Con i primi caldi, la sera noi
ragazzi ci radunavamo giù nel cortile per continuare i giochi del
pomeriggio. Il cortile era stretto e lungo, su un lato la casa e
sull'altro un muretto oltre il quale s'intravedevano le tettoie di
una fabbrica. Era illuminato debolmente da un'unica lampada appesa a
un cavo teso tra la casa e il muro di fronte.
Quell'anno, la sera, Mimma e
io stavamo quasi sempre seduti sul gradino di un portone che era al
fondo del cortile, in penombra. Gli altri giocavano a rincorrersi o a
nascondersi o a darsi schiaffi alla mano sotto l'ascella e a
indovinare chi era stato. Di tanto in tanto qualcuno veniva a
chiamarci: «E voi, non giocate?» «Ho male a un piede» dicevo io,
come scusa; oppure era lei, Mimma, che diceva di non averne voglia.
Sempre così, tutte le sere.
Era luglio, non avevamo più
la noia della scuola, l'incubo degli esami, faceva caldo e la gente
della casa stava sui ballatoi, le donne discorrevano tra loro, da
piano a piano, gli uomini fumavano, scamiciati, noi eravamo nella
penombra. Come si stava bene così appartati. Mimma mi parlava di
mare: ci sarebbe andata in agosto, per la prima volta, con una zia.
Io non c'ero mai stato, nessuno di noi del cortile c'era stato perché
non usava, allora, andare al mare e soprattutto perché le nostre
famiglie non avevano mezzi: gente che s'alzava presto al mattino per
andare a lavorare, lavorava tutto il giorno e così per tutto l'anno
e già aveva difficoltà a far fronte alle spese per mantenere la
famiglia.
Ascoltavo Mimma parlare del
mare e mi sentivo quasi commosso per quel grande avvenimento che lei
avrebbe vissuto. Avevo anche tristezza al pensiero che per un mese
non l'avrei vista: non saremmo stati, la sera, seduti insieme in
quella penombra così intima, nostra. Scoprivo Mimma come se appena
in quei giorni l'avessi conosciuta e invece erano dodici anni che la
conoscevo, cioè dalla nascita, perché eravamo nati negli stessi
giorni, in quella casa. Scoprivo la sua voce: Dio, come mi piaceva!
dolce, soave, con sfumature delicatissime. E non soltanto la voce
scoprivo, ma tutta lei. Stavo ad ascoltarla e a guardarla incantato,
nella penombra; ed era come se gli altri ragazzi chiassosi non ci
fossero, come se non ci fossero sopra di noi le donne che parlavano,
gli uomini scamiciati che fumavano appoggiati alle ringhiere dei
ballatoi. Mi chiedevo come mai non m'ero accorto prima della voce di
Mimma e dei suoi occhi azzurri. Stavo fermo, con la schiena
appoggiata al portone, e avrei voluto che la sera fosse
interminabile; se lei, muovendosi, con la spalla mi sfiorava la
spalla, mi sentivo avvampare di rossore. L'ascoltavo, capivo ogni sua
parola, sentivo ogni sfumatura della sua voce, eppure il mio pensiero
riusciva a correre avanti, nel tempo: io e lei più grandi, soli, a
camminare per un viale; e poi pensavo a un bacio, Dio come sarebbe
stato bello, ma mi sentivo arrossire, sconvolgere dentro.
Di sera in sera il mare di
Mimma diventava sempre più grande e più vicino nella sua e nella
mia immaginazione, io lo amavo e lo odiavo insieme; l'amavo perché
lei ne era entusiasta e contava i giorni che ancora la dividevano
dalla partenza, e l'odiavo perché me l'avrebbe portata via, per la
prima volta, e questo accadeva proprio adesso che non facevo altro
che pensare a lei. «E tu cosa mi dici?» mi chiedeva talvolta. Io
non sapevo cosa dire, o meglio, avevo in fondo al cuore il desiderio
di dirle tutte le sensazioni che provavo, ma capivo anche che non ne
avrei mai avuto il coraggio; avevo solo fiducia che comprendesse lo
stesso, che bastasse quella nostra presenza appartata nella penombra
ad aprirle l'animo mio. Parlavo della bicicletta che mio padre mi
aveva promesso, dicevo che mi sarebbe piaciuto poterne avere una
"balloncina", con i penumatici più grossi dei soliti, le
biciclette di lusso che erano in voga in quei tempi. Lo dicevo tanto
per dire, perché sapevo che mio padre difficilmente avrebbe potuto
comperarmi anche una bicicletta normale.
Poi Mimma partì. Fu di
mattino. Dalla finestra la vidi allontanarsi, un passo dietro a suo
padre che le portava la valigia tenendola sulla spalla. La sera
innanzi era rimasta poco nel cortile perché doveva finire di
preparare la roba da portare con sé. Ero riuscito a chiederle, con
grande fatica e con una vampata di rossore: «Mi scriverai?» Mimma
s'era messa a ridere. «Certo che ti scriverò, vuoi che non ti
faccia vedere il mare? Ti manderò le cartoline più belle». La
risposta mi aveva appagato, m'ero sentito pervadere dalla serenità e
dalla gioia, mi sembrava già di avere in mano la prima delle sue
cartoline, di ammirare il mio nome scritto da lei.
Fu un agosto lento, lungo,
tremendamente lungo. Andavo sempre giù, la sera, in cortile, con gli
altri ragazzi, ma non avevo voglia di giocare, mi sarebbe piaciuto
starmene a sedere, solo, sul gradino del portone di fondo, dove ero
stato tante volte con lei, ma gli altri non mi lasciavano, mi
trascinavano a forza con loro e allora, passivamente, facevo quello
che volevano. Di giorno attendevo con ansia il postino, ma non aveva
mai niente per me. Andò avanti così per dieci giorni, poi,
finalmente, una cartolina arrivò. Era proprio per me, scritta di suo
pugno: "Molti cari saluti". Raffigurava una fila di capanni
con tanta gente al sole della spiaggia. Guardavo ad una ad una quelle
donne come se dovessi cercare fra loro Mimma, ma lei naturalmente non
c'era. Cercavo di immaginarla come quelle, con il costume da bagno,
ma non sapevo vederla diversa da come l'avevo sempre vista nel
cortile.
Passavano altri giorni e io
ancora aspettavo una sua cartolina. Ripensavo alle sue parole. «Te
ne manderò tante, le più belle». E come mai, invece, il postino
non chiamava il mio nome? Una seconda cartolina arrivò negli ultimi
giorni di agosto, ma non era indirizzata a me, bensì "ai
ragazzi del cortile". "Torno sabato" scriveva Mimma.
Ero deluso e amareggiato perché mi aveva trascurato in quel modo, ma
al tempo stesso ero pervaso dalla gioia. Mimma tornava: ci saremmo
seduti ancora, la sera, sul gradino del portone, nella penombra.
C'era tutto settembre per stare nel cortile: sarebbe stato un mese
magnifico, forse io avrei anche trovato il coraggio di dirle quello
che provavo per lei.
Mimma tornò. Era
irriconoscibile, tanto era abbronzata. E per giunta indossava un
vestito molto aperto sul collo, che non le avevo mai visto. Non
sembrava più lei. Nel primo momento in cui la vidi mi fece venire in
mente Rosalinda, che era la sorella di una gobba che stava nella
casa. Rosalinda faceva la modella, era sempre abbronzata e pitturata;
quando veniva a trovare sua sorella noi la guardavamo con una
curiosità morbosa, poi fantasticavamo su di lei e sulla sua
professione di modella che ci sembrava molto peccaminosa. La prima
sera del ritorno di Mimma la passammo a festeggiare lei con grida e
canti al centro del cortile. Io avrei voluto che s'appartasse con me,
ma gli altri non la lasciavano. Poi un inquilino protestò per il
baccano e Mimma tornò in casa.
La sera dopo ci andammo a
sedere nel nostro posto e lei incominciò a parlare del mare. «È'
stupendo» disse. «Mi sono proprio tanto divertita. Stavamo sulla
spiaggia dalla mattina alla sera, fin che il sole non tramontava. E
sulla spiaggia giocavamo a palla oppure a rincorrerci sulla sabbia
lambita dall'acqua». «Ma come, anche tua zia correva sulla sabbia?»
chiesi io con meraviglia. «Oh, no: lei stava seduta sotto
l'ombrellone a chiacchierare con le altre donne. Correvamo noi
ragazzi: eravamo in una squadra grossa, c'era anche Roberto che abita
qui, in via Mazzolotti, e suo padre ha una drogheria in centro».
«Ah» feci io, e intanto mi sentivo un tremito interno e non
riuscivo a formulare un pensiero. Poi disse: «Di sera, con un
grammofono, si ballava sulla terrazza della pensione. Era molto
divertente».
Io avrei voluto non essere
dov'ero, al suo fianco, appoggiato al portone, nella penombra della
sera. Andavo indietro con il pensiero e provavo nostalgia per i
giorni d'agosto che pure m'erano sembrati tanto brutti per l'attesa.
Ma almeno, allora, avevo la speranza di rivedere presto Mimma. Adesso
Mimma era con me, ma non era più quella di prima; era abbronzata
come Rosalinda e parlava di balli fatti di sera con un Roberto. Poco
valeva che lei stesse seduta in disparte con me se mi doveva
raccontare di queste storie. Io ascoltavo e intanto sentivo nascermi
dentro un odio per il mare, per le lunghe file di capanni, per la
sabbia sulla quale si può correre al limite dell'onda e per le
terrazze delle pensioni.
Passarono ancora dei giorni,
ma ogni sera i ricordi di Mimma mi riportavano nella nostra penombra
la vita del mare, con il suo chiasso, il suo sole, i suoi balli. Una
sera, scendendo, trovai tutti i ragazzi fermi nel cortile, in
cerchio. E dentro al cerchio c'erano, intenti a parlare, Mimma e
Roberto. Era un ragazzo alto, forse aveva due o tre anni più di me.
Stava a cavalcioni della bicicletta. Parlavano dei giorni d'agosto,
citavano nomi di altri ragazzi, episodi. E ridevano. Tornai in casa,
dissi a mia madre che avevo male di testa e andai a letto. Nel buio,
in silenzio, mi misi a piangere. Pensavo a prima del mare. Com'era
bello!