martedì 27 ottobre 2015

Nell'anniversario della scomparsa di Remo Lugli

Verso la fine di Luglio, mi pare. Eri alla tua scrivania, seduto in carrozzina. Avevi ancora meno di tre mesi davanti a te.
Stavo per andare a un appuntamento di lavoro; prima di uscire, passai a salutarti.
Avevi in mano una strana statuina di metallo; un oggetto piccolo, insignificante, che non avevo mai visto. Mi dicesti: “Questa statuina ha una storia lunga”.
Guardai l'orologio. Ero già alle strette con il tempo, come mi capita di frequente. “Me la racconterai più tardi, adesso devo schizzare via”.
Ovviamente quando ci rivedemmo, dopo qualche ora, ce ne eravamo ambedue dimenticati.

Qualche giorno fa, mettendo ordine tra le tue cose, quella statuina mi è capitata in mano. Mi avrebbe fatto piacere conoscere la sua lunga storia.

(All'appuntamento di lavoro ero riuscito ad arrivare puntuale e avevo dovuto aspettare, almeno dieci minuti).

La morte dà un senso alla vita. Dove ho letto, di recente, queste parole, che mi sono sembrate assurde? Eppure adesso mi sono chiare.

Finché ci siamo, tutto è fluido, tutto può cambiare, tutto può ancora capitare. Se fossimo immortali, forse non faremmo mai niente, perché tutto potremmo sempre fare domani.

Ma c'è quel limite, quella soglia invalicabile, che proietta nell'eternità il non fatto e il non detto. E non sappiamo quando.

Dovrebbe farci capire se è il caso, per una volta, di arrivare un po' in ritardo ad un appuntamento importante.


Daniele Lugli

lunedì 26 ottobre 2015

Il consiglio

Proprio in quel momento la donna tirò su la borsa. Luigi Berletti non fu sufficientemente lesto ad estrarre la mano che stava annaspando alla ricerca del borsellino. La donna si voltò, vide il suo braccio: «oddio, oddio!» Berletti fece uno scatto, si mise a correre fra le bancarelle. «Al ladro, al ladro» gridò la donna. Altre voci si unirono alla sua: «Fèrmalo, fèrmalo». Un pizzicagnolo gli si parò davanti per bloccarlo ma Berletti fu svelto a scansarlo, urtò una bancarella di pesce e la mandò all'aria. L'impatto lo sbilanciò ed egli andò avanti sbilenco senza avere più capacità di controllo: sbatté contro un banco di frutta che aveva in bella mostra due piramidi di pere e di mele che volarono e si disseminarono, poi, dopo qualche altro metro, finì la sua corsa come se si tuffasse; ma anziché una piscina c'era una bassa bancarella di mutande e reggiseni che sotto l'urto e il peso si sfasciò travolgendo a sua volta l'ambulante, una donna grassissima seduta lì a lato su uno sgabello.
Tutto questo in pochi secondi. Un finimondo per quel mercato rionale che viveva la sua mattinata tranquilla: tutt'intorno c'era un gran vociare, ma proprio nel mezzo di quella devastazione la gente era rimasta sconcertata, qualcuno stava ancora con le mani nei capelli, incapace di reagire. Attimi, ma attimi preziosi per Berletti che fu svelto a rialzarsi e a ripartire, nella corsia tra le bancarelle. «Dài, dài, che scappa», «prèndilo, prèndilo», «bloccalo», «correte, correte», incitazioni e invocazioni si incrociavano, alcuni giovani stavano effettivamente mettendosi a rincorrerlo, ma lui aveva già guadagnato un bel po' di metri. Correva a perdifiato e intanto si meravigliava di avere slancio nonostante i suoi quarant'anni e la pancia debordante; non doveva a nessun costo rallentare perché la canea che aveva dietro aumentava. Un momento davvero difficile per lui, non si era mai trovato in una situazione simile. Come mai si era lasciato pescare così, come un pivellino alle prime armi? Evidentemente stava invecchiando. Nella sua carriera di borsaiolo aveva rubato almeno mille portafogli: erano dieci anni che rubava sulle piazze e nessuno se ne era mai accorto, non la conosceva anima viva la sua attività, nemmeno la moglie.
Adesso era proprio ai ferri corti, inseguito da quella turba di forsennati che, se l'avessero raggiunto, forse l'avrebbero linciato. Svoltò per una strada stretta e poco frequentata; se fosse riuscito a guadagnare una ventina di metri sarebbe potuto arrivare sulla piazza e lì entrare in chiesa senza che se ne accorgessero. La chiesa a quell'ora era sempre deserta; si sarebbe potuto nascondere da qualche parte. E nella piazza confluivano quattro strade, gli inseguitori si sarebbero dispersi in una vana ricerca. Allungò il passo più che poté, urtò una vecchia che riuscì a malapena a reggersi aggrappandosi al muro. Svoltò rapidissimo, a sinistra, pochi metri più avanti c'era una porticina che dava in chiesa. Entrò.
Ai banchi stavano inginocchiate due suore e altre tre donne. Tutto era in penombra. Berletti si fermò un attimo dietro una colonna; a tre passi da lui, in una zona ancora più buia, c'era un confessionale. Si spostò piano, per non attirare l'attenzione su di sé, aprì con delicatezza il basso usciolo, entrò, lo richiuse, tirò la tenda, si sedette. Finalmente era nascosto. Possibile che gli inseguitori venissero anche dentro in chiesa e, se venivano, che guardassero dentro i confessionali? In questo momento, se ancora persistevano nella sua caccia, erano sguinzagliati per le strade che si diramavano dalla piazza. Ansimava. In petto aveva un battito scomposto, il cuore in gola.
Berletti aprì lo sportellino che copriva la finestrella di sinistra. La grata era bucherellata, al centro una serie di fori più fitti disegnavano la croce. Accostò l'occhio: ora che lo sguardo cominciava ad abituarsi al buio, vedeva abbastanza chiaramente l'interno della chiesa, i banchi, le donne, le suore, e la porta principale, sul fondo. Tenne l'occhio fisso a quella parte, vide uscire le suore, entrare un vecchio che si reggeva con due bastoni, poi una donna bassa e grassa. Luigi Berletti appiccicò ancor di più l'occhio alla grata. Perbacco, era sua moglie, quella. Si sentì di nuovo agitato: ma come mai, si chiedeva, sua moglie era in chiesa, non ci andava quasi mai. E adesso, per giunta, veniva verso il confessionale. Cosa doveva fare, lui? Pensò di fingere che non ci fosse nessuno: lentamente chiuse lo sportellino della grata, ma cigolò. Ormai Berletti non poteva più nascondere la propria presenza. Riaprì lo sportello e si coprì il viso con una mano. Un attimo dopo sentì il respiro della moglie a fianco della grata. Disse lei: «Sia lodato Gesù Cristo». Berletti si raschiò la gola; cosa doveva dire? Gli affiorò un ricordo dell'infanzia, di quando andava alla dottrina, disse, meravigliandosene: «Sempre sia lodato». "Riconosce la voce" pensò, e subito si strinse il naso con due dita per essere pronto a contraffarla.
«Reverendo» incominciò a dire la donna, «io vengo da lei perché sono turbata da un rimorso: voglio confessarmi, e chiederle anche un consiglio». "Ma cosa ha fatto?" si chiedeva Berletti con l'orecchio appoggiato alla grata. «Posso dire?» chiese la donna. «Sì, sì» rispose l'uomo tenendosi stretto il naso; e intanto cercava di immaginare la colpa di sua moglie. Cosa aveva fatto, l'aveva tradito, si era indebitata a sua insaputa, aveva tramato qualcosa contro di lui? «Io» disse la donna, «ho un figlio di dieci anni, uno solo». «Sì, sì» ripeté il marito, impaziente, ma subito si rese conto del rischio che correva: doveva andar cauto, parlare il meno possibile per non farsi scoprire. «Bene» riprese a dire la donna: «da quando mio figlio è nato, io ho sempre derubato mio marito: cinquecento, mille lire al giorno; talvolta, quando il suo portafogli era ben fornito, gliene rubavo anche cinquemila; in altri giorni, niente. Prima le lire poi gli euro». "Disgraziata" pensò lui, "mi rubi i soldi: ecco perché certe volte mi trovo inaspettatamente con il portafogli quasi vuoto". «Ma il motivo di questi furti?» chiese Berletti con voce fortemente nasale. «Per fare studiare nostro figlio, quando sarà grande. Mio marito fa il facchino e di soldi non ne ha tanti, se non faccio così non riusciremo mai a farlo studiare. Adesso ho già messo da parte quasi ventimila euro». "Dio mio, ventimila" pensò Berletti, "che somma!". Avrebbe potuto far baldoria per mesi con gli amici senza pensare a niente, né al lavoro, né ai borseggi. Una cifra così non s'era mai sognato d'averla.
«Il mio problema è questo» continuò la donna: «devo confessarlo a mio marito o no?» «Ma certo, ma certo» disse lui d'impeto. La donna replicò: «Reverendo, io ho rubato a fin di bene, per nostro figlio; non appena io confesso questa cosa a mio marito lui si prende i soldi e va al bar a bere e a giocare, prevedo già come finisce». «Ah, sì?» fece lui distrattamente. Rivide Giancarlo, suo figlio. Certo sarebbe stato bello poterlo fare studiare, che non dovesse anche lui entrare a far parte della cooperativa facchini, portare valigie e sacchi e casse tutti i giorni. «Reverendo» tornò a dire la donna, «io sono venuta qui decisa a seguire il suo consiglio, perché sono piena di rimorso: se lei mi dice di riferirgli tutto, lo faccio; però vorrei che ci pensasse bene prima di consigliarmi». "Ma dove saranno nascosti quei soldi" si chiedeva Berletti, "che li tenga in banca? Io non mi sono mai accorto di niente, se li avessi trovati avrebbero sicuramente fatto una brutta fine. Certo, però, sarebbe bello che Giancarlo potesse studiare, diventare un dottore, per esempio, o un avvocato, l'avvocato Giancarlo Berletti. Se qui, al posto mio, ci fosse un prete vero", pensò ancora l'uomo, "che cosa risponderebbe? Forse le direbbe di star zitta, di fare studiare il figlio".
«Reverendo» chiese la donna con voce preoccupata, «sta male?» «No, no, sto pensando» rispose lui. «Scusi ma non la sentivo più, m'ero preoccupata». «Senta» disse Luigi Berletti, «allora non glielo dica a suo marito». Aveva le idee confuse: le sue labbra dicevano quelle parole, ma intanto la mente pensava ai soldi, ventimila euro. Dio che abbondanza. Si macerava già nella curiosità di sapere dove fossero nascosti, nel desiderio di chiederglieli, di farseli dare a costo di usare la forza. Però sarebbe proprio bello che suo figlio potesse diventare un pezzo grosso, il dott. Giancarlo Berletti o l'avv. Giancarlo Berletti. «Senta» tornò a dire, «no, non glieli dia a suo marito i soldi, neanche se lui si insospettisce e glieli chiede. Non glieli dia, neanche se la picchia per averli. Adesso vada via, subito, subito». «E l'assoluzione?» chiese lei allarmata. «Sì, sì, gliel'ho già data, vada via e badi ai suoi soldi, non se li lasci prendere».

La donna si fece il segno della croce e si allontanò. Berletti, con l'occhio alla grata, la seguì fino alla porta, la vide uscire. Adesso poteva venir fuori dal confessionale, i suoi inseguitori s'erano di certo dispersi, la via era libera. Sarebbe andato a casa. Pensava già alle parole che avrebbe detto alla moglie: "Ho l'impressione che tu, di tanto in tanto, mi porti via dei soldi di tasca, chissà quanti me ne hai già rubati. Dove li hai messi?". Non sapeva ancora bene se sperare che sua moglie resistesse o che cedesse. Chissà come sarebbe andata a finire.

sabato 17 ottobre 2015

Prima del mare

Con i primi caldi, la sera noi ragazzi ci radunavamo giù nel cortile per continuare i giochi del pomeriggio. Il cortile era stretto e lungo, su un lato la casa e sull'altro un muretto oltre il quale s'intravedevano le tettoie di una fabbrica. Era illuminato debolmente da un'unica lampada appesa a un cavo teso tra la casa e il muro di fronte.
Quell'anno, la sera, Mimma e io stavamo quasi sempre seduti sul gradino di un portone che era al fondo del cortile, in penombra. Gli altri giocavano a rincorrersi o a nascondersi o a darsi schiaffi alla mano sotto l'ascella e a indovinare chi era stato. Di tanto in tanto qualcuno veniva a chiamarci: «E voi, non giocate?» «Ho male a un piede» dicevo io, come scusa; oppure era lei, Mimma, che diceva di non averne voglia. Sempre così, tutte le sere.
Era luglio, non avevamo più la noia della scuola, l'incubo degli esami, faceva caldo e la gente della casa stava sui ballatoi, le donne discorrevano tra loro, da piano a piano, gli uomini fumavano, scamiciati, noi eravamo nella penombra. Come si stava bene così appartati. Mimma mi parlava di mare: ci sarebbe andata in agosto, per la prima volta, con una zia. Io non c'ero mai stato, nessuno di noi del cortile c'era stato perché non usava, allora, andare al mare e soprattutto perché le nostre famiglie non avevano mezzi: gente che s'alzava presto al mattino per andare a lavorare, lavorava tutto il giorno e così per tutto l'anno e già aveva difficoltà a far fronte alle spese per mantenere la famiglia.
Ascoltavo Mimma parlare del mare e mi sentivo quasi commosso per quel grande avvenimento che lei avrebbe vissuto. Avevo anche tristezza al pensiero che per un mese non l'avrei vista: non saremmo stati, la sera, seduti insieme in quella penombra così intima, nostra. Scoprivo Mimma come se appena in quei giorni l'avessi conosciuta e invece erano dodici anni che la conoscevo, cioè dalla nascita, perché eravamo nati negli stessi giorni, in quella casa. Scoprivo la sua voce: Dio, come mi piaceva! dolce, soave, con sfumature delicatissime. E non soltanto la voce scoprivo, ma tutta lei. Stavo ad ascoltarla e a guardarla incantato, nella penombra; ed era come se gli altri ragazzi chiassosi non ci fossero, come se non ci fossero sopra di noi le donne che parlavano, gli uomini scamiciati che fumavano appoggiati alle ringhiere dei ballatoi. Mi chiedevo come mai non m'ero accorto prima della voce di Mimma e dei suoi occhi azzurri. Stavo fermo, con la schiena appoggiata al portone, e avrei voluto che la sera fosse interminabile; se lei, muovendosi, con la spalla mi sfiorava la spalla, mi sentivo avvampare di rossore. L'ascoltavo, capivo ogni sua parola, sentivo ogni sfumatura della sua voce, eppure il mio pensiero riusciva a correre avanti, nel tempo: io e lei più grandi, soli, a camminare per un viale; e poi pensavo a un bacio, Dio come sarebbe stato bello, ma mi sentivo arrossire, sconvolgere dentro.
Di sera in sera il mare di Mimma diventava sempre più grande e più vicino nella sua e nella mia immaginazione, io lo amavo e lo odiavo insieme; l'amavo perché lei ne era entusiasta e contava i giorni che ancora la dividevano dalla partenza, e l'odiavo perché me l'avrebbe portata via, per la prima volta, e questo accadeva proprio adesso che non facevo altro che pensare a lei. «E tu cosa mi dici?» mi chiedeva talvolta. Io non sapevo cosa dire, o meglio, avevo in fondo al cuore il desiderio di dirle tutte le sensazioni che provavo, ma capivo anche che non ne avrei mai avuto il coraggio; avevo solo fiducia che comprendesse lo stesso, che bastasse quella nostra presenza appartata nella penombra ad aprirle l'animo mio. Parlavo della bicicletta che mio padre mi aveva promesso, dicevo che mi sarebbe piaciuto poterne avere una "balloncina", con i penumatici più grossi dei soliti, le biciclette di lusso che erano in voga in quei tempi. Lo dicevo tanto per dire, perché sapevo che mio padre difficilmente avrebbe potuto comperarmi anche una bicicletta normale.
Poi Mimma partì. Fu di mattino. Dalla finestra la vidi allontanarsi, un passo dietro a suo padre che le portava la valigia tenendola sulla spalla. La sera innanzi era rimasta poco nel cortile perché doveva finire di preparare la roba da portare con sé. Ero riuscito a chiederle, con grande fatica e con una vampata di rossore: «Mi scriverai?» Mimma s'era messa a ridere. «Certo che ti scriverò, vuoi che non ti faccia vedere il mare? Ti manderò le cartoline più belle». La risposta mi aveva appagato, m'ero sentito pervadere dalla serenità e dalla gioia, mi sembrava già di avere in mano la prima delle sue cartoline, di ammirare il mio nome scritto da lei.
Fu un agosto lento, lungo, tremendamente lungo. Andavo sempre giù, la sera, in cortile, con gli altri ragazzi, ma non avevo voglia di giocare, mi sarebbe piaciuto starmene a sedere, solo, sul gradino del portone di fondo, dove ero stato tante volte con lei, ma gli altri non mi lasciavano, mi trascinavano a forza con loro e allora, passivamente, facevo quello che volevano. Di giorno attendevo con ansia il postino, ma non aveva mai niente per me. Andò avanti così per dieci giorni, poi, finalmente, una cartolina arrivò. Era proprio per me, scritta di suo pugno: "Molti cari saluti". Raffigurava una fila di capanni con tanta gente al sole della spiaggia. Guardavo ad una ad una quelle donne come se dovessi cercare fra loro Mimma, ma lei naturalmente non c'era. Cercavo di immaginarla come quelle, con il costume da bagno, ma non sapevo vederla diversa da come l'avevo sempre vista nel cortile.
Passavano altri giorni e io ancora aspettavo una sua cartolina. Ripensavo alle sue parole. «Te ne manderò tante, le più belle». E come mai, invece, il postino non chiamava il mio nome? Una seconda cartolina arrivò negli ultimi giorni di agosto, ma non era indirizzata a me, bensì "ai ragazzi del cortile". "Torno sabato" scriveva Mimma. Ero deluso e amareggiato perché mi aveva trascurato in quel modo, ma al tempo stesso ero pervaso dalla gioia. Mimma tornava: ci saremmo seduti ancora, la sera, sul gradino del portone, nella penombra. C'era tutto settembre per stare nel cortile: sarebbe stato un mese magnifico, forse io avrei anche trovato il coraggio di dirle quello che provavo per lei.
Mimma tornò. Era irriconoscibile, tanto era abbronzata. E per giunta indossava un vestito molto aperto sul collo, che non le avevo mai visto. Non sembrava più lei. Nel primo momento in cui la vidi mi fece venire in mente Rosalinda, che era la sorella di una gobba che stava nella casa. Rosalinda faceva la modella, era sempre abbronzata e pitturata; quando veniva a trovare sua sorella noi la guardavamo con una curiosità morbosa, poi fantasticavamo su di lei e sulla sua professione di modella che ci sembrava molto peccaminosa. La prima sera del ritorno di Mimma la passammo a festeggiare lei con grida e canti al centro del cortile. Io avrei voluto che s'appartasse con me, ma gli altri non la lasciavano. Poi un inquilino protestò per il baccano e Mimma tornò in casa.
La sera dopo ci andammo a sedere nel nostro posto e lei incominciò a parlare del mare. «È' stupendo» disse. «Mi sono proprio tanto divertita. Stavamo sulla spiaggia dalla mattina alla sera, fin che il sole non tramontava. E sulla spiaggia giocavamo a palla oppure a rincorrerci sulla sabbia lambita dall'acqua». «Ma come, anche tua zia correva sulla sabbia?» chiesi io con meraviglia. «Oh, no: lei stava seduta sotto l'ombrellone a chiacchierare con le altre donne. Correvamo noi ragazzi: eravamo in una squadra grossa, c'era anche Roberto che abita qui, in via Mazzolotti, e suo padre ha una drogheria in centro». «Ah» feci io, e intanto mi sentivo un tremito interno e non riuscivo a formulare un pensiero. Poi disse: «Di sera, con un grammofono, si ballava sulla terrazza della pensione. Era molto divertente».
Io avrei voluto non essere dov'ero, al suo fianco, appoggiato al portone, nella penombra della sera. Andavo indietro con il pensiero e provavo nostalgia per i giorni d'agosto che pure m'erano sembrati tanto brutti per l'attesa. Ma almeno, allora, avevo la speranza di rivedere presto Mimma. Adesso Mimma era con me, ma non era più quella di prima; era abbronzata come Rosalinda e parlava di balli fatti di sera con un Roberto. Poco valeva che lei stesse seduta in disparte con me se mi doveva raccontare di queste storie. Io ascoltavo e intanto sentivo nascermi dentro un odio per il mare, per le lunghe file di capanni, per la sabbia sulla quale si può correre al limite dell'onda e per le terrazze delle pensioni.
Passarono ancora dei giorni, ma ogni sera i ricordi di Mimma mi riportavano nella nostra penombra la vita del mare, con il suo chiasso, il suo sole, i suoi balli. Una sera, scendendo, trovai tutti i ragazzi fermi nel cortile, in cerchio. E dentro al cerchio c'erano, intenti a parlare, Mimma e Roberto. Era un ragazzo alto, forse aveva due o tre anni più di me. Stava a cavalcioni della bicicletta. Parlavano dei giorni d'agosto, citavano nomi di altri ragazzi, episodi. E ridevano. Tornai in casa, dissi a mia madre che avevo male di testa e andai a letto. Nel buio, in silenzio, mi misi a piangere. Pensavo a prima del mare. Com'era bello!

domenica 11 ottobre 2015

La speranza

Sua madre entrò, si diresse alla finestra, sollevò l'avvolgibile, la luce invase la stanza. «Sono quasi le otto» gridò. «Maria, alzati!» La ragazza aveva coperta anche la testa, stava immobile, ma non dormiva. «Non arriverai più in tempo» incalzò la madre. Maria si districò lentamente dall'involucro di lenzuola e coperte, lanciò piccoli gemiti come se in quel momento si stesse svegliando, poi disse: «Questa mattina non ci vado, in ufficio. Ho tutte le ossa rotte, credo d'avere avuto la febbre stanotte». La madre le si avvicinò, le posò una mano sulla fronte: «Adesso non sembra» disse. «Vuoi che telefoni in ufficio?» «Sì, grazie. Di' che tornerò a lavorare appena starò meglio. Ora cerco di dormire di nuovo».
La madre riabbassò l'avvolgibile, la figlia la fermò prima che la serranda fosse completamente chiusa. C'era rimasto uno spiraglio di una decina di centimetri attraverso il quale dal letto si vedeva una terrazza della casa di fronte, due piani più in su, con panni stesi, battuti dal vento e dal sole. «Basta così, grazie» disse la ragazza. La madre si avviò alla porta. «Più tardi ti porto il latte. Se hai bisogno chiamami». Maria girò lo sguardo alle cose della stanza un po' confuse nella penombra, guardò attraverso la fessura della finestra la macchia chiara della terrazza illuminata. Aveva voglia di piangere. Aveva già pianto a mezzanotte quando si era coricata. Anche adesso pensava alle parole che Giulio le aveva detto la sera prima, tornando dal cinema.
Giulio era cassiere nell'ufficio accanto al suo. Erano amici da tempo, ma negli ultimi mesi la loro amicizia si era fatta più intima. Lui era gentile, premuroso, buono; e scapolo. Aveva trentotto anni, due più di lei. A quell'età doveva per forza pensare al matrimonio, a una casa. Maria studiava le sue parole, i sottintesi, cercava di scoprire le intenzioni nascoste. Giulio le piaceva, sperava di sentirsi dire da lui, una volta o l'altra, che le voleva bene. Nel pomeriggio del giorno prima, uscendo dall'ufficio, l'aveva invitata al cinema per la sera, come altre volte, per stare un poco in compagnia. Dopo lo spettacolo, in auto, mentre l'accompagnava a casa, le aveva detto: «Ho bisogno di confidarmi con te, ascoltami, ti prego». Lei si era sentita le gambe tremare all'improvviso, le sembrava già di udire le sue parole d'amore, avrebbe voluto abbracciarlo subito, prima ancora che incominciasse a parlare. Invece Giulio aveva detto: «Sono innamorato di una ragazza che ha vent'anni, è ricchissima, capisco che non è assolutamente adatta a me e che nemmeno mi vorrebbe, ma sono testardo, non so dimenticarla, come devo fare?»
Maria era rimasta in silenzio. Le era venuto un nodo alla gola e si sentiva come sprofondata nel sedile, il tremore di prima alle gambe s'era d'improvviso tramutato in un vuoto, un'insensibilità, come se gli arti non le appartenessero più, se in quel momento avesse dovuto scendere certo non l'avrebbero retta in piedi. Giulio aveva accostato l'auto sulla destra, in uno spiazzo libero del viale che percorrevano. Lui aspettava una sua risposta, ma lei non parlava, il nodo alla gola le aveva tolto anche la parola. «E allora cosa mi dici?» le aveva chiesto vedendo che l'attesa si prolungava. Con grande fatica Maria era riuscita ad aprire bocca. «Sono cose troppo personali, non si possono dare dei consigli, sei tu che devi decidere».
A casa s'era buttata sul letto e aveva pianto. S'era addormentata tardissimo e s'era svegliata presto. Pensava a Giulio e pensava ai propri trentasei anni. Trentasei per modo di dire: ne avrebbe compiuti trentasette dopo dodici giorni, il ventiquattro marzo. Era una data che ormai odiava; odiava anche la primavera, i primi caldi soli, i primi venti, le viole nelle prode delle strade di periferia, perché le ricordavano l'imminente scadenza.
Pensava ad altri compleanni lontani: il diciottesimo, il ventesimo, quando c'era ancora suo padre e ogni anno a primavera facevano un viaggio. I vent'anni li aveva compiuti a Innsbruck. Al mattino avevano visitato l'Hofgarten, il giardino imperiale; a mezzogiorno, rientrando all'albergo dove erano alloggiati - il Greif, ne ricordava ancora il nome - aveva trovato un telegramma per lei. Era di Rolando; diceva: "Hai voluto partire nonostante la mia proibizione: non cercarmi più". Rolando, il suo primo fidanzato, era gelosissimo, a volte insopportabile. Lei aveva scrollato le spalle: le importava poco che Rolando la lasciasse, aveva tempo e si sentiva bella. Poi aveva incontrato Sergio. Si erano voluti molto bene, ma avevano anche avuto liti furibonde; era finita male, addirittura a schiaffi e a calci. Anche con gli altri, dopo, non era mai stata fortunata, o per un motivo o per l'altro.
Fissava la terrazza della casa di fronte: oltre la ringhiera si vedevano sbattere al vento un asciugamano bianco e una sottana gialla. Davanti all'asciugamano si fermò un bambino, si chinò, si alzò, si tornò a chinare, ora si vedeva soltanto la sua testa muoversi in maniera appena percettibile: evidentemente stava giocando con qualcosa che era sul pavimento. Maria avrebbe voluto che se ne andasse: c'erano già di troppo, su quella terrazza, anche il vento e il sole.
Il bambino le ricordava Michele. Michele era stato l'ultimo, prima che lei incominciasse a pensare a Giulio. Michele si era fidanzato regolarmente. «Ci sposiamo presto» le diceva. Era di un'altra città, faceva il tecnico di macchinari per arti grafiche; era venuto per assistere gli operai che montavano una macchina svizzera in una tipografia. «Ti sposo presto» ripeteva; ma non andava mai oltre questa generica promessa. Lei si sarebbe aspettata che facesse qualche progetto, che indicasse una data probabile, che esprimesse qualche idea su quella che sarebbe potuta essere la loro casa. Le diceva invece, tante volte, che aveva un corpo magnifico, che era stupenda, una donna meravigliosa e lei, a quei complimenti, socchiudeva gli occhi per la soddisfazione, quasi inebetita. Poi, un giorno, l'angosciosa scoperta: Michele era sposato e aveva due bambini. Quando Maria gliel'aveva rinfacciato lui si era messo a piangere, le aveva chiesto perdono. Una scena melodrammatica. Ma c'era poco da fare, se non troncare. E si erano lasciati, lei furibonda, ingiuriante, lui sempre piangente, strisciante, implorante perdono.
Ora le pareva di risentire quelle sue parole che sapeva sussurrare con tanta abilità nei momenti di esaltazione amorosa: «Hai un corpo magnifico, sei stupenda». Era vero oppure Michele mentiva anche in quelle affermazioni? Maria cercò di figurarsi il proprio corpo, era tanto che non l'aveva guardato con occhio critico. Le venne un improvviso desiderio di vederlo, di scrutarlo, di ammirarlo. Se l'avesse trovato ancora piacente forse avrebbe potuto riconquistare un po' di fiducia, un'ultima speranza. Scese dal letto, infilò le pantofole, andò davanti allo specchio dell'armadio. Ebbe subito un moto di disappunto guardandosi in faccia: gli occhi erano gonfi, scuri, i capelli scomposti; ma forse la scarsa luce contribuiva a peggiorare l'immagine. Andò a sollevare un po' la serranda, tornò allo specchio, si sforzò di sorridere, pensò che il trucco l'avrebbe trasformata, non poteva giudicarsi in quelle condizioni. Si strinse la vita tra gli indici e i pollici facendo aderire la camicia da notte: la vita era ancora sottile, il petto florido. Si passò una mano sui capelli, sorrise. Ora non pensava a nulla, si limitava a sorridere a se stessa senza sapere il perché.
Si scosse al suono del campanello, nell'ingresso. Sentì sua madre avviarsi ad aprire. Tornò a letto, ad ascoltare. Era la voce di un uomo quella che si sentiva di là. Maria cercava di decifrare le parole, ma non ci riusciva; ora la voce si spostava per il corridoio, entrava nel salotto. Maria attese ancora qualche minuto poi suonò il campanello interno e sua madre venne sull'uscio. «Chi è?» chiese la ragazza. «È il tecnico della tivù, è venuto per l'audio del televisore, dice che il guasto lo può riparare qui, ha già incominciato». La madre uscì di nuovo. Maria si stirò, rimise i piedi a terra, s'infilò le pantofole, la vestaglia, uscì dalla stanza, entrò in bagno. Poi ritornò in camera, si sedette alla toeletta, incominciò a massaggiarsi il viso, scelse il vasetto della crema, il tubetto del rossetto, la boccetta del profumo. Si pettinò con cura, tuttavia senza indugiare. Vide il volto rifiorire, pensò che non era un volto brutto, forse non dimostrava nemmeno gli anni che aveva.
Quando fu pronta si alzò, si diresse alla porta, ma sostò un attimo a guardarsi nello specchio grande dell'armadio. Uscì, nel corridoio si fermò, si ripassò una mano sui capelli con morbidezza per accertarsi che fossero proprio a posto. Dal salotto veniva il gracchiare metallico e confuso del televisore che il tecnico stava riparando. Posò la mano sulla maniglia, entrò.


lunedì 5 ottobre 2015

Pareggio

La villa sorgeva su un cucuzzolo, trenta metri sopra il paese. Era bella a vedere, d'un bianco candido, con le imposte verdi. Ma era scomoda da abitare. Ci portavo la famiglia tutte le estati, per un paio di mesi; poi ci tornavamo d'inverno, a dicembre, per una ventina di giorni. Era sempre attraente l'idea di andare in montagna, togliendosi dall'atmosfera fumosa della città; spesso riuscivamo a fare una capatina anche nei week-end. Ma, quando eravamo là, c'era sempre qualcosa che non andava: un rubinetto che non chiudeva bene, la pompa dell'acqua che si guastava, il tetto che lasciava filtrare la pioggia. Piccolezze, queste, a confronto dei difetti costituzionali e ineliminabili della costruzione.
Dietro la villa, in alto, c'era una vallata dalla quale scendeva un vento gelido. Anche d'estate non si poteva sostare nel giardino senza il pericolo di buscare il raffreddore. D'inverno, poi, i muri si coprivano addirittura di una patina di ghiaccio, e anche la ripida stradicciola che dal paese saliva alla villa gelava e non si riusciva a percorrerla in auto; la macchina bisognava lasciarla in piazza, alle intemperie, e percorrere quest'ultimo tratto a piedi. Da novembre a marzo, di pomeriggio, il sole scompariva per due ore dietro un monte che era a ponente della villa, ricompariva soltanto per farsi vedere tramontare. Come se tutto questo non bastasse, a lato della casa, una sponda che scendeva ad un piccolo torrente franava spesso, sicché il terreno che divideva la costruzione dal ruscello andava sempre più restringendosi: sarebbe stato necessario erigere un muro per fermare lo smottamento.
Ero stanco di tutte quelle contrarietà e un giorno, d'accordo con mia moglie, decisi di vendere la villa per comprarne un'altra al mare. Feci uscire un'inserzione su un giornale e qualcuno telefonò sin dal giorno dopo; ma erano richieste di poca consistenza, si capiva dal tono della voce di chi parlava. Dieci giorni dopo si presentarono un uomo e una donna, sulla trentina, sposi da un paio d'anni. Li accompagnai alla villa e ne rimasero entusiasti. A loro piaceva tutto: la forma, il colore, la posizione, il ruscello, il giardino, la stradina in salita. Io, naturalmente, da buon venditore, decantai i pregi o i presunti pregi, trascurando del tutto i difetti.
Eravamo d'autunno, una giornata calda, e il clima mi era favorevole. La signora si guardava attorno con occhi gioiosi, il sorriso sempre sulle labbra. Progettava piccole modifiche, abbellimenti. «Qui potremmo spostare la parete per ampliare il salotto, al centro del giardino si potrebbe mettere una fontana, sulla sponda del ruscello ci starebbe bene una scaletta...» Il marito diceva sempre di sì, anche lui tutto preso dall'infatuazione. Io pensavo, quasi ridendo tra me, che ampliando il salotto si sarebbe eccessivamente ridotto lo studio, che una fontana nel giardino d'inverno sarebbe stata preda del gelo, che la scaletta verso il torrente sarebbe stata travolta dal primo smottamento. Ma dovevo vendere e dicevo: «Magnifica idea, quella della fontana; la scaletta, poi, darà un tono davvero affascinante all'ambiente». Il prezzo pareva un po' caro. Effettivamente la mia richiesta era stata elevata, soprattutto in considerazione dei difetti della villa. Cercavo di resistere, magnificando doti inesistenti.
La visita finì, prendemmo appuntamento per un giorno della settimana successiva. Temevo che nel frattempo i due coniugi ci ripensassero o raccogliessero informazioni da qualcuno del posto. Invece si ripresentarono ancora animati dal primitivo fervore che via via vedevo accrescersi mentre si svolgeva la nuova visita. Erano innamorati di tutto: della villa, dei monti circostanti, dei sassi, degli uccellini che cinguettavano intorno. «Come mai non si vede il sole?» chiese a un tratto meravigliata la donna. Erano le tre del pomeriggio e il sole incominciava proprio in quei giorni a nascondersi dietro il monte che era a ponente. Io stavo per spiegare che, d'inverno, per un breve lasso di tempo nel pomeriggio la villa sarebbe stata in ombra, ma il marito mi prevenne: «È lì, dietro quel monte, tra poco verrà fuori». Entrambi ripresero a sorridere come prima. Mi facevano un tantino di pena; ad ogni modo io dovevo vendere e dovevo vendere bene. Ripresi ad esaltare ciò che a loro piaceva di più. Tre giorni dopo ci presentavamo da un notaio per il rogito. Il prezzo pattuito era alto rispetto al reale valore dell'immobile. I due sposi erano felici, si capiva che la villa che comperavano era proprio quella che avevano sempre sognato.

Una settimana dopo mia moglie e io eravamo già in Riviera a cercare un'altra villa. Ci presentammo a un'agenzia, prendemmo in considerazione diverse offerte, andammo anche a fare qualche visita, ma non c'era nulla che ci garbasse. Rimandammo: non si poteva pretendere di trovare in pochi giorni quello che cercavamo. Tornammo in Riviera altre volte, passammo di località in località. Finalmente una domenica, ai primi di dicembre, andammo a visitare una villa che ci piacque al primo colpo d'occhio. Era a pochi metri dalla strada statale e in posizione soprelevata, circondata da una cinquantina di ulivi. Le finestre guardavano il mare, che era d'un azzurro intenso, come non avevamo mai visto in nessun altro posto. Era proprio una bella villetta, un po' piccola, ma graziosa. La vendevano arredata: i mobili erano pochi, ma in compenso antichi, autentici. E il prezzo non era caro, poco più di quanto avevamo riscosso dalla vendita della villa in montagna.
Durante quella nostra prima visita portammo a buon punto l'accordo. Oramai non avevamo più dubbi sulla scelta: quella sarebbe stata la nostra villa. Bisognava non perdere tempo per evitare che qualcun altro ce la soffiasse. Per stare nel sicuro prendemmo l'appuntamento per l'indomani. A sera avevamo già concluso l'affare e consegnata la caparra. Pochi giorni ancora nell'attesa che fossero predisposti i documenti e poi potemmo fare l'atto notarile.
Natale si avvicinava, poteva essere l'occasione per festeggiare l'acquisto: trascorrere là le vacanze. E, infatti, così decidemmo. Presi qualche giorno di ferie da collegare con l'inizio delle vacanze e ci trasferimmo giù, felici e armati di buona volontà, perché ovviamente bisognava affrontare la pulizia generale dei locali, nell'attesa di far fare poi i lavori di tinteggiatura. Con aspirapolvere, spazzettoni, scope, detersivi e disinfettanti affrontammo muri, pavimenti e infissi. Lavare, lucidare, lustrare: un lavoro faticoso, estenuante, per noi non avvezzi a quelle fatiche fisiche. Si arrivava a sera sfiniti, ma eravamo veramente soddisfatti di tutto: dell'affare concluso, del luogo, del clima. Lì avremmo certo potuto vivere giorni meravigliosi, d'estate e nei week-end; tra l'altro il viaggio dalla città alla Riviera era più breve di quello per la montagna, avremmo potuto godere più spesso della nostra seconda casa. Poi l'aria salmastra sarebbe stata un toccasana per i nostri polmoni. Mia moglie e io pensavamo ai benefici che ne avrebbero ottenuto il bambino e mia suocera, già parecchio anziana, che in città, d'inverno, spesso era tormentata dalla bronchite. Demmo una sistemata anche al giardino, ma solo per piccoli interventi superficiali, soprattutto di pulizia. Infine, cosa molto importante per accentuare il clima della festività natalizia e dell'inaugurazione della villa, addobbammo con collane di lampadine e palle colorate l'albero di Natale, scegliendo a questo scopo un ulivo in mancanza di un abete.
C'era ancora un ultimo lavoro da fare e l'affrontammo la vigilia, come tocco finale. Consisteva in una nuova sistemazione dei mobili per disporli secondo il nostro gusto e le nostre esigenze. Ad esempio, un bellissimo bureau del Settecento, tra l'altro in ottime condizioni, che era in un angolo un po' buio, andava spostato per dargli miglior luce. Era pesante e per muoverlo più agevolmente sfilammo i cassetti. Sul fondo del mobile c'era un foglio di carta scritto a penna che evidentemente era uscito da uno dei cassetti, sfuggendo così allo svuotamento effettuato dal precedente proprietario. Lo presi e mi misi a leggerlo, per curiosità. Doveva essere una brutta copia, perché era vergato con calligrafia trasandata e con correzioni.
Era una lettera. Diceva: "Cara Luisa, ti annuncio che lascio la Riviera. Parto domani stesso per Genova, dove mi trasferirò nel mio vecchio alloggio. Sono finalmente riuscito a vendere questa villa. Come ricorderai, erano due anni che cercavo di disfarmene, ma non ci riuscivo mai. Sono proprio contento. Qui la vita è ormai impossibile, con il crescente frastuono delle macchine sulla strada, il gas dei tubi di scarico che ammorba l'aria, l'acqua dell'acquedotto che d'estate non riesce ad arrivare fin quassù. Senza contare che nel giugno prossimo inizieranno la costruzione di un grande albergo, a otto piani, proprio qui davanti, in modo che chi si affaccerà non s'accorgerà nemmeno di essere in Riviera. Nonostante tutti questi difetti sono riuscito a concludere un buon affare. Gli acquirenti sono due coniugi che si sono dimostrati innamorati della villa sin dal primo momento in cui l'hanno vista. Me l'hanno pagata più di quanto sperassi. Gli ho ceduto tutto, anche i mobili che, come sai, sono imitazioni di scarso valore. Allora, da domani stesso, se mi devi scrivere, ricordati che il mio nuovo indirizzo...".