Venivamo da Lèrida e
andavamo verso Andorra. La strada tortuosa ci mostrava una Catalogna
rossa nelle sue montagne ferrose e quieta nella sua solitudine. Un
colore di amaranto scorreva con fragore nel Rio Sègre che toccava a
tratti la strada per poi allontanarsene come impaurito. Era settembre
e viaggiavamo per diporto, io e Osvaldo, per festeggiare un accordo
che ci aveva uniti in società nell'acquisto di un ristorante. Al
ritorno avremmo incominciato a gestirlo. E di quello parlavamo ogni
tanto, alternando i progetti futuri alle considerazioni sul
paesaggio.
La strada si infossò
in una gola stretta e alta. Ora il suo fondo non era asfaltato, era
rovinato da buche e solchi come se da molto tempo non avesse avuto
manutenzione. Poco più avanti trovammo delle baracche, dei camion
fermi, delle tettoie che coprivano cataste di sacchi di cemento e
attrezzi. Alla curva successiva si presentò ai nostri occhi
l'imponente spettacolo di una enorme diga che sbarrava la gola. Stava
guidando Osvaldo; fermò la macchina su un lato, per guardare.
Era un cantiere in grande
fermento e contrastava con il paesaggio solitario e brullo che
avevamo attraversato per arrivare fino a quel punto. L'aria risuonava
di rombi di motori che parevano intenti all'assalto della grande mole
di cemento; uomini si muovevano piccoli come giocattoli, stagliandosi
contro il cielo bianco per la gran luce, sulla sommità della diga e
altri erano sulla facciata nella ragnatela delle impalcature.
Scendemmo per guardare meglio. Grossi tubi neri si precipitavano giù
dallo sbarramento e si perdevano dietro le nostre spalle, nel fondo
del torrente al quale restituivano la sua acqua rosso-cupa. Davanti,
la strada andava a incunearsi dentro una galleria che perforava la
diga; in fondo ad essa si vedeva appena un punto bianco tanto era
lunga nello spessore del cemento
Un giovane bruno,
piccolo, che portava delle assi su di una spalla, si fermò al nostro
fianco, posò il carico a terra, guardò noi e poi guardò la diga
con uno sguardo che l'abbracciò tutta tant'era alta e larga. «Muy
crecida, señor» molto
grande, disse e poi si mise a ridere con aria soddisfatta. Gli chiesi
se doveva servire per una centrale elettrica e lui rispose di sì,
precisando che sarebbe entrata in funzione di lì a qualche mese.
Erano dieci anni che lavoravano per costruirla, ma ormai era finita.
Avrebbero chiuso la galleria della strada che vedevamo davanti a noi
e avrebbero lasciato che l'acqua del torrente a poco a poco riempisse
il bacino. Sarebbe diventato un lago vastissimo, lungo oltre venti
chilometri. «E la strada?»
chiese Osvaldo. Lui sorrise soddisfatto perché aveva la risposta a
fior di labbro, lampante. «Ecco
la carretera»
disse, e indicò con l'indice un punto altissimo, forse più di
cento metri, un po' al di sopra della sommità della diga, sull'altro
versante della vallata. Una striscia chiara incideva orizzontalmente
la roccia ed era il muro della strada nuova, già pronta. Quella
sulla quale ci trovavamo era così rovinata perché da tempo non era
stata riordinata in previsione della sua eliminazione. Il giovane si
aggiustò sui fianchi i pantaloni poi si caricò sulla spalla le assi
e ci disse adios.
Risalimmo in macchina
e ci rimettemmo in viaggio. Tre minuti dopo, percorsa la galleria,
eravamo al di là dello sbarramento, nel fondo del futuro bacino e io
non potei fare a meno di immaginare d'avere sulla testa tutta l'acqua
che poteva accumularsi tra le due montagne fin sotto il livello della
nuova strada. Lo dissi al mio amico e lui rispose che rabbrividiva a
questo pensiero. Andammo avanti piano, cercando di scansare le buche
più profonde, e intanto pensavamo sempre all'acqua. «Meno
male che non ci sono case»
diceva Osvaldo, «altrimenti la
gente dovrebbe abbandonare tutto».
Case non ce n'erano proprio. Si andava avanti per chilometri e
chilometri e non si vedeva anima viva.
Era quasi mezz'ora che
andavamo nel bacino, lentamente a causa delle buche, e forse la diga
distava già una quindicina di chilometri alle nostre spalle. La
strada nuova continuava a mantenersi alta sulla montagna, almeno una
trentina di metri sopra di noi. Ad una curva ci imbattemmo in una
casa. Era una casa piccola a un piano solo, sulla sinistra lo
spiovente del tetto si protendeva fin quasi a terra per fare da
portico. «Sarà già vuota»
dissi; ma mentre stavamo per superarla uscì dalla porta un vecchio.
Osvaldo posò il piede sul freno, interessava anche a lui sentire
cosa diceva quell'uomo che era costretto a lasciare la casa.
Quando accennammo alla
faccenda del lago dette una scrollata di spalle e si mise a ridere.
«Tutte storie»
disse. «Sono dieci anni che
vanno raccontando che qui ci deve venire l'acqua ma ancora non è
venuta; hanno detto anche che io devo andarmene, ma non ci credo. È
roba mia, questa». Si girò
verso la casa, guardando al di sopra d'essa, verso i campi che erano
sul pendio della montagna, e li indicò. Erano di parecchi metri
sotto la strada nuova, lo notammo bene Osvaldo ed io. «C'erano
solo dei sassi e degli sterpi in quei campi»
disse il vecchio, «e io ci ho
fatto crescere l'erba e il grano. Adesso sto mettendo a posto un
altro quadro di terreno, un campo
esplendido»
e spostò di un palmo l'indice che era ancor teso alla sua terra.
«Quando avrò finito potrò
allargare la stalla e prendere un'altra mucca».
Osvaldo ed io ci guardammo a lungo. «Ma
lei ha visto la diga che stanno costruendo?»
chiesi a bassa voce, quasi con timidezza. Il vecchio tornò ad alzare
le spalle. «Io non ho visto
niente» disse, «sono
qui e non voglio vedere niente fuori di qui, non m'importa cosa
fanno, so solo che non possono coprirmi d'acqua come dicono, sono
tutte storie».
Ripensai al cantiere e lo
rividi in un gran fervore d'opera, con uomini da ogni parte e motori
che rombavano; il giovane bruno con le assi sulla spalla aveva detto
«sono gli ultimi giorni, poi
la strada la chiudiamo e l'acqua invade tutto».
Intanto il vecchio continuava a parlare della terra che stava
ripulendo dai sassi e io mi figuravo l'acqua salire dalla valle e
coprire la strada dove adesso eravamo fermi con l'automobile e poi
varcare la soglia della casa, colmare a poco a poco la cucina e la
stalla, sommergere il tetto, salire verso i campi, verso il livello
massimo, appena al di sotto della strada nuova che incideva il monte.
Le avevano annunciate, tutte queste cose, al vecchio, ma lui non ci
credeva, credeva nella sua terra come era al presente, sua, da
ripulire e da rendere più fertile. Non pensava che gli operai o i
soldati lo avrebbero strappato a viva forza dalla casa. E sui campi
che adesso erano così ben coltivati e su quelli che promettevano
buone messi si sarebbe distesa l'acqua.
Il vecchio diceva:
«Due giorni ancora di fatica
contro i sassi poi ho finito e incomincio a seminare nel campo nuovo;
ho tenuto apposta la semente più bella, se volete ve la faccio
vedere» e allargando il
braccio ci indicò la porta. «No,
grazie» dissi io, «lo
immagino che sarà la più bella»
e avevo già un tono di pena nella voce, una compassione che mi
rattristava. «Andiamo via»
mormorai a Osvaldo e tesi la mano al vecchio che me la strinse nella
sua, grossa e cordiale. Mentre stavamo salendo in macchina, disse
ancora: «Se ripassate di qui
fermatevi a guardare il mio campo nuovo».
Promettemmo di sì con la testa e con il sorriso.
«Poveretto»
dissi io. «Già»
rispose Osvaldo, «ha la realtà
sotto gli occhi e non la vede, sa che lo possono cacciar via da un
momento all'altro e non ci pensa nemmeno: è proprio un povero
disgraziato a illudersi così».
Andavamo avanti ancora sulla strada sconnessa. Ma adesso la salita
era più ripida e l'altezza che ci divideva dalla strada nuova che
correva sopra di noi via via si assottigliava. Si attraversava un paesaggio chiazzato
qua e là di verde da castagni e querce. Il mio occhio spaziava più
in alto per cercare la strada nuova che continuava a mantenersi sopra
di noi. E intanto pensavo all'acqua che avrebbe coperto la terra
sulla quale ancora eravamo e tutta quella alle nostre spalle, per
chilometri e chilometri, annullando in un colpo solo la casa del
vecchio, le sue speranze, le sue ultime fatiche per fertilizzare il
campo esplendido e le sementi affondate nei solchi. Fissavo la
strada di sopra con il desiderio di raggiungerla in fretta. Avrei
voluto che Osvaldo pigiasse di più sull'acceleratore, incurante
delle buche che ci facevano sobbalzare, ma lui continuava a procedere
adagio.
Finalmente ci ricongiungemmo alla strada nuova, che era molto larga, ben protetta verso valle da
un muretto, e aveva l'asfalto perfetto. Si poteva correre veloci e
infatti l'auto incominciò a filare alla nostra consueta andatura.
Il lungo rallentamento era terminato, un ostacolo superato. Osvaldo
si riallacciò a un discorso che avevamo interrotto molti chilometri
prima, quando eravamo stati distratti dalla vista della diga: «Appena
avremo comperato il ristorante potremo fare un'ipoteca con la banca
per avere un mutuo. Allora si potrà rinnovare il locale all'interno
e all'esterno, trasformare il cortile in un elegante giardino e nelle
sere d'estate farci suonare l'orchestra».
Io ascoltavo le sue parole ma non sapevo trovare la forza per dire di
sì: mi sembrava che fossero speranze assurde; mi sembrava che ci
potesse essere qualcuno che, ascoltandole, avesse compassione di noi.
Qualche chilometro prima, quando eravamo nell'area destinata a lago,
sentivo dentro di me una oppressione come se avessi paura di rimanere
immerso nell'acqua e non vedevo l'ora di salire per raggiungere la
strada nuova, sicuro di liberarmi da questo peso interiore. Ora sulla
strada nuova c'ero ma quella sensazione non se ne andava, sentivo le
parole di Osvaldo ma stentavo ad afferrarle come se mi scivolassero
sopra e svanissero nel nulla. E al mormorio di quelle parole si
associava nella mia mente l'immagine del vecchio che magnificava il
suo campo nuovo; mi sembrava che fosse lui che stava parlando del
mutuo, del ristorante, del giardino e dell'orchestra.
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