sabato 3 agosto 2013

Il campo di patate



Era il tempo felice in cui eravamo fidanzati. Il lavoro al giornale iniziava intorno alle sette, quando di solito tutti vanno a cena. A quel momento arrivavamo dopo aver spremuto ogni attimo per suggerne tutta la felicità e la bellezza che la nostra compagnia poteva darci. Anche quella volta, verso sera, in bicicletta, s’andava per i campi della “bassa” emiliana, lei seduta sulla canna e io che pedalavo, con la bocca al suo orecchio, tra i capelli le dicevo piccole parole d’amore. Imboccammo un sentiero su un argine. Era largo, ma si andava restringendo senza che noi ce ne accorgessimo, intenti com’eravamo a dire e ad ascoltare le piccole dolci parole.

D’un tratto lei lanciò un grido: eravamo arrivati sull’argine e aveva visto che da una parte avevamo l’acqua del fiume e dall’altra la scarpata ripida che finiva in un campo di granoturco, almeno quattro metri più in basso; ma il sentiero percorribile sull’argine era molto stretto. «Oddio, oddio» gemeva, «come facciamo adesso, dove andiamo a finire?» Ero senza parole, anch’io non sapevo come saremmo finiti, visto che non c’era nemmeno lo spazio per scendere e posare i piedi. Per la paura stava rigida sulla canna come una statua. Il manubrio, che stringeva forsennatamente, sembrava facesse corpo unico con la bicicletta. Non potevo certo fermarmi in quelle condizioni, su una striscia di terra larga due spanne, sufficiente appena per le ruote: saremmo finiti nel canale o giù per la scarpata. Dovevo per forza andare avanti, con la speranza che lo stradellino si allargasse di nuovo. «Chiudi gli occhi» le dissi «e cerca di non bloccarmi il manubrio». Sudavo per la tensione e continuavo a pedalare. L'argine era lunghissimo, si perdeva ai confini della piatta distesa verde. «Ma perché ci siamo cacciati su questo sentiero?» chiedeva lei con voce lamentosa. «Taci, taci» la rincuoravo , «arriveremo».

Improvvisamente vidi una striscia non erbosa che scendeva in diagonale verso i campi: un sentiero che ci salvava. M'infilai giù frenando. Sul fondo, ai piedi dell'argine, c'era la carrareccia e oltre la carrareccia c'erano campi di granoturco. Smontammo dalla bicicletta, sospirai di sollievo, mi asciugai il sudore. «Dio mio che paura» mormorò lei con un filo di voce. Un po' più avanti si scorgeva uno spiazzo, lo raggiungemmo a piedi. Era un campo di patate, una piccola isola rettangolare, circondata su tre lati dal sipario del granoturco e sul quarto dall'argine. E tutto intorno era fasciato da una striscia di prato verde e morbido.

Posai la bicicletta a terra. Di corsa andammo a sdraiarci sull'erba. Ci abbracciammo, ci baciammo; la tensione di poco prima sul sentiero si scioglieva, scompariva. Ora in noi c'erano soltanto la dolcezza dell'amore e la serenità del luogo deserto. Ci mettemmo supini a guardare il cielo che si smorzava di luce. Intorno avevamo il fruscio delle foglie del granoturco e lo stridìo dei grilli, un'aria fresca ci accarezzava la pelle. Avrei voluto gridare di gioia ma tacevo, stavo fermo per non guastare quell'incanto. Un incanto, adesso me ne rendo conto, che non veniva soltanto dalla serenità agreste, dalla superata paura, dall'isolamento e dall'amore: veniva anche dalla nostra giovinezza, dai vent'anni che erano passati da non molto ai quali non pensavamo, ma che pure erano presenti in noi; e veniva dal nostro inconscio lungo futuro che si confondeva con la vastità del cielo.

La luce rapidamente calava, l'argine non era più verde, ormai era nero. Lei mi chiamò, mi baciò. Sarebbe stato bello non lasciare più quel campo, fermarci così com'eravamo, con i vent'anni ancora tanto vicini e, davanti, un cielo sempre così sconfinato.

Sentimmo dei passi di corsa sulla carrareccia. Avemmo appena il tempo di tirarci su a sedere, con il cuore in gola. Davanti a noi, sullo sfondo dell'argine, si fermò un uomo, un contadino, in camicia a scacchi bianchi e neri. Ansimava. «Ah» disse, «siete morosi! Allora niente, scusate, credevo un'altra cosa». Parlava a fatica, turbato. Mi alzai, mi ravviai i capelli. «Scusi lei» dissi, «che ci siamo sdraiati sulla sua erba». «Non fa niente, non fa niente. Credevo che foste venuti a rubarmi le patate. È da un po' che me le portano via. Vi ho visto passare sull'argine, in lontananza, e allora sono subito corso. Mi spiace di avervi disturbati, mi spiace proprio. State pur lì fin che volete». Incominciò a indietreggiare facendo un paio di goffi inchini, poi si voltò di scatto e si mise a correre sulla carrareccia.

Una conclusione più bella a questi attimi di paura non poteva esserci. Ci saremmo ricordati con simpatia di quel contadino e delle sue patate.