lunedì 29 giugno 2015

L'amico di chi è solo

Ora che la bella stagione è venuta mi piace sostare qui, nel parco, come un tempo. Non è quasi mutato da allora, da quand'ero ragazzo: vi hanno soltanto aperto un campo da tennis, sulla sinistra, cintato da una rete metallica. I prati sono rimasti tali e quali e anche gli alberi, grandi e annosi, non sono stati toccati. Sono certamente ingigantiti, hanno esteso maggiormente le loro fronde, coprendo anche la vista dei nuovi alti palazzi che sono sorti tutt'attorno a questa oasi di verde; la mia fantasia può così immaginare che di là ci siano ancora le case basse a due o tre piani che qui chiamavano "le villette".
In queste giornate di sole l'animazione nel parco sembra quella di allora: gente seduta sull'erba, bambini che giocano, innamorati che camminano abbracciati per i vialetti, e vecchi, come me, seduti sulle panchine, forse le stesse di tanti anni fa. E ci sono i cani che giocano con i loro padroni: cuccioli sventati e dai movimenti disordinati o vecchi cani lenti e mansueti. Adesso davanti a me c'è un ragazzo di una decina d'anni con un grosso cane lupo. Getta un sasso lontano e il cane corre a prenderlo e glielo riporta: il ragazzo si china ad abbracciare il lupo, gli dice qualcosa in un orecchio, poi di scatto torna a gettare il sasso e lui riparte rapidissimo, con lo stesso entusiasmo di prima. Continuano così a lungo.
Improvvisamente io mi ritrovo in quel ragazzo. Anch'io, decenne o poco più, su questi stessi prati gettavo sassi al mio Biondo. Era un cane bastardo, grosso e fulvo, che nel muso assomigliava a uno spinone. Gli parlavo come a un fratello, anzi più che a un fratello. lo di fratelli ne avevo nove, erano tutti più anziani di me, quello che mi era più vicino d'età aveva tredici anni, ma era sempre fuori casa, faceva il garzone in un caffè, lavorava sodo come tutti gli altri, compresi mia madre e mio padre. Nella grande famiglia era come se fossi solo.
Poi avevo trovato il cane, piccolo, cucciolo, buono. Mi aveva accompagnato a casa, una sera, e gli avevo dato da mangiare. I miei non lo volevano, ma io avevo insistito per tenerlo e alla fine avevo vinto. L'avevo chiamato Biondo per il suo colore. Qui venivamo nei pomeriggi di primavera e d'estate, qui giocavamo come adesso gioca il ragazzo che mi sta davanti. Raccontavo a Biondo tutte le mie fantasie e lui mi stava ad ascoltare accucciato ai miei piedi; se la mia voce era allegra dimenava la coda, se dicevo cose tristi, come spesso mi capitava, si metteva a guaire di sofferenza e poi, quando non ne poteva più, si alzava, avvicinava il muso alla mia faccia e cercava di leccarmela, per farmi tacere. Se piangevo, il guaito diventava latrato, pareva che proprio mi implorasse di farmi coraggio; si alzava in piedi, mi puntava le zampe anteriori sul petto, poi le allargava come per abbracciarmi. Era un amico, il mio solo amico. Crescevamo insieme, lui molto più rapidamente.
A un certo punto avevo smesso di andare a scuola e m'ero occupato come apprendista tipografo. La tipografia aveva il retro che dava in un grande cortile e io avevo chiesto di poter portare con me il cane, per non lasciarlo in casa, solo, tutta la giornata. Me l'avevano concesso e così, mentre lavoravo, Biondo stava nel cortile, giocava con i bambini e ogni tanto entrava dal retro e veniva a darmi un saluto. La sera tornavamo a casa, felici tutt'e due.
A ventidue anni mi fidanzai. Lavoravo ancora nello stesso posto, ero considerato, benvoluto. Gran parte del mio tempo libero lo trascorrevo con Luisa, la mia ragazza, e Biondo veniva sempre con me; a casa non ci voleva stare né io volevo lasciarlo. Praticamente di giorno in casa non c'era nessuno: alcuni miei fratelli si erano sposati, erano andati ad abitare per loro conto e gli altri, come anche mio padre e mia madre, andavano a lavorare, erano fuori dalla mattina alla sera.
Luisa guardava con aria diffidente Biondo, che era come la mia ombra, sempre con me: era chiaro che non aveva simpatia per lui, lo tollerava, forse ne aveva anche paura. «Non fa niente, è buonissimo» la rassicuravo io. «E poi è vecchio, ha da pensare agli acciacchi».
A Luisa raccontavo tutto di me, delle mie speranze, delle mie ansie. Stavamo stretti stretti su una panchina, nel parco, quasi sempre la solita. Biondo stava accucciato in disparte, con il muso appoggiato sulle zampe anteriori, come se non sentisse. Invece sentiva, non interveniva soltanto perché non voleva essere importuno.
Sposai Luisa e andammo a vivere per nostro conto. Biondo venne con noi, nonostante che mia moglie torcesse il naso. Il cane si rendeva conto della diffidenza che lei aveva per lui e viveva il più possibile appartato, nella sua cuccia, sul ballatoio.
Un giorno Luisa mi comunicò che avremmo avuto un figlio. Ben presto, quando mancavano ancora sei mesi alla nascita, cominciò a dire che dovevamo sbarazzarci di Biondo perché non sarebbe stata possibile la convivenza nella stessa casa di un cane e di un bambino. Io le rispondevo che quella povera bestia non avrebbe affatto disturbato, anzi sarebbe stata per il piccino un compagno di gioco, un motivo di gioia. Ma lei insisteva.
Avvilito, in certi momenti andavo a trovare il mio amico d'infanzia e ancora gli parlavo, mestamente, e pensavo al giorno in cui, per il quieto vivere, sarei stato costretto ad accompagnarlo in campagna e affidarlo a un contadino. Ma chi l'avrebbe preso, vecchio com'era ormai? Ero proprio molto preoccupato. Biondo sentiva questo mio stato d'animo, mi guardava con i suoi occhi lacrimosi per la vecchiaia, non si muoveva per Ieccarmi la faccia perché muoversi gli costava fatica e sofferenza fisica; capivo, però, che mi voleva sempre bene nella stessa misura. Mi risparmiò il triste passo che mia moglie mi spingeva a compiere e che io avevo sempre paventato: se ne andò da solo, una notte d'estate. Lo trovai al mattino già rigido, nella sua cuccia.
Nacque il bambino, la casa si riempì di lui, delle sue grida, dei problemi che lo concernevano. Luisa e io lo portavamo qui nel parco perché respirasse l'aria buona che sapeva odore di piante. C'erano altre madri con altre carrozzelle. I discorsi si intrecciavano. «Quanti mesi ha il suo?»; «Dio come è paffuto e bianco e rosso!»; «Il mio devo allevarlo artificialmente»; «Che cosa mangia?» Qui su quest'erba Marcello fece i primi giochi, le prime corse. C'erano anche allora cani che giocavano con i ragazzi, andavano a prendere i sassi che erano stati lanciati e li riportavano; e i ragazzi abbracciavano i cani e loro dimenavano la coda. Mi ritornava alla memoria Biondo, la sua bontà, la sua limpida fedeltà, sentivo che la sua amicizia poteva essere paragonata all'attaccamento che il nostro bambino aveva per noi genitori; ma poi altri pensieri mi distraevano. Marcello, la casa, il lavoro. Eppure, dentro, quasi inavvertita, mi rimaneva la certezza che ancora avrei goduto dell'affetto di un cane.
I problemi si susseguivano uno dopo l'altro, appena uno era risolto uno nuovo si presentava e intanto passavano gli anni, Marcello era un uomo. Andava all'università; diceva: «Voglio questo, voglio quello, si deve fare così, non si deve fare così». La sua voce a volte era alta, imperiosa. Come erano lontani i tempi in cui ci correva incontro lanciando piccole grida e si aggrappava alle nostre gambe come un cucciolo e poi ci stringeva fortissimo per farci sentire tutto il suo amore.
E' passato altro tempo. Adesso Marcello ha superato i trent'anni, è sposato e ha un bambino. Non abita più qui, ma in un'altra città dove ricopre un'importante carica. Anche Luisa mi ha lasciato, da sette mesi, per sempre. Io sono solo, ma ho di nuovo un cane. È un bastardo, un po' maturo, che sono andato a prendere cinque mesi fa al canile municipale. Il suo colore è nero, ma io lo chiamo Biondo, a ricordo dell'altro. Con lui vengo qui, nell'antico parco della mia infanzia sempre uguale, come allora. Ora siedo su una panchina e osservo il ragazzo che mi sta innanzi lanciare sassi davanti al suo cane. Anche Biondo, che è accucciato ai miei piedi, guarda incuriosito le esuberanze giovanili del lupo che corre a prendere il sasso. Biondo si è già abituato a questo suo nuovo nome, appena lo pronuncio alza le orecchie e mi guarda in faccia. Ha uno sguardo intelligente; mi guarda come se io fossi sempre stato il suo unico padrone. Gli dico: «E tu non senti più voglia di metterti a correre per i prati dietro ai sassi?» Mi si avvicina strisciando un poco a terra e sfrega il muso contro una mia gamba. Ci intendiamo già, posso parlargli, sicuro d'esser capito, quando ho qualcosa da dire e non so a chi dirlo. Gli rivolgo ancora la parola: «Vuoi che andiamo a casa? Devo preparare la cena». Biondo si alza e dimena la coda.
Ma io non mi alzo ancora. Il ragazzo del lupo mi si è accostato. Mi chiede quanti anni ha il mio cane e che cosa gli do da mangiare. Mi intrattengo a parlare di Biondo.



martedì 23 giugno 2015

Acqua sulle speranze

Venivamo da Lèrida e andavamo verso Andorra. La strada tortuosa ci mostrava una Catalogna rossa nelle sue montagne ferrose e quieta nella sua solitudine. Un colore di amaranto scorreva con fragore nel Rio Sègre che toccava a tratti la strada per poi allontanarsene come impaurito. Era settembre e viaggiavamo per diporto, io e Osvaldo, per festeggiare un accordo che ci aveva uniti in società nell'acquisto di un ristorante. Al ritorno avremmo incominciato a gestirlo. E di quello parlavamo ogni tanto, alternando i progetti futuri alle considerazioni sul paesaggio.
La strada si infossò in una gola stretta e alta. Ora il suo fondo non era asfaltato, era rovinato da buche e solchi come se da molto tempo non avesse avuto manutenzione. Poco più avanti trovammo delle baracche, dei camion fermi, delle tettoie che coprivano cataste di sacchi di cemento e attrezzi. Alla curva successiva si presentò ai nostri occhi l'imponente spettacolo di una enorme diga che sbarrava la gola. Stava guidando Osvaldo; fermò la macchina su un lato, per guardare.
Era un cantiere in grande fermento e contrastava con il paesaggio solitario e brullo che avevamo attraversato per arrivare fino a quel punto. L'aria risuonava di rombi di motori che parevano intenti all'assalto della grande mole di cemento; uomini si muovevano piccoli come giocattoli, stagliandosi contro il cielo bianco per la gran luce, sulla sommità della diga e altri erano sulla facciata nella ragnatela delle impalcature. Scendemmo per guardare meglio. Grossi tubi neri si precipitavano giù dallo sbarramento e si perdevano dietro le nostre spalle, nel fondo del torrente al quale restituivano la sua acqua rosso-cupa. Davanti, la strada andava a incunearsi dentro una galleria che perforava la diga; in fondo ad essa si vedeva appena un punto bianco tanto era lunga nello spessore del cemento
Un giovane bruno, piccolo, che portava delle assi su di una spalla, si fermò al nostro fianco, posò il carico a terra, guardò noi e poi guardò la diga con uno sguardo che l'abbracciò tutta tant'era alta e larga. «Muy crecida, señor» molto grande, disse e poi si mise a ridere con aria soddisfatta. Gli chiesi se doveva servire per una centrale elettrica e lui rispose di sì, precisando che sarebbe entrata in funzione di lì a qualche mese. Erano dieci anni che lavoravano per costruirla, ma ormai era finita. Avrebbero chiuso la galleria della strada che vedevamo davanti a noi e avrebbero lasciato che l'acqua del torrente a poco a poco riempisse il bacino. Sarebbe diventato un lago vastissimo, lungo oltre venti chilometri. «E la strada?» chiese Osvaldo. Lui sorrise soddisfatto perché aveva la risposta a fior di labbro, lampante. «Ecco la carretera» disse, e indicò con l'indice un punto altissimo, forse più di cento metri, un po' al di sopra della sommità della diga, sull'altro versante della vallata. Una striscia chiara incideva orizzontalmente la roccia ed era il muro della strada nuova, già pronta. Quella sulla quale ci trovavamo era così rovinata perché da tempo non era stata riordinata in previsione della sua eliminazione. Il giovane si aggiustò sui fianchi i pantaloni poi si caricò sulla spalla le assi e ci disse adios.
Risalimmo in macchina e ci rimettemmo in viaggio. Tre minuti dopo, percorsa la galleria, eravamo al di là dello sbarramento, nel fondo del futuro bacino e io non potei fare a meno di immaginare d'avere sulla testa tutta l'acqua che poteva accumularsi tra le due montagne fin sotto il livello della nuova strada. Lo dissi al mio amico e lui rispose che rabbrividiva a questo pensiero. Andammo avanti piano, cercando di scansare le buche più profonde, e intanto pensavamo sempre all'acqua. «Meno male che non ci sono case» diceva Osvaldo, «altrimenti la gente dovrebbe abbandonare tutto». Case non ce n'erano proprio. Si andava avanti per chilometri e chilometri e non si vedeva anima viva.
Era quasi mezz'ora che andavamo nel bacino, lentamente a causa delle buche, e forse la diga distava già una quindicina di chilometri alle nostre spalle. La strada nuova continuava a mantenersi alta sulla montagna, almeno una trentina di metri sopra di noi. Ad una curva ci imbattemmo in una casa. Era una casa piccola a un piano solo, sulla sinistra lo spiovente del tetto si protendeva fin quasi a terra per fare da portico. «Sarà già vuota» dissi; ma mentre stavamo per superarla uscì dalla porta un vecchio. Osvaldo posò il piede sul freno, interessava anche a lui sentire cosa diceva quell'uomo che era costretto a lasciare la casa.
Quando accennammo alla faccenda del lago dette una scrollata di spalle e si mise a ridere. «Tutte storie» disse. «Sono dieci anni che vanno raccontando che qui ci deve venire l'acqua ma ancora non è venuta; hanno detto anche che io devo andarmene, ma non ci credo. È roba mia, questa». Si girò verso la casa, guardando al di sopra d'essa, verso i campi che erano sul pendio della montagna, e li indicò. Erano di parecchi metri sotto la strada nuova, lo notammo bene Osvaldo ed io. «C'erano solo dei sassi e degli sterpi in quei campi» disse il vecchio, «e io ci ho fatto crescere l'erba e il grano. Adesso sto mettendo a posto un altro quadro di terreno, un campo esplendido» e spostò di un palmo l'indice che era ancor teso alla sua terra. «Quando avrò finito potrò allargare la stalla e prendere un'altra mucca». Osvaldo ed io ci guardammo a lungo. «Ma lei ha visto la diga che stanno costruendo?» chiesi a bassa voce, quasi con timidezza. Il vecchio tornò ad alzare le spalle. «Io non ho visto niente» disse, «sono qui e non voglio vedere niente fuori di qui, non m'importa cosa fanno, so solo che non possono coprirmi d'acqua come dicono, sono tutte storie».
Ripensai al cantiere e lo rividi in un gran fervore d'opera, con uomini da ogni parte e motori che rombavano; il giovane bruno con le assi sulla spalla aveva detto «sono gli ultimi giorni, poi la strada la chiudiamo e l'acqua invade tutto». Intanto il vecchio continuava a parlare della terra che stava ripulendo dai sassi e io mi figuravo l'acqua salire dalla valle e coprire la strada dove adesso eravamo fermi con l'automobile e poi varcare la soglia della casa, colmare a poco a poco la cucina e la stalla, sommergere il tetto, salire verso i campi, verso il livello massimo, appena al di sotto della strada nuova che incideva il monte. Le avevano annunciate, tutte queste cose, al vecchio, ma lui non ci credeva, credeva nella sua terra come era al presente, sua, da ripulire e da rendere più fertile. Non pensava che gli operai o i soldati lo avrebbero strappato a viva forza dalla casa. E sui campi che adesso erano così ben coltivati e su quelli che promettevano buone messi si sarebbe distesa l'acqua.
Il vecchio diceva: «Due giorni ancora di fatica contro i sassi poi ho finito e incomincio a seminare nel campo nuovo; ho tenuto apposta la semente più bella, se volete ve la faccio vedere» e allargando il braccio ci indicò la porta. «No, grazie» dissi io, «lo immagino che sarà la più bella» e avevo già un tono di pena nella voce, una compassione che mi rattristava. «Andiamo via» mormorai a Osvaldo e tesi la mano al vecchio che me la strinse nella sua, grossa e cordiale. Mentre stavamo salendo in macchina, disse ancora: «Se ripassate di qui fermatevi a guardare il mio campo nuovo». Promettemmo di sì con la testa e con il sorriso.
«Poveretto» dissi io. «Già» rispose Osvaldo, «ha la realtà sotto gli occhi e non la vede, sa che lo possono cacciar via da un momento all'altro e non ci pensa nemmeno: è proprio un povero disgraziato a illudersi così». Andavamo avanti ancora sulla strada sconnessa. Ma adesso la salita era più ripida e l'altezza che ci divideva dalla strada nuova che correva sopra di noi via via si assottigliava. Si attraversava un paesaggio chiazzato qua e là di verde da castagni e querce. Il mio occhio spaziava più in alto per cercare la strada nuova che continuava a mantenersi sopra di noi. E intanto pensavo all'acqua che avrebbe coperto la terra sulla quale ancora eravamo e tutta quella alle nostre spalle, per chilometri e chilometri, annullando in un colpo solo la casa del vecchio, le sue speranze, le sue ultime fatiche per fertilizzare il campo esplendido e le sementi affondate nei solchi. Fissavo la strada di sopra con il desiderio di raggiungerla in fretta. Avrei voluto che Osvaldo pigiasse di più sull'acceleratore, incurante delle buche che ci facevano sobbalzare, ma lui continuava a procedere adagio.
Finalmente ci ricongiungemmo alla strada nuova, che era molto larga, ben protetta verso valle da un muretto, e aveva l'asfalto perfetto. Si poteva correre veloci e infatti l'auto incominciò a filare alla nostra consueta andatura. Il lungo rallentamento era terminato, un ostacolo superato. Osvaldo si riallacciò a un discorso che avevamo interrotto molti chilometri prima, quando eravamo stati distratti dalla vista della diga: «Appena avremo comperato il ristorante potremo fare un'ipoteca con la banca per avere un mutuo. Allora si potrà rinnovare il locale all'interno e all'esterno, trasformare il cortile in un elegante giardino e nelle sere d'estate farci suonare l'orchestra». Io ascoltavo le sue parole ma non sapevo trovare la forza per dire di sì: mi sembrava che fossero speranze assurde; mi sembrava che ci potesse essere qualcuno che, ascoltandole, avesse compassione di noi. Qualche chilometro prima, quando eravamo nell'area destinata a lago, sentivo dentro di me una oppressione come se avessi paura di rimanere immerso nell'acqua e non vedevo l'ora di salire per raggiungere la strada nuova, sicuro di liberarmi da questo peso interiore. Ora sulla strada nuova c'ero ma quella sensazione non se ne andava, sentivo le parole di Osvaldo ma stentavo ad afferrarle come se mi scivolassero sopra e svanissero nel nulla. E al mormorio di quelle parole si associava nella mia mente l'immagine del vecchio che magnificava il suo campo nuovo; mi sembrava che fosse lui che stava parlando del mutuo, del ristorante, del giardino e dell'orchestra.

lunedì 15 giugno 2015

Condannati anche gli agenti

Pianosa. Visito quel carcere nell’estate 1977 nell’ambito di una inchiesta sul sistema carcerario. Seicentotrenta detenuti, 120 agenti di custodia, 13 mila polli, 265 bovini, 160 maiali e 400 pecore. Tutti questi animali dovrebbero essere indizio di una vita agreste che suggerisce un ambiente sereno. E invece no. Pianosa viene ad essere un carcere peggiore di quelli di massima sicurezza e un reclusorio anche per gli agenti. Gli edifici, fatiscenti, sono quelli della colonia agricola penale fondata nel 1835 dal governo granducale e da allora non hanno avuto se non una scarsa manutenzione. C’è un solo medico per 1200 individui e l’isola è veramente isolata. L’unico collegamento con il continente è un battello che viene il mercoledì e il sabato, attracca, sosta un’ora e riparte. In questo modo le visite ai detenuti e al personale di sevizio sono rare, perché un familiare, per colloquio, deve spendere a volte centinaia di migliaia di lire, essendo costretto a restare sul posto tre notti se non quattro, ospite dell’unico albergo.

Ci sono agenti che vivono a Pianosa da quattro, sei, dodici anni. Se sono sposati hanno fatto venire la famiglia (c’è la scuola elementare) e soffrono meno, ma se sono scapoli hanno molta probabilità di rimanerlo per chissà quanto. «Come si può avere una ragazza in queste condizioni? Non bastano certo trenta giorni di ferie all’anno per alimentare un amore». E i detenuti come possono sperare nell’applicazione degli istituti previsti dalla legge, come la semilibertà che consiste nel permettere di uscire di giorno nella comunità civile per dedicarsi a un lavoro e rientrare la sera, se a Pianosa oltre alla casa di reclusione non c’è nulla? Mancano anche gli educatori, gli psicologi, gli assistenti sociali che pure sono previsti dalla legge. Disperazione per tutti.

lunedì 1 giugno 2015

Ora ricordo l'Africa



Non trovo più
le ansie dei vecchi giorni
quando aspettavo la sera
per sognare in pace
la nave del ritorno.
Ora ricordo l'Africa
come se mai
vi avessi pianto di fame
di paura e di dolore.
Come se tu, Bersani,
non fossi morto ai miei piedi
pronunciando per me una parola
da portare a tua madre
sulle rive del Santerno.
Come se fossimo stati laggiù
per giocare
a un grande gioco della guerra
con stelle filanti,
squarci rossi di cielo nel buio
e tanti soldati di piombo.

Ritrovo tutti
i sonnolenti cammelli
e le giornate immense di luce
sulle distese
ondulate del deserto;
i campi all'italiana
del Gebel;
i lamenti delle carrucole
sui pozzi scarni;
e le raggiere dei palmeti
nei cieli impastati di luna.
Ritrovo le bianche case
di Agedabia, Misurata, Sirte,
sedute sulla sabbia
a guardare il mare;
le carovane stanche di sete;
e gli uomini lenti che cercano
l'anima di Maometto
nelle tazze di tè.
Ritrovo le timorose mambrucche
cogli occhi nascosti nel barracano,
che sfiorano i muri
col passo delle gazzelle;
e le nebbie di ghibli
con la sabbia rovente
che preme la gola;
i vecchi seduti al sole
e i bimbi che cercano pidocchi
tra i loro capelli.
Ritrovo la millenaria Cirene
e Tripoli, Bengàsi,
tutta la Libia
come se fosse una giumella;
e ritrovo anche la tua lacrima,
Bersani,
che ti spuntò quando dicesti
l'ultima parola per tua madre
che ancora ti aspetta
sulle rive del Santerno.

Ora ricordo l'Africa
come non la vidi allora,
e so che l'amore
nasce dalla sofferenza,
come la sofferenza
nasce dall'amore.

Ora ricordo l'Africa
e aspetto la sera
per sognare in pace
la nave del ritorno.

(1948)