Ora che la bella stagione
è venuta mi piace sostare qui, nel parco, come un tempo. Non è
quasi mutato da allora, da quand'ero ragazzo: vi hanno soltanto
aperto un campo da tennis, sulla sinistra, cintato da una rete
metallica. I prati sono rimasti tali e quali e anche gli alberi,
grandi e annosi, non sono stati toccati. Sono certamente ingigantiti,
hanno esteso maggiormente le loro fronde, coprendo anche la vista dei
nuovi alti palazzi che sono sorti tutt'attorno a questa oasi di
verde; la mia fantasia può così immaginare che di là ci siano
ancora le case basse a due o tre piani che qui chiamavano "le
villette".
In queste giornate di
sole l'animazione nel parco sembra quella di allora: gente seduta
sull'erba, bambini che giocano, innamorati che camminano abbracciati
per i vialetti, e vecchi, come me, seduti sulle panchine, forse le
stesse di tanti anni fa. E ci sono i cani che giocano con i loro
padroni: cuccioli sventati e dai movimenti disordinati o vecchi cani
lenti e mansueti. Adesso davanti a me c'è un ragazzo di una decina
d'anni con un grosso cane lupo. Getta un sasso lontano e il cane
corre a prenderlo e glielo riporta: il ragazzo si china ad
abbracciare il lupo, gli dice qualcosa in un orecchio, poi di scatto
torna a gettare il sasso e lui riparte rapidissimo, con lo stesso
entusiasmo di prima. Continuano così a lungo.
Improvvisamente io mi
ritrovo in quel ragazzo. Anch'io, decenne o poco più, su questi
stessi prati gettavo sassi al mio Biondo. Era un cane bastardo,
grosso e fulvo, che nel muso assomigliava a uno spinone. Gli parlavo
come a un fratello, anzi più che a un fratello. lo di fratelli ne
avevo nove, erano tutti più anziani di me, quello che mi era più
vicino d'età aveva tredici anni, ma era sempre fuori casa, faceva il
garzone in un caffè, lavorava sodo come tutti gli altri, compresi
mia madre e mio padre. Nella grande famiglia era come se fossi solo.
Poi avevo trovato il
cane, piccolo, cucciolo, buono. Mi aveva accompagnato a casa, una
sera, e gli avevo dato da mangiare. I miei non lo volevano, ma io
avevo insistito per tenerlo e alla fine avevo vinto. L'avevo chiamato
Biondo per il suo colore. Qui venivamo nei pomeriggi di primavera e
d'estate, qui giocavamo come adesso gioca il ragazzo che mi sta
davanti. Raccontavo a Biondo tutte le mie fantasie e lui mi stava ad
ascoltare accucciato ai miei piedi; se la mia voce era allegra
dimenava la coda, se dicevo cose tristi, come spesso mi capitava, si
metteva a guaire di sofferenza e poi, quando non ne poteva più, si
alzava, avvicinava il muso alla mia faccia e cercava di leccarmela,
per farmi tacere. Se piangevo, il guaito diventava latrato, pareva
che proprio mi implorasse di farmi coraggio; si alzava in piedi, mi
puntava le zampe anteriori sul petto, poi le allargava come per
abbracciarmi. Era un amico, il mio solo amico. Crescevamo insieme,
lui molto più rapidamente.
A un certo punto avevo
smesso di andare a scuola e m'ero occupato come apprendista
tipografo. La tipografia aveva il retro che dava in un grande cortile
e io avevo chiesto di poter portare con me il cane, per non lasciarlo
in casa, solo, tutta la giornata. Me l'avevano concesso e così,
mentre lavoravo, Biondo stava nel cortile, giocava con i bambini e
ogni tanto entrava dal retro e veniva a darmi un saluto. La sera
tornavamo a casa, felici tutt'e due.
A ventidue anni mi
fidanzai. Lavoravo ancora nello stesso posto, ero considerato,
benvoluto. Gran parte del mio tempo libero lo trascorrevo con Luisa,
la mia ragazza, e Biondo veniva sempre con me; a casa non ci voleva
stare né io volevo lasciarlo. Praticamente di giorno in casa non
c'era nessuno: alcuni miei fratelli si erano sposati, erano
andati ad abitare per loro conto e gli altri, come anche mio padre e
mia madre, andavano a lavorare, erano fuori dalla mattina alla sera.
Luisa guardava con aria
diffidente Biondo, che era come la mia ombra, sempre con me: era
chiaro che non aveva simpatia per lui, lo tollerava, forse ne aveva
anche paura. «Non fa niente, è buonissimo» la rassicuravo io. «E
poi è vecchio, ha da pensare agli acciacchi».
A Luisa raccontavo tutto
di me, delle mie speranze, delle mie ansie. Stavamo stretti stretti
su una panchina, nel parco, quasi sempre la solita. Biondo
stava accucciato in disparte, con il muso appoggiato sulle zampe
anteriori, come se non sentisse. Invece sentiva, non interveniva
soltanto perché non voleva essere
importuno.
Sposai Luisa e andammo a
vivere per nostro conto. Biondo venne con noi, nonostante che mia
moglie torcesse il naso. Il cane si rendeva conto della diffidenza
che lei aveva per lui e viveva il più possibile appartato, nella sua
cuccia, sul ballatoio.
Un giorno Luisa mi
comunicò che avremmo avuto un figlio. Ben presto, quando mancavano
ancora sei mesi alla nascita, cominciò a dire che dovevamo
sbarazzarci di Biondo perché non sarebbe stata possibile la
convivenza nella stessa casa di un cane e di un bambino. Io le
rispondevo che quella povera bestia non avrebbe affatto disturbato,
anzi sarebbe stata per il piccino un compagno
di gioco, un motivo di gioia. Ma lei insisteva.
Avvilito, in certi
momenti andavo a trovare il mio amico d'infanzia e ancora gli
parlavo, mestamente, e pensavo al giorno in cui, per il quieto
vivere, sarei stato costretto ad accompagnarlo in campagna e
affidarlo a un contadino. Ma chi l'avrebbe preso, vecchio com'era
ormai? Ero proprio molto preoccupato. Biondo sentiva questo mio stato
d'animo, mi guardava con i suoi occhi lacrimosi per la vecchiaia, non si
muoveva per Ieccarmi la faccia perché muoversi gli costava fatica e
sofferenza fisica; capivo, però, che mi voleva sempre bene nella
stessa misura. Mi risparmiò il triste passo che mia moglie mi
spingeva a compiere e che io avevo sempre paventato: se ne andò da
solo, una notte d'estate. Lo trovai al mattino già rigido, nella sua
cuccia.
Nacque il bambino, la
casa si riempì di lui, delle sue grida, dei problemi che lo
concernevano. Luisa e io lo portavamo qui nel parco perché respirasse l'aria buona che sapeva odore di piante. C'erano altre
madri con altre carrozzelle. I discorsi si intrecciavano. «Quanti
mesi ha il suo?»; «Dio come è paffuto e bianco e rosso!»; «Il
mio devo allevarlo artificialmente»; «Che cosa mangia?» Qui su
quest'erba Marcello fece i primi giochi, le prime corse. C'erano
anche allora cani che giocavano con i ragazzi, andavano a prendere i
sassi che erano stati lanciati e li riportavano; e i ragazzi
abbracciavano i cani e loro dimenavano la coda. Mi ritornava alla
memoria Biondo, la sua bontà, la sua limpida fedeltà, sentivo che
la sua amicizia poteva essere paragonata all'attaccamento che il
nostro bambino aveva per noi genitori; ma poi altri pensieri mi
distraevano. Marcello, la casa, il lavoro. Eppure, dentro, quasi
inavvertita, mi rimaneva la certezza che ancora avrei goduto
dell'affetto di un cane.
I problemi si
susseguivano uno dopo l'altro, appena uno era risolto uno nuovo si
presentava e intanto passavano gli anni, Marcello era un uomo. Andava
all'università; diceva: «Voglio questo, voglio quello, si deve fare
così, non si deve fare così». La sua voce a volte era alta,
imperiosa. Come erano lontani i tempi in cui ci correva incontro
lanciando piccole grida e si aggrappava alle nostre gambe come un
cucciolo e poi ci stringeva fortissimo per farci sentire tutto il suo
amore.
E' passato altro tempo.
Adesso Marcello ha superato i trent'anni, è sposato e ha un bambino.
Non abita più qui, ma in un'altra città dove ricopre un'importante
carica. Anche Luisa mi ha lasciato, da sette mesi, per sempre. Io
sono solo, ma ho di nuovo un cane. È un bastardo, un po' maturo, che
sono andato a prendere cinque mesi fa al canile municipale. Il suo
colore è nero, ma io lo chiamo Biondo, a ricordo dell'altro. Con lui
vengo qui, nell'antico parco della mia infanzia sempre uguale, come
allora. Ora siedo su una panchina e osservo il ragazzo che mi sta
innanzi lanciare sassi davanti al suo cane. Anche Biondo, che è
accucciato ai miei piedi, guarda incuriosito le esuberanze giovanili
del lupo che corre a prendere il sasso. Biondo si è già abituato a
questo suo nuovo nome, appena lo pronuncio alza le orecchie e mi
guarda in faccia. Ha uno sguardo intelligente; mi guarda come se io
fossi sempre stato il suo unico padrone. Gli dico: «E tu non senti
più voglia di metterti a correre per i prati dietro ai sassi?» Mi
si avvicina strisciando un poco a terra e sfrega il muso contro una
mia gamba. Ci intendiamo già, posso parlargli, sicuro d'esser
capito, quando ho qualcosa da dire e non so a chi dirlo. Gli rivolgo
ancora la parola: «Vuoi che andiamo a casa? Devo
preparare la cena». Biondo si alza e dimena la coda.
Ma io non mi
alzo ancora. Il ragazzo del lupo mi si è accostato. Mi chiede quanti
anni ha il mio cane e che cosa gli do da mangiare. Mi intrattengo a
parlare di Biondo.