martedì 23 giugno 2015

Acqua sulle speranze

Venivamo da Lèrida e andavamo verso Andorra. La strada tortuosa ci mostrava una Catalogna rossa nelle sue montagne ferrose e quieta nella sua solitudine. Un colore di amaranto scorreva con fragore nel Rio Sègre che toccava a tratti la strada per poi allontanarsene come impaurito. Era settembre e viaggiavamo per diporto, io e Osvaldo, per festeggiare un accordo che ci aveva uniti in società nell'acquisto di un ristorante. Al ritorno avremmo incominciato a gestirlo. E di quello parlavamo ogni tanto, alternando i progetti futuri alle considerazioni sul paesaggio.
La strada si infossò in una gola stretta e alta. Ora il suo fondo non era asfaltato, era rovinato da buche e solchi come se da molto tempo non avesse avuto manutenzione. Poco più avanti trovammo delle baracche, dei camion fermi, delle tettoie che coprivano cataste di sacchi di cemento e attrezzi. Alla curva successiva si presentò ai nostri occhi l'imponente spettacolo di una enorme diga che sbarrava la gola. Stava guidando Osvaldo; fermò la macchina su un lato, per guardare.
Era un cantiere in grande fermento e contrastava con il paesaggio solitario e brullo che avevamo attraversato per arrivare fino a quel punto. L'aria risuonava di rombi di motori che parevano intenti all'assalto della grande mole di cemento; uomini si muovevano piccoli come giocattoli, stagliandosi contro il cielo bianco per la gran luce, sulla sommità della diga e altri erano sulla facciata nella ragnatela delle impalcature. Scendemmo per guardare meglio. Grossi tubi neri si precipitavano giù dallo sbarramento e si perdevano dietro le nostre spalle, nel fondo del torrente al quale restituivano la sua acqua rosso-cupa. Davanti, la strada andava a incunearsi dentro una galleria che perforava la diga; in fondo ad essa si vedeva appena un punto bianco tanto era lunga nello spessore del cemento
Un giovane bruno, piccolo, che portava delle assi su di una spalla, si fermò al nostro fianco, posò il carico a terra, guardò noi e poi guardò la diga con uno sguardo che l'abbracciò tutta tant'era alta e larga. «Muy crecida, señor» molto grande, disse e poi si mise a ridere con aria soddisfatta. Gli chiesi se doveva servire per una centrale elettrica e lui rispose di sì, precisando che sarebbe entrata in funzione di lì a qualche mese. Erano dieci anni che lavoravano per costruirla, ma ormai era finita. Avrebbero chiuso la galleria della strada che vedevamo davanti a noi e avrebbero lasciato che l'acqua del torrente a poco a poco riempisse il bacino. Sarebbe diventato un lago vastissimo, lungo oltre venti chilometri. «E la strada?» chiese Osvaldo. Lui sorrise soddisfatto perché aveva la risposta a fior di labbro, lampante. «Ecco la carretera» disse, e indicò con l'indice un punto altissimo, forse più di cento metri, un po' al di sopra della sommità della diga, sull'altro versante della vallata. Una striscia chiara incideva orizzontalmente la roccia ed era il muro della strada nuova, già pronta. Quella sulla quale ci trovavamo era così rovinata perché da tempo non era stata riordinata in previsione della sua eliminazione. Il giovane si aggiustò sui fianchi i pantaloni poi si caricò sulla spalla le assi e ci disse adios.
Risalimmo in macchina e ci rimettemmo in viaggio. Tre minuti dopo, percorsa la galleria, eravamo al di là dello sbarramento, nel fondo del futuro bacino e io non potei fare a meno di immaginare d'avere sulla testa tutta l'acqua che poteva accumularsi tra le due montagne fin sotto il livello della nuova strada. Lo dissi al mio amico e lui rispose che rabbrividiva a questo pensiero. Andammo avanti piano, cercando di scansare le buche più profonde, e intanto pensavamo sempre all'acqua. «Meno male che non ci sono case» diceva Osvaldo, «altrimenti la gente dovrebbe abbandonare tutto». Case non ce n'erano proprio. Si andava avanti per chilometri e chilometri e non si vedeva anima viva.
Era quasi mezz'ora che andavamo nel bacino, lentamente a causa delle buche, e forse la diga distava già una quindicina di chilometri alle nostre spalle. La strada nuova continuava a mantenersi alta sulla montagna, almeno una trentina di metri sopra di noi. Ad una curva ci imbattemmo in una casa. Era una casa piccola a un piano solo, sulla sinistra lo spiovente del tetto si protendeva fin quasi a terra per fare da portico. «Sarà già vuota» dissi; ma mentre stavamo per superarla uscì dalla porta un vecchio. Osvaldo posò il piede sul freno, interessava anche a lui sentire cosa diceva quell'uomo che era costretto a lasciare la casa.
Quando accennammo alla faccenda del lago dette una scrollata di spalle e si mise a ridere. «Tutte storie» disse. «Sono dieci anni che vanno raccontando che qui ci deve venire l'acqua ma ancora non è venuta; hanno detto anche che io devo andarmene, ma non ci credo. È roba mia, questa». Si girò verso la casa, guardando al di sopra d'essa, verso i campi che erano sul pendio della montagna, e li indicò. Erano di parecchi metri sotto la strada nuova, lo notammo bene Osvaldo ed io. «C'erano solo dei sassi e degli sterpi in quei campi» disse il vecchio, «e io ci ho fatto crescere l'erba e il grano. Adesso sto mettendo a posto un altro quadro di terreno, un campo esplendido» e spostò di un palmo l'indice che era ancor teso alla sua terra. «Quando avrò finito potrò allargare la stalla e prendere un'altra mucca». Osvaldo ed io ci guardammo a lungo. «Ma lei ha visto la diga che stanno costruendo?» chiesi a bassa voce, quasi con timidezza. Il vecchio tornò ad alzare le spalle. «Io non ho visto niente» disse, «sono qui e non voglio vedere niente fuori di qui, non m'importa cosa fanno, so solo che non possono coprirmi d'acqua come dicono, sono tutte storie».
Ripensai al cantiere e lo rividi in un gran fervore d'opera, con uomini da ogni parte e motori che rombavano; il giovane bruno con le assi sulla spalla aveva detto «sono gli ultimi giorni, poi la strada la chiudiamo e l'acqua invade tutto». Intanto il vecchio continuava a parlare della terra che stava ripulendo dai sassi e io mi figuravo l'acqua salire dalla valle e coprire la strada dove adesso eravamo fermi con l'automobile e poi varcare la soglia della casa, colmare a poco a poco la cucina e la stalla, sommergere il tetto, salire verso i campi, verso il livello massimo, appena al di sotto della strada nuova che incideva il monte. Le avevano annunciate, tutte queste cose, al vecchio, ma lui non ci credeva, credeva nella sua terra come era al presente, sua, da ripulire e da rendere più fertile. Non pensava che gli operai o i soldati lo avrebbero strappato a viva forza dalla casa. E sui campi che adesso erano così ben coltivati e su quelli che promettevano buone messi si sarebbe distesa l'acqua.
Il vecchio diceva: «Due giorni ancora di fatica contro i sassi poi ho finito e incomincio a seminare nel campo nuovo; ho tenuto apposta la semente più bella, se volete ve la faccio vedere» e allargando il braccio ci indicò la porta. «No, grazie» dissi io, «lo immagino che sarà la più bella» e avevo già un tono di pena nella voce, una compassione che mi rattristava. «Andiamo via» mormorai a Osvaldo e tesi la mano al vecchio che me la strinse nella sua, grossa e cordiale. Mentre stavamo salendo in macchina, disse ancora: «Se ripassate di qui fermatevi a guardare il mio campo nuovo». Promettemmo di sì con la testa e con il sorriso.
«Poveretto» dissi io. «Già» rispose Osvaldo, «ha la realtà sotto gli occhi e non la vede, sa che lo possono cacciar via da un momento all'altro e non ci pensa nemmeno: è proprio un povero disgraziato a illudersi così». Andavamo avanti ancora sulla strada sconnessa. Ma adesso la salita era più ripida e l'altezza che ci divideva dalla strada nuova che correva sopra di noi via via si assottigliava. Si attraversava un paesaggio chiazzato qua e là di verde da castagni e querce. Il mio occhio spaziava più in alto per cercare la strada nuova che continuava a mantenersi sopra di noi. E intanto pensavo all'acqua che avrebbe coperto la terra sulla quale ancora eravamo e tutta quella alle nostre spalle, per chilometri e chilometri, annullando in un colpo solo la casa del vecchio, le sue speranze, le sue ultime fatiche per fertilizzare il campo esplendido e le sementi affondate nei solchi. Fissavo la strada di sopra con il desiderio di raggiungerla in fretta. Avrei voluto che Osvaldo pigiasse di più sull'acceleratore, incurante delle buche che ci facevano sobbalzare, ma lui continuava a procedere adagio.
Finalmente ci ricongiungemmo alla strada nuova, che era molto larga, ben protetta verso valle da un muretto, e aveva l'asfalto perfetto. Si poteva correre veloci e infatti l'auto incominciò a filare alla nostra consueta andatura. Il lungo rallentamento era terminato, un ostacolo superato. Osvaldo si riallacciò a un discorso che avevamo interrotto molti chilometri prima, quando eravamo stati distratti dalla vista della diga: «Appena avremo comperato il ristorante potremo fare un'ipoteca con la banca per avere un mutuo. Allora si potrà rinnovare il locale all'interno e all'esterno, trasformare il cortile in un elegante giardino e nelle sere d'estate farci suonare l'orchestra». Io ascoltavo le sue parole ma non sapevo trovare la forza per dire di sì: mi sembrava che fossero speranze assurde; mi sembrava che ci potesse essere qualcuno che, ascoltandole, avesse compassione di noi. Qualche chilometro prima, quando eravamo nell'area destinata a lago, sentivo dentro di me una oppressione come se avessi paura di rimanere immerso nell'acqua e non vedevo l'ora di salire per raggiungere la strada nuova, sicuro di liberarmi da questo peso interiore. Ora sulla strada nuova c'ero ma quella sensazione non se ne andava, sentivo le parole di Osvaldo ma stentavo ad afferrarle come se mi scivolassero sopra e svanissero nel nulla. E al mormorio di quelle parole si associava nella mia mente l'immagine del vecchio che magnificava il suo campo nuovo; mi sembrava che fosse lui che stava parlando del mutuo, del ristorante, del giardino e dell'orchestra.

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