Era
il tempo felice in cui eravamo fidanzati. Il lavoro al giornale
iniziava intorno alle sette, quando di solito tutti vanno a cena. A
quel momento arrivavamo dopo aver spremuto ogni attimo per suggerne
tutta la felicità e la bellezza che la nostra compagnia poteva
darci. Anche quella volta, verso sera, in bicicletta, s’andava per
i campi della “bassa” emiliana, lei seduta sulla canna e io che
pedalavo, con la bocca al suo orecchio, tra i capelli le dicevo
piccole parole d’amore. Imboccammo un sentiero su un argine. Era
largo, ma si andava restringendo senza che noi ce ne accorgessimo,
intenti com’eravamo a dire e ad ascoltare le piccole dolci parole.
D’un
tratto lei lanciò un grido: eravamo arrivati sull’argine e aveva
visto che da una parte avevamo l’acqua del fiume e dall’altra la
scarpata ripida che finiva in un campo di granoturco, almeno quattro
metri più in basso; ma il sentiero percorribile sull’argine era
molto stretto. «Oddio, oddio» gemeva, «come facciamo adesso, dove
andiamo a finire?» Ero senza parole, anch’io non sapevo come
saremmo finiti, visto che non c’era nemmeno lo spazio per scendere
e posare i piedi. Per la paura stava rigida sulla canna come una
statua. Il manubrio, che stringeva forsennatamente, sembrava facesse
corpo unico con la bicicletta. Non potevo certo fermarmi in quelle
condizioni, su una striscia di terra larga due spanne, sufficiente
appena per le ruote: saremmo finiti nel canale o giù per la
scarpata. Dovevo per forza andare avanti, con la speranza che lo
stradellino si allargasse di nuovo. «Chiudi gli occhi» le dissi «e
cerca di non bloccarmi il manubrio». Sudavo per la tensione e
continuavo a pedalare. L'argine era lunghissimo, si perdeva ai
confini della piatta distesa verde. «Ma perché ci siamo cacciati su
questo sentiero?» chiedeva lei con voce lamentosa. «Taci, taci» la
rincuoravo , «arriveremo».
Improvvisamente
vidi una striscia non erbosa che scendeva in diagonale verso i campi:
un sentiero che ci salvava. M'infilai giù frenando. Sul fondo, ai
piedi dell'argine, c'era la carrareccia e oltre la carrareccia
c'erano campi di granoturco. Smontammo dalla bicicletta, sospirai di
sollievo, mi asciugai il sudore. «Dio mio che paura» mormorò lei
con un filo di voce. Un po' più avanti si scorgeva uno spiazzo, lo
raggiungemmo a piedi. Era un campo di patate, una piccola isola
rettangolare, circondata su tre lati dal sipario del granoturco e sul
quarto dall'argine. E tutto intorno era fasciato da una striscia di
prato verde e morbido.
Posai
la bicicletta a terra. Di corsa andammo a sdraiarci sull'erba. Ci
abbracciammo, ci baciammo; la tensione di poco prima sul sentiero si
scioglieva, scompariva. Ora in noi c'erano soltanto la dolcezza
dell'amore e la serenità del luogo deserto. Ci mettemmo supini a
guardare il cielo che si smorzava di luce. Intorno avevamo il fruscio
delle foglie del granoturco e lo stridìo dei grilli, un'aria fresca
ci accarezzava la pelle. Avrei voluto gridare di gioia ma tacevo,
stavo fermo per non guastare quell'incanto. Un incanto, adesso me ne
rendo conto, che non veniva soltanto dalla serenità agreste, dalla
superata paura, dall'isolamento e dall'amore: veniva anche dalla
nostra giovinezza, dai vent'anni che erano passati da non molto ai
quali non pensavamo, ma che pure erano presenti in noi; e veniva dal
nostro inconscio lungo futuro che si confondeva con la vastità del
cielo.
La
luce rapidamente calava, l'argine non era più verde, ormai era nero.
Lei mi chiamò, mi baciò. Sarebbe stato bello non lasciare più quel
campo, fermarci così com'eravamo, con i vent'anni ancora tanto
vicini e, davanti, un cielo sempre così sconfinato.
Sentimmo
dei passi di corsa sulla carrareccia. Avemmo appena il tempo di
tirarci su a sedere, con il cuore in gola. Davanti a noi, sullo
sfondo dell'argine, si fermò un uomo, un contadino, in camicia a
scacchi bianchi e neri. Ansimava. «Ah» disse, «siete morosi!
Allora niente, scusate, credevo un'altra cosa». Parlava a fatica,
turbato. Mi alzai, mi ravviai i capelli. «Scusi lei» dissi, «che
ci siamo sdraiati sulla sua erba». «Non fa niente, non fa niente.
Credevo che foste venuti a rubarmi le patate. È da un po' che me le
portano via. Vi ho visto passare sull'argine, in lontananza, e allora
sono subito corso. Mi spiace di avervi disturbati, mi spiace proprio.
State pur lì fin che volete». Incominciò a indietreggiare facendo
un paio di goffi inchini, poi si voltò di scatto e si mise a correre
sulla carrareccia.
Una
conclusione più bella a questi attimi di paura non poteva esserci.
Ci saremmo ricordati con simpatia di quel contadino e delle sue
patate.