sabato 28 settembre 2013

Rachele, la vedova del duce


Come inviato della Stampa ho avuto diverse occasioni di incontrare la vedova di Mussolini.
L’ultima volta fu il 9 settembre 1980. La mia visita era stata preannunciata, ma quando ho suonato al cancello di villa Carpena, a sei chilometri da Forlì, dove lei era nata, si è presentato il figlio Vittorio e ha detto che le visite erano sospese per motivi di salute. L’ho pregato di andare da lei, di dirle chi ero: ero sicuro che avrebbe acconsentito perché io avevo sempre riportato fedelmente le sue parole. È andato e quasi subito è tornato e mi ha aperto. Ci siamo seduti in un angolo di un salotto. Sembrava ancora più piccola, scarna; il volto, che sette anni prima era tondo, ora era solcato da profondo rughe; pesava appena 35 chili. Mi ha detto che stava già stentando a stare ritta da sola. Era dispiaciuta ma ancora abbastanza su di morale.
Era presente anche Edda, la figlia, che io ho stentato a riconoscere facendo una grossa gaffe perché avrei dovuto avere anche per lei una adeguata attenzione. Non avevamo un argomento particolare su cui parlare così il discorso è subito finito sul passato e lei andava enumerando le grandi sventure, sue e non sue. A un certo punto ha detto del suo Benito. «Se avesse dato retta a me, certe cose non sarebbero successe». E a me è venuta pronta la domanda: «Si era pentita d’averlo sposato?» «Certo che non lo avrei sposato, non come uomo, ma per quello che aveva in animo di fare».