìo,
credevo che lavorasse, poi non ho più udito niente, ho tirato fuori
la testa e l'ho visto appeso, morto. Mentre stavo per fuggire ho
sentito arrivare la camionetta e poi voi entrare, allora sono
tornato a nascondermi dietro la botte. Sapendo che lei era lì nella
loggia dell'ingresso mi ero rassegnato a passare la notte così, con
la speranza di riuscire a scappare domattina. Poi, quando la corda
s'è rotta e il morto è caduto, non sono più stato capace di
resistere, Dio che spavento!»
Gelsomino continuava a
tenermi stretto il braccio sinistro. Io stavo appoggiato all'albero
con gli occhi fissi verso la casa che non si vedeva. C'era solo un
gran buio intorno a noi. Sopra le nostre teste il vento frugava fra i
ricci del castagno, la pioggia ci sferzava il viso. Com'era ancora
lontana l'alba!