Sergio Bocci ha la patente da sei mesi.
L’ha presa pochi giorni dopo aver compiuto i 18 anni. Va a scuola
in macchina, va dagli amici in macchina, va al club in macchina. Suo
padre, che è architetto, aveva una onesta Panda di un paio d’anni.
Il figlio gliel’ha disprezzata fino a fargliela vendere e gli ha
fatto comperare un’auto sportiva: motore ruggente e carrozzeria
filante, dentro la quale un eventuale terzo passeggero sta con le
ginocchia in bocca. Qualche volta l’architetto Bocci riesce ancora
a salire sull’automobile, ma prende il posto del terzo passeggero.
Sua moglie sta davanti, a destra, il figlio alla guida. L’auto va
per qualsiasi strada, in città o fuori, come se il conducente fosse
inseguito dalla polizia con i mitra spianati: le ruote stridono
lamentosamente sull’asfalto, il motore urla tutta la sua potenza
compressa. Talvolta i genitori hanno l’impressione che il figlio
esageri e timidamente glielo fanno presente. «Ma state zitti –
dice lui, – che se fosse per voi andreste sempre come tartarughe.
Bisogna essere dinamici».
Sergio Bocci frequenta la quinta liceo.
È bravo, perché l’intelligenza non gli fa difetto, anzi, gli
basta studiare pochissimo per ottenere voti che ad altri costano
molta più fatica. Così può dedicare parecchio tempo agli svaghi:
il club, il tennis, gli amici. Tutti ambienti molto distinti dove
anche tra i giovani non sono rare le buone mance date con aria di
grandezza. L’architetto Bocci ha una buona posizione, ma non
proprio brillantissima. È un uomo che gode poca salute: ha mal di
cuore, non si sa bene se il cuore è effettivamente deficiente o se i
disturbi sono causati da distonie dovute al sistema nervoso. Fatto
sta che basta una preoccupazione per dargli l’affanno, fiaccarlo
fisicamente. E così il Bocci si lascia scappare i lavori più
redditizi. La moglie, che di solito provvede alle finanze del figlio,
cerca talvolta di far comprendere a Sergio che le possibilità della
famiglia sono limitate, che lui non può permettersi i lussi e le
larghezze che sono normalissimi per altri suoi compagni, figli di
ricchi o di professionisti dalla grande fortuna. Sergio scuote le
spalle sgarbatamente: «Non vorrete che faccia la figura del
pezzente».
Sua madre, nonostante tutto, continua a
adorarlo e a trattarlo come se fosse il figlio più buono e
giudizioso. «Ma cosa vuoi sapere, tu, mamma – dice in certi casi
Sergio –: hai una mentalità arretrata di cento anni. Dovresti
farti più furba». La mamma sorride, lo prende come un complimento.
L’architetto si rende conto che il comportamento del figlio è
sbagliato, capisce che occorrerebbero metodi drastici, ma non se la
sente di prendere posizione, lascia correre e si adatta ad andare in
tram per cedere la macchina e qualche volta vi sale sopra mettendosi
le ginocchia in bocca. Sa che tutto questo è così perché lui non
s’è imposto fin da quando il figlio era piccolo, con buone dosi di
sculaccioni o anche soltanto con la voce carica di autorità e la
volontà di ottenere ubbidienza.
Certe sere Sergio riempie la casa di
amici: ballano, bevono liquori, invadono le stanze, si sdraiano anche
sui letti. In quei casi papà e mamma escono su invito del figlio:
«Stasera dovete andar fuori – dice Sergio, anche all’ultimo
momento – ho da portar gente in casa. Mi raccomando, non rientrate
prima dell’una». Padre e madre vanno da amici, dopo una
frettolosa telefonata di annuncio. Si trattengono il più possibile,
poi si mettono a passeggiare in centro dove c’è ancora un certo
movimento, sempre guardando l’orologio, sperando che arrivi presto
questa benedetta una. E quando rientrano può capitare che i ragazzi
li ricevano con fischi e urla per il ritorno, a loro avviso
prematuro. E loro rapidamente vanno a chiudersi in camera e magari la
baldoria continua nelle altre stanze.