sabato 3 dicembre 2016

Polaris

Elisabetta, nipote di Remo, ha vinto il concorso letterario Il mio esordio: il suo primo romanzo, Polaris, verrà pubblicato da Newton Compton.

Sono contento che nonno Remo abbia fatto in tempo a leggere questo suo lavoro, pronosticandone il successo.

Congratulazioni Eli, il nonno sarebbe fiero di te!

Daniele Lugli

Note al racconto "Un mestiere"

Faccio riferimento al racconto pubblicato nel post precedente.

Mio padre Remo ha conservato e catalogato, oltre ai racconti, anche i ritagli di tutti i suoi articoli di cronaca e nella collezione non trovo nulla che combaci con questa narrazione, che quindi va considerata di fantasia. Emerge però un senso di rimorso, di disagio che, per essere descritto così realisticamente, probabilmente è stato vissuto. Disagio per certi aspetti di una professione – o mestiere, come lo definisce lui nel titolo – che può costringere a procurarsi informazioni secondo modalità non scorrette ma nemmeno limpide: piccoli sotterfugi, insomma.
Gli fa onore questo suo rimorso per quelle che, tutto sommato, sono ben piccole cose. Devo dire: fa anche un po' di tenerezza se si guarda a ciò che, nel mondo del giornalismo, avviene da sempre e, forse, oggi più di un tempo. Il Pulitzer per il giornalismo è costellato, fino agli anni recenti, di premi contestati per resoconti risultati poi infedeli e tendenziosi, plagio, invenzione. Anche senza andare così lontano, abbiamo sotto agli occhi tutti i giorni esempi di notizie riportate selettivamente o distorte per portare acqua a qualche mulino.
Voglio riferire un minuscolo caso, sul quale sono ben informato perché mi è capitato personalmente. Il giorno successivo alla morte di mia madre arrivò a casa la telefonata di un cronista de La Stampa di cui non voglio ricordare il nome. Alla sua richiesta di informazioni risposi che era gravemente malata da tempo. Era un mese di Luglio particolarmente caldo, e mi chiese se l'afa potesse aver contribuito al decesso. Può darsi, gli risposi un po' stupito per la domanda; l'afa sta dando fastidio a tutti, ha dato fastidio anche a lei.
Il giorno dopo compare su La Stampa questa breve notizia, che riporto testualmente omettendo solo il nostro indirizzo:
Donna stroncata dal caldo
Il gran caldo e l'afa hanno fatto una vittima ieri pomeriggio a Torino. Un'anziana donna di 67 anni, Else Totti, residente in ... è giunta cadavere al pronto soccorso delle Molinette dopo essere stata colta da malore nella propria abitazione poco prima delle 17.
La donna era con il figlio, Daniele Lugli, che l'ha sentita lamentarsi per il caldo. L'uomo non ha tentato invano di soccorrere la madre prima di trasportarla il più in fretta possibile al più vicino ospedale.
Il decesso della signora Totti conferma i giorni difficili che stanno vivendo coloro i quali, in particolare modo gli anziani, sono costretti a trattenersi in città malgrado il gran caldo di questi giorni. Anche ieri chi non ha potuto scappare al mare ed in montagna ha boccheggiato sotto i 36 gradi registrati in pieno centro poco dopo mezzogiorno.
(Lasciamo stare il non di troppo, che rende incomprensibile il secondo paragrafo). Non ha nessuna importanza, e infatti non viene neanche menzionato, il fatto che la signora Totti fosse da anni minata da un cancro; dalla notizia pubblicata risulta invece che è morta perché non ha potuto scappare al mare ed in montagna. Forse non poteva permettersi di andare in vacanza? Una nota di colore per strappare una lacrimuccia al lettore.
(Remo all'epoca era già in pensione ma poté pubblicare, il giorno successivo, qualche riga in termini più aderenti alla realtà).
Che interesse può aver avuto il cronista a stravolgere così la notizia? Non si tratta di politica, non c'è da sostenere le parti di qualcuno contro qualcun altro. Un indizio lo si ricava sfogliando le altre pagine in quella data. A pagina 10 c'è tutta una serie di articoli sul caldo eccezionale: è anche colpa di Saddam che, bruciando i pozzi, avrebbe causato un effetto serra sul Mediterraneo; le fiamme minacciano poderi nel Sassarese; è allarme rosso nei due terzi degli USA; il caldo scatena la violenza, 17 omicidi a New York; e così via.
È molto semplice, mi sembra: la notiziola della morte della signora Totti andava 'pettinata' per renderla coerente con le tematiche del giorno, e quindi più interessante.
Di fronte ad un giornalismo di questo tipo, sì, confermo: mi fa tenerezza il rimorso provato da mio padre (che, nella sua lunga carriera, non ha mai avuto non dico una querela, ma neanche una lamentela da parte di un intervistato) per aver offerto un mazzo di fiori col secondo fine di scattare una fotografia.

 Tutto ciò sia detto, beninteso, senza generalizzare. Di giornalisti corretti, ovviamente, ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno.

Daniele Lugli

domenica 23 ottobre 2016

Un mestiere

La notizia era giunta al giornale solo nella tarda serata: qualche ora prima, nel pomeriggio, in un paese di montagna della provincia, una ragazza di venti anni era morta in circostanze misteriose per un colpo di arma da fuoco al cuore. Al momento della sciagura ella si trovava in compagnia del fidanzato, in un campo isolato da qualsiasi abitazione, a due chilometri dal paese. L'uomo aveva dichiarato che la ragazza, mentre sedeva al suo fianco, gli aveva improvvisamente tolto di tasca la rivoltella e si era uccisa. Simile versione non aveva convinto i carabinieri i quali avevano subito fermato l'individuo. Era una «notiziaccia» da far saltare sulla sedia anche il cronista più indolente: c'erano novantanove probabilità su cento che si trattasse di delitto e un delitto, per quel nostro giornale di provincia, era una inaspettata miniera che ci avrebbe regalato per una mezza dozzina di giorni ottima materia prima. Il direttore mi disse di partire l'indomani mattina presto e si raccomandò che facessi anche molte fotografie.
Arrivai nel paese, con l'automobile, alle otto e, prima ancora di andare a sentire la versione ufficiale della polizia, cercai di avvicinare coloro che conoscevano i personaggi del dramma onde ricostruire i fatti per conto mio.
La storia era abbastanza interessante. La vittima, Maria, faceva la bigliettaia nel baraccone della donna serpente che da una decina di giorni si trovava in paese per la Fiera imminente.
Maria era meridionale; due anni prima si era trasferita in una grande città del Nord assieme ad altre tre sorelle, in cerca di lavoro, e tutt'e quattro si erano
sistemate come donne di servizio. Lei si era fidanzata con un giovane che faceva la guardia notturna. Poi, un giorno, aveva imparato che quest'uomo era sposato e aveva due figli, perciò lo aveva lasciato. E poichè lui insisteva per non perderla, era partita dalla città con il baracccone della donna serpente. La mattina del giorno del fattaccio lui era arrivato in paese e l' aveva avvicinata. C'era chi li aveva visti e sentiti litigare, altri li avevano visti, nel pomeriggio, incamminarsi come due innamorati felici verso la campagna in cerca di solitudine. Più tardi lei era
morta per un colpo di rivoltella.
Quando ebbi riempito d'appunti parecchi foglietti del taccuino e scattato una decina di fotografie sul luogo della tragedia e a coloro che in un modo o nell'altro potevano essere tirati in ballo negli articoli che dovevo fare, andai alla caserma dei carabinieri per ave,re notizie ufficiali e, possiilmente, la fotografia dell'uomo fermato. Mentre mi accingevo a suonare il campanello, sentii alle mie spalle una sonora risata. Mi voltai e vidi Renato, un mio collega redattore di un'agenzia giornalistica. «E' inutile che tu provi», disse, «non ti lasciano nemmeno entrare».
Andai a sedermi sul parafango della sua macchina che era all'ombra della casa di fronte. «Se vuoi una buona notizia», mi disse, «te la do io». Rimasi a guardarlo interrogativamente. «Dentro ci sono le tre sorelle di Maria, che sono arrivate stanotte: le stanno interrogando».
«Caspita», dissi io alzandomi in piedi e mettendo istintivamente le mani sulla macchina fotografica che avevo a tracolla. «Puoi star calmo», disse Renato, «non si lasciano fotografare: ho provato io, prima che entrassero in caserma, ma non c'è niente da fare». Io dondolavo la testa, turbato; pensavo che sarebbe stata una fotografia interessante; se fossi tornato in redazione a dire che avevo visto le sorelle di Maria e non le avevo fotografate, il direttore sarebbe andato in furia. «Sono tre ragazze bellissime» aggiunse Renato scandendo bene le parole, «vestite di nero, con gli occhi arrossati dal pianto, ma bellissime lo stesso».
Avevo la smania nelle gambe e non riuscivo a star fermo. Avrei voluto essere solo e poter fare, in esclusiva, la fotografia delle ragazze, ma la situazione era ben diversa. Renato stava comodamente seduto sul sedile e non dimostrava alcuna intenzione di andarsene; e inoltre la fotografia si annunciava difficile, almeno secondo quanto diceva lui. Sarebbe stato meglio non considerarci concorrenti e lavorare d'accordo, forse così avremmo avuto maggior successo. Gliene parlai e lui acconsentì. Si trattava, ora, di escogitare qualcosa che ci permettesse di fotografare le sorelle di Maria. Ci mettemmo a pensare, in silenzio.
La striscia bianca di sole, nella strada, si andava sempre più allargando, si adagiava già su di un fianco della macchina e l'aria era afosa. «Ho trovato» dissi io a un tratto, «quando escono, ci offriamo di accompagnarle sul posto dove è morta Maria per deporvi dei fiori e intanto che loro posano i fiori noi scattiamo le fotografie». Renato stava dicendo: «Ma i fiori... » quando si aprì la porta della caserma: erano proprio loro, alte belle, vestite di nero, che uscivano. Balzammo dalla macchina e andammo loro incontro. «Se volete che andiamo a portare un po' di fiori dove è successo il fatto... » io dissi, indicando l'automobile di Renato e avviandomi per precederle. Avevano occhi che parevano vuoti, lontani, e i capelli arruffati. Continuavo a tenere il braccio proteso verso la macchina e loro andavano in quella direzione, automaticamente, mute.
L'automobile partì con un sobbalzo nella chiazza bianca e afosa della strada. Io stringevo nervosamente la macchina fotografica. «E i fiori? ...» chiese a un tratto con voce debole una delle ragazze. «Adesso li prendiamo» disse pronto Renato e incominciò a guardare nelle vetrine delle poche botteghe. Ma non c'erano fiorai, lo capimmo ben presto e un fruttivendolo ce ne diede conferma con un'espressione meravigliata; eppure bisognava assolutamente che li trovassimo. Una delle ragazze, al mio fianco, si mise a piangere sommessamente. «Prova a fermarti davanti a quella villa» suggerii a Renato con voce malsicura; e infatti di fianco allo stabile si vedeva, tra il verde, il rosso delle rose. La donna che venne ad aprire il cancello non ne voleva sapere di darmi dei fiori, diceva che ne aveva pochissimi e che la sua padrona li aveva contati. Allora le misi in mano un biglietto di banca e lei tacque e andò a prendere cinque rose.
L'auto partì velocemente e dopo pochi minuti si fermò all'imbocco della carrareccia che portava al luogo della tragedia. Ci avviammo a piedi, in silenzio, sotto il sole pieno. Avevo bisogno di liberarmi le mani per preparare la macchina fotografica e allora allungai i fiori a una delle ragazze che li prese con gesto lento; ma un attimo dopo incominciò a singhiozzare, dapprima piano, poi sempre piu rumorosamente. Eravamo giunti sul posto: io mi fermai e indicai un punto sotto una pianta d'olmo. La ragazza che piangeva lanciò un urlo acutissimo e guardò con occhi atterriti la terra; le sorelle le si appressarono e l'abbracciarono piangendo, poi tutte si chinarono per posare i fiori. «Maria, Maria» incominciarono a gridare all'unisono, «perché sei morta, Maria?» Renato ed io ci scostammo e incominciammo a guardare dentro i reflex delle nostre macchine. Sotto l'albero il sole filtrava tra le foglie e gettava sul gruppo delle donne nere e sulla terra violente chiazze bianche. Le ragazze, inginocchiate, si chinavano ritmicamente a baciare la terra, poi lanciavano al cielo le braccia chiamando disperatamente Maria, quindi tornavano a chinarsi. «Maria, Maria eri la più bella di tutte noi, perché sei morta?»
Inframezzata a quelle grida sentii la voce di Renato, bassa e frettolosa: «Che diaframma. tieni, tu?» mi chiedeva. Io dissi un numero poi gli precisai che poteva andar bene con una pellicola molto sensibile. «Se si spostassero al sole» disse Renato, « queste chiazze rovinano tutto ... ». «Non ti preoccupare» dissi io, «fai conto che sia ombra piena». E continuammo a scattare. Le loro lamentazioni sembrava non dovessero più finire: erano staccate dalla realtà presente, pareva uscissero da una tragedia greca. Quando ebbi ultimato il rotolo mi avvicinai alle ragazze: «Bisogna farsi animo» dissi, «non serve a nulla abbandonarsi a questa disperazione, è peggio».
Renato ed io le sospingemmo con delicatezza verso la macchina. Ci dissero che gradivano andare al parco divertimenti e là le portammo. Quelli dei baracconi vennero in massa a riceverle ed esse, piangendo, dissero che noi avevamo voluto portare dei fiori dove era morta Maria. Allora tutti ci furono intorno, premurosi, e certe vecchie tentarono di baciarci le mani. Noi salutammo in fretta le ragazze e ce ne andammo.
«Se sono venute bene sono una cannonata, queste fotografie» disse Renato, mentre mi accompagnava alla mia auto. «Devono essere belle davvero» dissi io e mi pareva già di vedere, nella pagina, il gruppo nero, scultoreo, delle tre donne inginocchiate sullo sfondo abbacinante del cielo assolato.

Uscito su Stampa Sera – Mercoledì 2 – giovedì 3 Marzo 1955

sabato 22 ottobre 2016

È tutta colpa dell'OCR !

Chiedo scusa ai pochi ma affezionati lettori di questo blog per la vergognosa diluizione delle nuove uscite. Il fatto è che ho ormai pubblicato tutti i brani brevi inediti che ho trovato sul computer di Remo. Restano parecchie centinaia di racconti usciti su Stampa Sera a partire dal 1953, più qualcos'altro su altre testate, ma sono tutti in formato cartaceo.

Mi sono dotato di uno dei più rinomati programmi di OCR (Optical Character Recognition, per estrarre il testo da una scansione) ma, vuoi perché la colla ha fatto increspare i ritagli che Remo aveva raccolto, vuoi perché la carta negli anni è ingiallita, vuoi perché i caratteri sono sbiaditi, i risultati sono deludenti. L'interpretazione del testo risulta così scadente che, in pratica, non c'è nessun vantaggio a correggerla rispetto a ribattere completamente il testo a mano; e questo, ovviamente, richiede parecchio tempo.

Daniele Lugli

domenica 31 luglio 2016

Vengo da Marte

Il disco atterrò nel pomeriggio di una domenica afosa e malinconica, sui prati da fieno di fronte alla mia casa. Sdraiato sull'erba dell'aia, mi stavo rodendo le unghie con rabbia perché avevo appena finito di litigare con mia moglie, in cucina, a causa del bambino che le aveva tutte vinte da lei e cresceva pieno di vizi. Non sentii assolutamente alcun rumore, vidi soltanto un luccichio riflesso e alza gli occhi sul campo. Il disco era enorme, alto come una casa alta, largo quanto cinque campi affiancati, con una calotta di sotto e una di sopra e il bordo esterno alto da terra come due piani. Mi alzai in piedi, stupito. Il mio istinto fu di gridare: «Maria, Maria», ma il risentimento che avevo contro mia moglie in quel momento mi soffocò le parole. Pensai allora a mia madre: mi sarebbe piaciuto che ella potesse vedere ciò che io vedevo; ma mia madre era in città, all'ospedale, e stava male.

Il luccichio del disco era tanto forte che il mio occhio ne era abbagliato; così mi sfuggirono tutte le manovre che gli esseri del disco fecero per uscire. Me li trovai improvvisamente davanti a una decina di metri. Erano in sette o otto, simili agli uomini, ma più armoniosi, bellissimi, tutti alti esattamente alla stessa misura, vestiti d'una specie di cellofàne opaco e aderente alla pelle, solo trasparente sul viso. Ero stupito, ma tuttavia capivo d'avere ancora la mente libera di pensare, di considerare, di ordinare a me stesso la fuga, se lo avessi voluto. Improvvisamente, quando quegli uomini erano a soli tre metri da me, sentii la mente vincolata a qualcosa e dovetti andare avanti, verso di loro. Mi accompagnarono sui prati da fieno, sotto il disco, poi mi fecero entrare, sempre in silenzio. Pochi attimi dopo eravamo già in alto; vedevo, attraverso lo stesso piano su cui posavo i piedi, il nero della terra; poi vidi da una parte e dall'altra della striscia di terra il chiaro dei mari. Mi resi conto che ormai ero lontano decine, forse centinaia di chilometri. Altre terre e altri mari vedevo sulle pareti sfuggenti della sfera che mi stava sotto, smisuratamente lontana.

Volsi gli occhi intorno a me e vidi una stanza senza dimensioni; intuivo che lo spazio del locale era assai limitato, ma non potevo capire dove fossero le pareti. Gli uomini in cellofàne che mi avevano accompagnato a bordo erano ancora intorno a me e mi guardavano. C'era silenzio perfetto, eppure io «sentivo» che loro dicevano che non mi avrebbero fatto del male: mi volevano solo mostrare agli abitanti del loro pianeta. Pensavano queste cose e io le capivo captando i loro pensieri. Questa ricezione, che avveniva automaticamente e senza fatica, mi dava calma e distensione.

Ero in piedi e mi pareva di essere sdraiato, senza peso: non sentivo lo sforzo di ogni muscolo per sostenere il corpo. A un tratto le pareti si aprirono in un'apertura senza contorni e noi, in gruppo, passammo oltre, entrammo in altre stanze, enormi, silenziose come la prima, popolate di altri uomini dei quali sentii i pensieri di meraviglia alla mia vista. Oggetti strani vagavano da soli a mezz'aria e andavano a posarsi sulle mani degli uomini per ripartirne ancora, leggeri e autonomi, quando gli uomini se ne erano serviti.

Pensai a Maria. Se l'avessi chiamata seguendo il mio primo impulso, avrebbe visto che ero finito sul disco. Così, invece, non sapeva niente e certo non sarebbe stata capace di immaginare il motivo della mia scomparsa. Pensai anche a mia madre, ma il mio pensiero fu tagliato a un tratto da altri pensieri che non erano miei ma degli esseri che mi stavano intorno, lo capivo bene. Erano pensieri a me diretti e che io ricevevo: mi mostravano, come su di un vastissimo schermo da televisione, il nuovo pianeta, visto in lontananza, poi più vicino, infine nei particolari fisici; lo schermo si ampliava sempre più, mi sembrava di entrarci dentro e allora sentivo la vita degli esseri che lo abitavano, mi pareva di essere perfetto, purificato, leggero.

* * *

All'arrivo trovai quello che già i miei ospiti mi avevano annunciato con il pensiero: un pianeta esattamente sferico, un suolo liscio e duro come l'acciaio levigato, un'atmosfera tersa, immune da perturbazioni, la natura e gli uomini estremamente vicini alla perfezione.

Gli uomini che mi avevano prelevato dall'aia della mia casa mi accompagnavano ora in visita al pianeta. Era un viaggio meraviglioso perché ovunque io guardassi vedevo cose piene di armonia, di bellezza, di arte sublime. Il pensiero aveva una forza poderosa: con esso gli uomini spostavano il loro corpo e ogni altro oggetto nello spazio con una rapidità strabiliante. Il pensiero era anche creatore di innovazioni che servivano ad accorciare la già tanto breve distanza della perfezione massima. E quando il pensieri si esauriva, gli uomini si autodissolvevano; dalla loro scomparsa nasceva un nuovo piccolo essere con rinnovata energia. Non esisteva dolore perché non c'erano sentimenti legati alle cose fisiche; c'era solamente uno stato di perenne gioia e di beatitudine che veniva dalla perfezione di tutte le cose.

Il tempo passava ma io non l'avvertivo. Trascinato dal pensiero dei miei ospiti giravo per il pianeta e gli uomini mi guardavano con i loro meravigliosi occhi dai quali scaturivano sguardi di dolcezza e di serenità. Ero affascinato da tutte quelle cose straordinarie, eppure di tanto in tanto pensavo a mia moglie, al mio bambino e a mia madre. Ci pensavo sempre più frequentemente. Provavo in me una tenerezza infinita per Maria e un rimorso profondo per quelle parole aspre che le avevo detto quel giorno durante la lite per Giancarlo; poi avevo in mente mia madre che era all'ospedale e forse peggiorava. Pensavo: «Ma perché questa gente non mi riporta sulla terra?» Allora i miei ospiti mi additavano, con il pensiero, ai loro simili: «Lui e tutti gli altri della terra sono ancora schiavi della parola e del dolore, dei sentimenti e della forza fisica. Hanno un pensiero incapace di agire”. Pensavano questo di me, ma non mi disprezzavano, mi amavano, piuttosto. «Resta» mi dicevano col pensiero; «se resti supererai in un attimo milioni di anni nel cammino della perfezione, il tuo pensiero diventerà forte della forza che c'è nell'universo intero, il tuo corpo si perfezionerà, la tua mente saprà creare cose meravigliose».

Ero commosso. Mi attraeva enormemente quell'atmosfera di perfezione, ma intanto mi pareva di vedere, al posto dell'armonioso paesaggio che mi circondava, l'aia di casa mia, verso sera, e Giancarlo che giocava col cane intorno ai cumuli di paglia. Poi i miei occhi entravano in cucina a cercare Maria. Maria era brutta, aveva due denti sporgenti e non sapeva educare nostro figlio, ma era buona e io le volevo bene. E volevo bene anche a mia madre che era all'ospedale. «Se tu scenderai sulla terra» pensavano gli uomini che mi accompagnavano, «andrai ad assistere alla morte di tua madre, alle malattie di tuo figlio, e ciò ti addolorerà». Era estremamente bello, guardare il paesaggio, sentirsi senza peso e immerso nella poesia, sapere che tutti avevano solo in sé della gioia, eppure io pensavo a mia madre, a Giancarlo e a Maria e mi sentivo già disposto a piangere la morte e le malattie perché sapevo che in seguito avrei raggiunto, a poco a poco, la tranquillità e la letizia. E la mia mi sembrava dovesse essere una letizia diversa da quella che si trovava ovunque, con facilità, su quel pianeta. Mi ricordai anche del giorno in cui era morto mio padre, dei pianti disperati che avevo fatto e della bontà che avevo sentito venirmi nell'anima via via che il dolore scemava.

Allora pensai intensamente al disco che mi aveva portato sul nuovo pianeta. Gli uomini che mi circondavano dissero col pensiero che avrebbero esaudito il mio desiderio e mi condussero per meravigliose distese di luci di ogni colore. A un tratto fummo davanti al disco, poi entrammo.

* * *

Atterrammo sugli stessi prati da fieno davanti a casa mia. Era una mattina piovigginosa e fredda. Trovai Maria nella stalla, intenta a dare fieno alle bestie. Mi guardò a lungo, stupefatta; poi, prima ancora di chiedermi dov'ero stato, mi disse che Giancarlo era a letto, con la polmonite, e che mia madre era morta.

Sentii le gambe vacillare e un desiderio violento di mettermi a piangere. E quando il pianto mi sgorgò improvviso, mi parve che mi purificasse dentro, che mi facesse bene.

Era una conquista, quel pianto, io lo sentivo; e sapevo che dopo avrei trovato la serenità.

Uscito su Stampa Sera di Lunedì 1 - Martedì 2 Novembre 1954

lunedì 13 giugno 2016

Un nuovo blog per Else

Invito i lettori a visitare http://elsetotti.blogspot.it, il nuovo blog dedicato alla poesia e alla pittura della moglie di Remo.

giovedì 2 giugno 2016

Un'intervista al grande Enzo Ferrari

Riordinando la documentazione dei miei servizi da inviato mi è capitato di riascoltare la registrazione di un mio colloquio con Enzo Ferrari. Emozionante rievocazione. La data: 5 settembre 1975. Il direttore della Stampa, Arrigo Levi, mi aveva mandato a Maranello per sentire il grande padre della Ferrari. Era un momento cruciale. Tre giorni dopo, domenica 8, a Monza si sarebbe corso il Gran Premio d'Italia e il settore sportivo dell'azienda era pieno di promesse, ma il settore industriale era in crisi, con quasi metà delle maestranze in cassa integrazione. L'imminente gara fu poi un trionfo con la doppietta di Niki Lauda e Clay Regazzoni e la conquista dell'undicesimo campionato mondiale conduttori (ed erano così 21 le vittorie di campionato del mondo tra marche e conduttori totalizzate), ma in quell'incontro io dovevo parlare con Ferrari dell'aspetto industriale, della crisi.
Il rincaro della benzina a partire dai primi anni Settanta e la limitazione della velocità avevano rallentato le vendite: c'erano in stoccaggio 470 vetture, un numero enorme per un'azienda che aveva una produzione di sette-otto macchine al giorno. L'argomento non era gradito a Ferrari e molto gentilmente mi spiegò perché. Non era cosa di cui si occupasse. Dal '69 c'era stato l'ingresso della Fiat nell'azienda della quale era stato nominato presidente, con pieni poteri solo per la parte sportiva e completa estraneità al settore produttivo. Diceva: «Ho ottenuto un vitalizio, posso fare quello che voglio nel campo delle corse, mentre in quello industriale non voglio metterci mano: è roba che scotta, io non ho nessuna responsabilità, né amministrativa né tecnica, do solo dei suggerimenti quando me li chiedono. Certo, in questi giorni mi trovo in una particolare situazione: il direttore generale ha dato le dimissioni la settimana scorsa e quello nuovo non ha conoscenze per poter parlare. Si rivolgono a me ma io non so rispondere, sulle gran turismo posso esprimere soltanto delle opinioni personali, niente di più».
Si fece presto ad esaurire il tema ufficiale dell'incontro, poi si passò al colloquio informale, a ricordare il passato. La mia ormai ventennale lontananza da Modena mi rendeva curioso e lui con piacere incominciò ad aprire le pagine dei suoi ricordi. Saltò fuori che avevamo fatto la prima comunione tutti e due nella stessa chiesa, Santa Caterina, lui 22 anni prima di me, con don Morandi, io con don Boni. Parlava con una scioltezza che incantava impreziosendo il racconto con incisi dialettali. «Ormai mi considerano un po' come un monumento, un monumeint che quand a cunvin al s'invoca e quand an cunvin brisa a sec pessa a dos». Incominciò a parlare di personaggi, dando di ognuno rapide pennellate che in una sola frase ne presentavano aspetto carattere pregi e difetti. Bersagli preferiti erano giornalisti, una categoria che l'aveva sempre attirato: «Se avessi studiato avrei fatto il giornalista». Per lui i giornalisti si dividevano in due categorie: quelli che hanno già un'idea precisa, si sono prefabbricata una opinione del personaggio da intervistare e indipendentemente dalle risposte ricevute ne ricavano un testo che dà ragione ai loro preconcetti; gli altri, che vengono a porre delle domande di estrema ingenuità e in tal modo invitano la persona intervistata ad una comunicativa aperta, indifesa. Un esempio dei primi: «YX viene qui, gli dico se vuole vedere la fabbrica e lui risponde che non gli interessa la fabbrica, vuole parlare con Ferrari per venti minuti. Ma che concetto si può fare di una persona se prima non conosce bene le opere che ha promosso? YX fa delle interviste divertenti, sì, ma non sono sincere, non è quella la verità».

 Di queste divagazioni Ferrari si compiaceva. Si divertiva anche lui come chi l'ascoltava. Ma in quel nostro incontro del '75 d'un tratto si fece serio, ritornò ad essere quello che lui rappresentava su quella poltrona nello stabilimento di Maranello. Riprese il tema iniziale, motivo della mia presenza. «Lei dice che il sindaco di Modena Bulgarelli ci critica perché non produciamo una macchina di media potenza che possa interessare una vasta fascia di clienti. Le spiego: produrre una macchina sui duemila di cilindrata vuol dire affrontare un costo molto alto per progetti, ricerca, e prototipi da distruggere per dimostrarne la sicurezza in fase di omologazione, tutto questo per poi venderla solo sul mercato italiano, al massimo in 250-300 esemplari: una quantità irrisoria, i conti non tornerebbero. Noi dobbiamo pensare a un mercato più vasto, cioè al mondo, dove è il maggior numero dei nostri clienti. I quali vogliono da noi una Ferrari come siamo soliti proporre, potente e fuori dal comune, la grande Ferrari».

domenica 8 maggio 2016

Ca-125

Guardavo occhieggiare le vampate rosse del fuoco, nel buio della sera, in fondo al giardino. Bruciavano le foglie secche che Luigi aveva rastrellato per fare pulizia nel prato. Ma con le foglie bruciava anche quella grande custodia azzurra gonfia di cartelle cliniche, tabulati, lastre, ricette. Era rimasta per mesi nascosta in un armadio nella camera degli ospiti. In casa non c'era, non doveva esserci. Tutto quel materiale – per lei – era rimasto in clinica o nello studio di qualche specialista: lei non doveva vederlo, perché sapevamo, mio figlio e io, che non voleva conoscere la verità. E in quella cartella azzurra la verità c'era, drammatica, inesorabile, con il nome preciso di una malattia e una sigla, Ca-125. Sigla che, ad ogni esame di laboratorio, il nostro occhio correva a cercare per sapere come procedeva l'evoluzione distruttiva della quale era l'indicatore specifico.
Per lei la malattia, come le era stato spiegato, era un malanno di poco conto, però noioso per l'incapacità del sistema immunitario di farvi fronte. Istintivamente non cercava di approfondire: lei, che grazie anche alla sua cultura scientifica aveva sempre avuto doti intuitive in campo medico, si adagiava alle spiegazioni di ripiego. Si limitava a lamentarsi per il protrarsi delle cure e per l'inarrivabile giorno della guarigione.
Per noi che sapevamo, al dolore e all'angoscia si aggiungeva un senso di colpa, a causa del segreto che dovevamo custodire e dell'impossibilità di sovvertire l'infausto corso degli eventi. Sentivamo quell'impotenza come un tradimento. Ci affannavamo consultando specialisti in città e altrove, i migliori, ma ne avevamo sempre risposte senza speranza. Disarmati, con l'animo immerso nell'angoscia, dovevamo avere l'aria non preoccupata, cercare di parlare di tutto, anche di cose insignificanti, e del futuro, con la consueta sicurezza, come quando si era ignari. Costava una fatica terribile. Sentivamo il peso schiacciante della conoscenza dell'imminente futuro. Ci si rendeva conto di quanto l'uomo sia fortunato a non sapere che cosa gli accadrà domani.


Cercavo di evitare di parlare del passato: temevo di essere travolto dalla commozione e di scoppiare in pianto. Perché in ogni momento il nostro passato mi era sempre nella mente: tutta la nostra unione, la nostra vita insieme che era stata armoniosa e felice, mi si svolgeva davanti agli occhi della memoria come un film. Parlavo delle cose più varie del momento, la casa, le nipoti, l'automobile, il cane, la spesa e intanto mi ricordavo di immagini, scene, attimi lontani cui da anni non pensavo. Mi sembrava di estrarli, senza intenzione, automaticamente, da una sacco magico che nemmeno sapevo più di avere e che sentivo ricco, pieno. Ogni rievocazione mi dava una gioia e al tempo stesso una tristezza, uno struggimento, una commozione infiniti. E di notte, solo nella mia camera, in lunghe ore di insonnia, in genere a partire dalle tre o dalle quattro, questo film del nostro passato mi girava in continuazione davanti agli occhi del ricordo. Rivedevo noi entrambi giovani, lei bellissima e di una vitalità esuberante, gli slanci, l'amore, il senso del dovere, la bravura nell'insegnamento, nella pittura, nella poesia, i riconoscimenti, i premi. Mi risuonavano all'orecchio versi: "Quando mi porti sulla bicicletta / incontro alle immagini verdi / dei campi e la tua bocca al mio orecchio / si adagia / e dici parole nel vento d'estate, / oh, allora / come sento di vivere calda / fra le tue braccia calde. / Come la morte è lontana!". E poi la famiglia, il figlio, la casa, la gioia delle nipoti. Ancora versi, questi per Elisabetta, la prima: "Ricorderai di me queste vecchie / mani che tentano una carezza? / Questo sguardo che segue lento / il tuo agile corpo nel sole? / Le mie parole sussurrate / nel brusio del motore / quando ti porto a scuola? / Le mie parole, le mie parole / ti possano rimanere. E la mia voce / che sappia risorgere nel tuo cuore, / se mai sarai sola, un giorno". E ancora: "Mi si chiude il cielo / se il tuo piccolo passo / non scende le scale / e il tuo grido di gioco / non mi rincorre. / Le ore vedo passare / come immobile vecchio / che attende una rondine / nel suo lungo inverno".
Queste rievocazioni di lei, di noi, del nostro mondo erano un misto di dolore e di gioia: lacerazioni e lenimento, ma si concludevano quasi sempre nel pianto. Poi, stremato, m'addormentavo quando ormai era l'ora d'alzarsi. Bisognava affrontare un'altra giornata, difficile come tutte, piena di timori e di cautele, senza un barlume di speranza.
Nessuno in casa citava mai i nomi di quella malattia, nelle sue varie forme. Se l'argomento si affacciava alla Tv, con una scusa si cambiava canale e nessuno, neanche lei, protestava. Altrettanto con il giornale, si era svelti a voltar pagina in vista di un titolo scabroso. Aleggiava sempre su di noi questa cappa opprimente del dolore per la nostra consapevolezza e del timore che qualcosa o qualcuno potesse infrangere l'equilbrio fragilissimo che manteneva lei nell'incoscienza del reale e su un'onda tenue della speranza. Ma non v'è dubbio che doveva vivere una continua battaglia tra conscio e inconscio, tra quello che sapeva o intuiva e quello che temeva e non voleva sapere.
Una volta sola aveva perduto il controllo di quel suo fragile equilibrio tra il sapere e il non sapere. Era d'estate, due anni prima della sua ultima estate. Eravamo in montagna, soli, distesi su una coperta in mezzo a un prato, ad abbronzarci. Di fianco a noi qualche indumento, la sua borsetta, un libro, il giornale che avevo comperato uscendo dal paese e non avevamo ancora guardato; ma io, buttandolo sui sedili posteriori dell'auto, avevo fatto in tempo a scorgere un grosso titolo in prima pagina: la morte di un signora, notissima manager di un ente privato. Non mi decidevo a prendere in mano il giornale per non dover dire che era morta quella signora, che anche lei conosceva di fama; perché avrei pur dovuto parlarne in quanto il silenzio, di fronte a una simile notizia, sarebbe risultato ancora più falso e imbarazzante.
Fu lei che a un tratto si sedette e lo aprì. Fu la prima cosa che lesse e subito urlò e si mise a piangere gridando «anch'io, anch'io, sono malata così anch'io, dovrò morire, morire, morire...» e piangeva disperata. L'abbracciai, la strinsi forte, mi sentii il petto bagnato dalle sue lacrime. Pure io avrei voluto abbandonarmi, ma dovevo assolutamente aiutarla, difenderla, dovevo ribadire la tesi detta tante volte, che la sua non era una di quelle malattie anche se certe cure potevano farlo pensare. E via di questo passo, arrampicato sui vetri del convincimento, della persuasione, sempre più lisci, improponibili.
Passavano i mesi e la guarigione non arrivava, anzi, le condizioni si aggravavano. A volte, quando sentiva avanzare il peggioramento, veniva alle prime luci dell'alba a sedersi in una poltrona a fianco del mio letto, mi guardava con occhi nei quali c'era angoscia e terrore, mi chiamava con voce implorante e mi chiedeva: «Come andrà a finire? Come andrà a finire?» Quant'era difficile dover sostenere ancora una volta le solite bugie, dover fingere che sarebbe andata a finire bene e non poterla invece abbracciare, gridare il suo nome, Else, Else, amore mio, e piangere con lei senza ritegno.
Finalmente fuori casa, in auto, solo, potevo lasciare esplodere il dolore e scoppiavo in pianto, navigavo nel traffico con gli occhi pieni di lacrime. Faticosamente, con molti rischi, arrivavo ai semafori dove potevo asciugarmi e soffiarmi il naso. Allora m'accorgevo d'avere intorno a me, al di là di altri finestrini, sguardi stupiti. Ma per me era uno sfogo indispensabile; solo così, rincasando, potevo continuare la mia difficile, penosa finzione.


Guardavo il rosso di quel fuoco, nel buio della sera. Era l'inizio d'autunno, il primo autunno senza di lei. Bruciavano le foglie secche e anche la cartella con tutto il suo percorso del male. Avevamo esitato a lungo, mio figlio ed io, su quelle lastre, quelle sigle. Non potevamo far altro che constatare che erano la testimonianza della sconfitta nostra e dei medici che se ne erano occupati. Se i grafici e i risultati che via via si allineavano sui fogli e nel tempo avessero portato ad una miracolosa vittoria, avremmo dovuto, allora sì, conservare ogni pezzetto di carta, ogni piccolo passo verso la mèta finale. Così no. E avevamo affidato la cartella all'uomo delle foglie. Mi sembrava che anche lei approvasse e fosse grata di quel fuoco.


sabato 23 aprile 2016

Qualcuno alle spalle

Finito di cenare, il bracciante Amilcare Berri si levò da tavola e salutò la moglie che stava lavando i piatti e la figlia Irma di dieci anni che si accingeva in quel momento a fare il compito di scuola. Sulla soglia, mentre s'alzava il bavero del cappotto, disse che andava a fare la solita partita a carte. Ma come fu fuori non voltò a destra verso il paese: s'incamminò sulla strada in direzione del fiume. Sapeva lui dove voleva andare. La nebbia era fittissima; non c'era ancora stata, in quell'inverno, una serata di nebbia così intensa. Appunto per questo il bracciante camminava in direzione del fiume. Nella tasca sinistra del cappotto stringeva un piccolo rotolo: erano tre pellicole fotografiche che aveva trovato fra le altre cianfrusaglie nel granaio del farmacista il giorno che ci aveva accatastata la legna. Le aveva raccolte pensando che gli sarebbero servite per fare quello che voleva fare. Adesso, mentre camminava a fatica in mezzo alla nebbia, stringeva o rigirava fra le dita il rotolo, nervosamente. Era giunto il momento di servirsi di quella celluloide.

Una automobile, proveniente dalla parte del fiume, avanzava a velocità ridotta; si sentiva il rombo del motore e ancora non si vedevano i fari, poi la luce riuscì a fare una macchia chiara nella nebbia, la macchia si divise in due punti bianchi dai quali partivano due coni allungati color argento. Il rumore crebbe, crebbe ancora, la luce argentò la nebbia della strada e quella dei campi al di là delle siepi; poi, all'improvviso, tornò buio. Amilcare Berri continuò ad andare avanti: oltrepassò il cancello della villa Verde, poi raggiunse il ponte sulla Fossa Larga. Da questo punto cominciò a contare i passi; ne contò trenta, quindi si fermò sulla parte sinistra. Aguzzando la vista vide nella siepe il foro che egli conosceva. Passò nei campi e si incamminò lungo il filare degli olmi. Ora non poteva più perdersi, anche con gli occhi bendati sarebbe arrivato alla casa di Martino.

La nebbia si posava sulla sua faccia come una polvere fredda e attaccaticcia e la terra, sotto i piedi, gli era tenera e pesante. Sulla strada passarono, in bicicletta, due giovani che cantavano a squarciagola, poi il loro canto fu sommerso dal rumore di un autocarro. Amilcare andava avanti con passo deciso, si sentiva anche abbastanza tranquillo; ma nella gola aveva un senso di secco che lo costringeva a deglutire spesso. Improvvisamente, quando ancora non se lo aspettava, si trovò davanti a una macchia ancor più scura del buio della notte: era la casa. Si fermò: sentiva il respiro farsi rapido e pensò che doveva star calmo. Aveva atteso per tanto tempo quel momento ed ora non doveva proprio agitarsi, assolutamente. Davanti a lui c'era la parte posteriore della fattoria, con il porticato pieno zeppo di paglia e di fieno che faceva corpo con la stalla e, più avanti, con l'abitazione. Cautamente, cercando di non far scricchiolare gli sterpi sotto i piedi, avanzò lungo il fianco della casa rimanendo ad una certa distanza da essa e si andò a fermare al riparo di un cumulo di legna. Sporgendo un poco la testa vide di fronte a sé, al piano terreno, la finestra della cucina. La luce che usciva dai vetri gettava un alone chiaro nel cortile. Il Berri guardò con tutta l'attenzione possibile nella finestra. Nonostante il fumo che c'era in cucina, si vedevano abbastanza chiaramente, seduti intorno alla tavola, Martino e i suoi tre figli. Evidentemente stavano giocando a carte perché ogni tanto alzavano la mano portandola poi con rapidità al centro del tavolo. Martino, che era di fronte ai vetri, era in maniche di camicia e col gilè; si vedevano bene anche i suoi baffi lunghi e spioventi.

Amilcare Berri sentì come un mulinello nello stomaco e gli venne fatto di stringere i denti. Il suo odio, per tanto tempo represso, avrebbe potuto finalmente sfogarsi perché Martino era nelle sue mani, adesso. Ripensò alle angherie subite; rivide il contadino mentre gli diceva che doveva licenziarlo; rivide se stesso chiedere, tante volte, i molto soldi che doveva avere e Martino e i suoi figli che dicevano di no, che non gli avrebbero dato niente e lui che insisteva. Sempre così, per tanto tempo. A casa, allora, l'Irma era ammalata e non si sapeva come curarla.

Erano nelle sue mani, adesso, Martino e i suoi figli. Strinse con forza il rotolo delle pellicole e con l'altra mano cercò nella tasca della giacca la scatola dei fiammiferi. Sarebbe tornato dietro la casa, avrebbe infilato la celluloide tra la paglia e poi l'avrebbe incendiata. Gli pareva già di vedere le fiamme divampare e lanciare bagliori rossastri nel buio ovattato di nebbia. Loro, in cucina, avrebbero visto e sarebbero usciti di casa urlando. Poi la lotta col fuoco, l'affannosa corsa a chiamare i pompieri, l'urlo della sirena, i muggiti disperati delle vacche. Stringeva in una mano la celluloide e nell'altra i fiammiferi: nelle sue mani c'era la possibilità di far succedere tutto questo. Poteva farlo anche subito, se voleva. Ma Amilcare preferiva aspettare. Gli piaceva pensare alla scena che sarebbe seguita e gli piaceva anche pensare che, se avesse voluto, avrebbe potuto lasciare le cose come stavano: il buio incontaminato, gli uomini intorno alla tavola che continuavano pacatamente a giocare con larghi gesti delle braccia, la notte senza urli di sirene né muggiti di buoi. Aveva in pugno il destino, poteva farne come voleva. A casa, sua moglie a quest'ora stava rammendando e l'Irma faceva il compito di scuola; stava bene, adesso, l'Irma, e le due donne non avevano più fame perché lui un posto buono l'aveva trovato, a dispetto di Martino.

E ancora rivide i lunghi baffi del vecchio che sussultavano mentre diceva che non gli avrebbe dato nemmeno un soldo. SI ritrasse dietro il cumulo di legna e stette un poco immobile, senza pensare. La nebbia era sempre pesante e scabra. Sulla strada che scendeva dall'argine e che passava davanti alla casa non si sentiva un passo. Il silenzio che si allargava nel buio aveva una sua dolcezza che sembrava fatta di fredda umidità e di odore di terra.

Lentamente, in punta di piedi, Amilcare Berri si portò dietro la casa. Il fieno era davanti a lui, lo toccò con esitazione e lo sentì bagnato; le mani si ritrassero in un gesto timoroso, ma subito dopo incominciarono a scavare furiosamente con le dita adunche per fare una nicchia. All'interno del cumulo il fieno era asciutto e sembrava caldo. Il bracciante provò la sensazione che qualcuno alle sue spalle stesse per piombargli addosso; sentì anche per il corpo un brivido che non era di freddo, ma riuscì a dominarsi. Srotolò la pellicola e la mise nel foro poi, con un fiammifero, la incendiò. Come vide la fiammata della celluloide si voltò e fuggì per i campi per fermarsi poi a una cinquantina di metri dalla casa, dietro a un albero.

Con gli occhi chiusi rimase a lungo ad ascoltarsi il cuore. Quando li aprì vide nel fienile una chiazza rossastra. La macchia s'allargava verso l'alto, diventava sempre più vivida, poi si alzarono da essa fiammate che disegnarono tutti i contorni del portico. Il bracciante, stretto a un tronco, ascoltava il crepitio continuo che veniva dal fienile e guardava la luce che ora forzava la campagna e ad uno ad uno strappava dal buio gli alberi spettrali avvolgendoli nella nebbia rosa. Una voce nel cortile gridò «al fuoco» e lacerò il silenzio; era la voce di Martino. Altre ne seguirono, acute, disperate; e poi muggiti. Era tutto come lui aveva previsto. Sarebbero venuti anche i pompieri con la sirena e altri contadini. La sirena, dapprima debole e lontana, avrebbe via via forzato la nebbia e sarebbe diventata un urlo stridente.

La luce avanzava sempre di più nei campi e il bracciante pensò di andarsene. Incominciò a camminare adagio, senza paura, ma poi affrettò il passo, si mise a correre e gli parve d'essere inseguito; capiva che ciò non poteva essere, eppure cercava d'andare più forte che poteva e pensava anche, correndo, che era contento di essersi vendicato. A casa le sue donne non avevano fame e Irma non era più malata e lui aveva un posto buono, mentre la casa di Martino stava bruciando.
Arrivò ansimante e accaldato. Il portone, al pianterreno, era in fessura, nella loggia c'era la luce accesa e si udivano voci; esitò un attimo poi spalancò l'uscio: c'erano uomini e donne di quella stessa casa e di altre case vicine. Come lo videro entrare tutti tacquero e lo fissarono. Ci fu un attimo di silenzio, pesante. Un uomo, infine, disse:

– È successa una disgrazia, mentre andava alla fontana a prender acqua.

– Chi? – gridò Amilcare fissando l'uomo con gli occhi sbarrati.

– L'Irma – rispose l'uomo. – È su; adesso aspettiamo l'ambulanza.

Il bracciante fece le scale di corsa. Nell'appartamento c'era altra gente. Sua moglie piangeva di fianco al letto sul quale Irma giaceva con il viso lacerato e insanguinato, le vesti stracciate e una larga ferita a una gamba. Respirava, ma non capiva niente.

– L'ambulanza, l'ambulanza, quando arriva l'ambulanza? – gridò Amilcare.

– Sono andati a chiamarla – disse una donna.

Un'altra donna si mise a imprecare contro l'automobilista che era fuggito senza fermarsi a soccorrere la bambina.

– Ma perché, perché è successo? – si mise a chiedere Amilcare con voce disperata coprendosi il volto con le mani.

– Andava a prendere acqua alla fontana – rispose sua moglie tra i singhiozzi.

Si udì a un tratto in lontananza un urlo di sirena. Sembrava facesse fatica a forzare quella nebbia, ma tuttavia aumentava, si faceva più vicino, diventava lacerante.


– Arriva l'ambulanza – disse una donna e si avviò abbasso per andarla a vedere.

(Questo racconto è uscito sulla Gazzetta dell'Emilia del 24 Dicembre 1953 e su Stampa Sera di Lunedì 10 - Martedì 11 Maggio 1954; è stato in seguito incluso nella raccolta Il piano di sopra, pubblicata da Mondadori nella collana La medusa degli Italiani nel 1957).

domenica 3 aprile 2016

È tempo di parlare


È tempo di parlare, fratello,
ora che torna dai campi
l’odore di freddo, di buio e d’incenso
e la tua mano ancora mi dice
dolcemente tra i capelli,
come in quella sera di dicembre,
un misterioso linguaggio d’addio.
E’ tempo di parlare,
ora che gli anni si perdono
fra le ombre della memoria
e il lontano passato
ritorna presente.
Tutto mi nasce intorno come allora:
le immense stanze della casa,
le màcine, il grano, le mole,
le macchine ferme in attesa dell’alba;
l’acqua impetuosa che preme
alle paratie chiuse delle turbine,
e fugge giù per gli sfioratori
facendo tremare le pietre;
e i cavalli che ràspano, di tanto in tanto,
nelle stalle dove non sanno trovare
il sonno dei giorni colmi di fatica;
e le campagne buie,
odorose d’incenso e di freddo;
e la grande cucina, nera di fumo,
con gli amici che ridono e ballano
sulle note velate dei violini;
e tu, in un angolo, seduto
sulla vecchia poltrona del nonno
con un viso terribilmente triste;
e il mio presago pianto di bimbo
che spengo a tratti sulla tua spalla
mentre alzi la mano per dirmi,
dolcemente tra i capelli,
quel misterioso linguaggio d’addio.
È tutta l’Ampèrgola d’allora,
di quella notte d’inverno
che vide bruscamente
finire la mia fanciullezza.
Poi le note spezzate del valzer
e il tuo nome di bocca in bocca
nel silenzio delle vaste stanze,
nelle fredde corsie del mulino:
perché tu non sei più
sulla vecchia poltrona del nonno
e non rispondi ai richiami
e non cheti l’ansia
che nei cuori ha l’impeto
dell’acqua possente.
Gli uomini cercano adagio
per non svegliare la madre,
ma tu non rispondi
e solo rimane nell’aria
l’eco continua di un nome.
Tremenda è la notte che racchiude
il mistero della vita e della morte,
quando si teme di trovare
al di là di ogni passo
la realtà dell’incubo che opprime.
Così pare che l’alba debba venire
da una lontana notte polare.
Ma la prima timida luce
scopre il tuo corpo a galla
tra le scroscianti onde del fiume
che galoppando fuggono
verso lidi lontani.
E’ impigliato in qualcosa
che ancora lo tiene
legato alla casa
e l’acqua lo culla
per tenero gioco.
Non ha principio né fine
il grido materno
quando sei steso
sulla branda di legno
e gli uomini immobili
ti fanno corona
E’ il grido che sgorga dalla terra
e s’alza alto nel misterioso cielo
che non sa dare risposta.

Gli anni si sono persi
fra le ombre della memoria,
ma il perché della tua morte
sempre è rimasto sospeso su noi
e ancora invano cerchiamo
una parola che plachi
il grido della madre.
È tempo di parlare, fratello.
Ora che torna dai campi
l’odore di freddo, di buio e d’incenso
io ti chiedo di svelarmi l’arcano.
Lo so che non ci saranno misteri
quando anche per me s’aprirà
la grande giornata,
ma allora tutto si scioglierà
nell’infinita conoscenza.
Voglio saperlo adesso
che l’anima mi si rode nel corpo
e siamo fermi alla notte di dicembre
in attesa dell’alba.


      (1946)

martedì 29 marzo 2016

Ancora dalla tesi di Elisa Dagnilevschi

La qualità, per cui Remo Lugli si segnala ed emerge tra il gruppo di narratori emiliani del secondo dopoguerra è, per definirla al modo di Alberto Bevilacqua, quella «di saper dare al romanzo o al racconto una costruzione risolta non già attraverso più o meno mascherati residui di lirismo [...], ma grazie ad una robusta inventiva ed a una tensione psicologica» che Lugli mantiene alta per tutto il corso della narrazione attraverso il fine utilizzo della suspense, scoprendo pian piano i personaggi nel vivo del loro dramma.
Un magistrale uso della suspense si segnala soprattutto nel secondo romanzo di Lugli, La colpa è nostra, dove «la lunga scena del ritrovamento del cadavere di Enrico [è] tenuta per una cinquantina di pagine con tensione e bravura notevoli», come nel 1960 Vittorio Sereni, già citato precedentemente, aveva notato. La descrizione dettagliata della modalità di recupero del corpo presunto di Danilo aumenta il sentimento d’attesa nel lettore, fino a quando la scoperta da parte del narratore che il cadavere è in realtà quello di Enrico scioglie la tensione: «A un tratto emerse la faccia e io lanciai un urlo e mi ritrassi con un balzo. Era Enrico, il morto, non Danilo».
I personaggi di Lugli, intricati in una fitta rete costituita da superstizioni, egoismi, avidità e sospetti, si svelano gradualmente mettendo a nudo le proprie debolezze. Le storie che li vedono protagonisti dimostrano la precarietà di una vita considerata spesso una condanna, piuttosto che una possibilità giacché essi preferiscono l’individualismo, la vendetta e perfino la morte al pentimento e alla solidarietà. La fragilità umana scaturisce prepotentemente dalle vicende narrate da Lugli, dove raramente l’individuo emerge come vincitore.
I tipi di Lugli, insicuri e indecisi, intraprendono nel corso del romanzo o dei racconti un cammino di conoscenza e consapevolezza di sé, che nella maggior parte dei casi è stimolato da eventi esterni (la morte di un famigliare, un incontro o un evento inaspettato, una disgrazia, ecc...). I personaggi, spesso sconvolti da ossessioni e drammi personali, sono sollecitati da un’inquietudine che li anima nella ricerca del senso della propria vita (Le formiche sotto la fronte) o della verità (La colpa è nostra).
Ancora, in Il piano di sopra è evidente che l’attenzione dell’autore si rivolge al mistero che vela la vita dell’uomo. L’autore si serve della geografia emiliana «non più solo in modo simbolico, [...] cronistico, documentario [...], quanto con arte meno allusiva o pittorica, e più intima, meno fumosa, indistinta [...] e meglio attenta a quel tanto di mistero».
Il peso del destino che grava ineluttabile sull’uomo non è più svelato come quello di Berto in Le formiche sotto la fronte, ma è nascosto tra le alterne vicende umane raccontate da Lugli nei racconti de Il piano di sopra. Ricerca dell’identità, insoddisfazione, tradimento, ossessione, speranza, morte sono solo alcuni dei temi di questa raccolta. Attraverso l’analisi di tali tematiche l’autore indaga l’animo umano superando la mera descrizione dell’ambiente a favore della rappresentazione di personaggi egoisti e irrequieti.
Lugli invita il lettore a non fermarsi all’apparenza, ma a ricercare le vere ragioni, i desideri, gli istinti che guidano l’agire umano. Particolarmente esemplificative a riguardo sono le parole di Lugli pubblicate su “Il Caffè”: «Le vicende di questa mia gente cercano d’avere talvolta un significato che vada oltre la conclusione reale dei fatti narrati, un significato superiore, un Piano di sopra per dirla con il titolo della mia raccolta».

Elisa Dagnilevschi

martedì 22 marzo 2016

Una tesi su Remo

Congratulazioni alla dottoressa Elisa Dagnilevschi che lo scorso 15 Marzo a Bologna ha conseguito una laurea magistrale a pieni voti in Linguistica Italiana e Filologia discutendo la tesi Remo Lugli scrittore: dalla vita vissuta alla narrazione. Ecco alcuni estratti dal suo lavoro:

Quando il professor Marri circa un anno fa mi ha fatto il nome di Remo Lugli come possibile argomento di tesi, ammetto che mai prima di quel momento avevo sentito parlare di questo autore. Tuttavia, mi sono lasciata incuriosire e, non prima di aver letto almeno una parte del pubblicato di Lugli, ho deciso di intraprendere questo progetto che si è rivelato decisamente stimolante ed entusiasmante.”

...


Remo Lugli: una vera scoperta dunque quella che è avvenuta all’inizio del mio lavoro di ricerca che dalle opere pubblicate mi ha portato all’acquisizione del manoscritto e della sua trascrizione digitale del diario di guerra dello scrittore. Fondamentale in questa fase è stata la preziosa collaborazione del figlio di Lugli, Daniele, che ospitandomi a Torino, dove abita con la famiglia, mi ha fornito il diario e altro materiale prezioso ai fini della ricostruzione del percorso di formazione letteraria di Lugli.
Durante il nostro incontro egli infatti si è reso disponibile nel mostrarmi i numerosi fascicoli, corredati da indici, in cui il padre ha catalogato e raccolto tutti i racconti pubblicati e alcuni articoli che lo riguardano, ciò che dimostra anche la sua meticolosità e cura nell’ordinare le tracce della sua esperienza letteraria. Inoltre Daniele si è reso disponibile a fornirmi informazioni riguardo la vita del padre: la gioventù, la guerra, il matrimonio con Else Totti, il trasferimento a Torino.
L’unico rimpianto per chi scrive è il ritrovamento del manoscritto de Le formiche sotto la fronte avvenuto pochi giorni prima della consegna della tesi. Non mi è stato possibile prendere in analisi integralmente tale manoscritto a causa delle tempistiche troppo stringenti, tuttavia ho analizzato l’incipit e esposto il finale che l’autore aveva pensato originariamente per il romanzo; d’altra parte, mi rendo conto che l’analisi integrale fornirebbe materia per un’ulteriore studio monografico (e, come diceva Manzoni, di libri ne basta uno per volta, quando non è di troppo).
Il ritrovamento di tale manoscritto insieme a quello della corrispondenza di Lugli con lo scrittore Gian Paolo Callegari, il poeta Aldo Capasso e l’agente letterario newyorkese Louis Navarra, e infine quello del carteggio con gli editori riguardante La colpa è nostra, potrebbero infatti aprire la strada a un nuovo progetto di ricerca su Remo Lugli, da pochi conosciuto, ma sicuramente meritevole di un approfondimento maggiore.” 

sabato 27 febbraio 2016

Scommettiamo una cena?

Un ricordo della bella amicizia tra Remo e Augusto Minucci.
Ci sono stati, è vero, geni come Leonardo, che seppe eccellere come pittore scienziato architetto ingegnere e inventore. Più vicino a noi, abbiamo un Dino Buzzati che si riteneva un pittore prestato alle lettere; ora, pur apprezzando il suo Poema a fumetti e constatando che i suoi quadri hanno raggiunto quotazioni rispettabili, ho l'impressione che le sue opere pittoriche siano state trascinate dalla sua fama di scrittore e non reggano il confronto con le opere letterarie. O vogliamo parlare della pittura del cantautore-musicista Battiato? I critici che se ne sono occupati ne hanno scritto in maniera più indulgente che benevola, e sono convinto che i giudizi sarebbero stati diversi se diverso fosse stato il nome. Per farla breve, secondo me la norma è che chi eccelle in un campo difficilmente potrà ottenere grandi risultati anche in altri settori.
Mio padre, Remo Lugli, indubbiamente aveva qualcosa da raccontare, e sapeva scriverlo; aveva inoltre l'hobby della pittura, in stile naïf. Ha lasciato alcuni dipinti gradevoli: mentre scrivo ho sotto gli occhi un panorama delle rive del Po, viste da un ponte torinese, che mi ricorda Rousseau il Doganiere. Anche l'autoritratto riportato qui nel suo blog non mi sembra male. Quell'ombra che copre metà del viso, dandogli un aspetto tenebroso, riflette il fatto che, fuori dal contesto professionale in cui doveva sciorinare, come un ferro del mestiere, l'estroversione del giornalista che domanda e intervista, Remo era invece piuttosto introverso, pessimista, talvolta cupo, quasi timoroso delle trame che il destino, ineluttabile, tesse alle nostre spalle, come in molti dei suoi racconti.
Altre sue opere pittoriche (la maggior parte, ad essere sinceri) non sono altrettanto ben riuscite. Ho in mente, ad esempio, i ritratti delle nipoti, che furono quasi causa di crisi di pianto (“Siamo così brutte?”) C'è da dire, però, che Remo fu sempre pienamente conscio dei propri limiti come pittore; non dipingeva certo nella convinzione di creare dei capolavori ma perché provava soddisfazione nel farlo e, dopo la pensione, era anche un modo per far passare il tempo. C'era poi una forte componente legata alla manualità della preparazione dei supporti (cartoni, in genere) e alla gestione di colori e pennelli. Lavorare con le mani gli era sempre piaciuto e si era anche costruito da sé il cavalletto, in legno e ferro, che adesso languisce in cantina.
Uno dei più grandi amici di mio padre fu sicuramente Augusto Minucci, suo conterraneo (di origini toscane, ma 'naturalizzato' emiliano) e collega, prima alla Gazzetta di Modena e poi, per tanti anni, a La Stampa. Alto quasi quanto Remo e moro come lui, magro, un lungo viso scavato, una Gitane sempre accesa tra le dita ingiallite, Augusto si occupava, tra l'altro, di critica d'arte, ed era anche un discreto pittore. Un carattere molto diverso da quello di Remo: allegro, iperbolico, un po' guascone, sempre incline alla battuta e allo scherzo. Anche in politica erano su sponde diverse: mio padre era un fedele elettore di Valerio Zanone mentre Augusto distribuiva il proprio voto verso l'estremo opposto. Un anno, quando alle elezioni ci fu un tracollo del PLI, Augusto telefonò a Remo imitando la voce di Zanone e lo ringraziò per averlo votato, poi si congedò dicendo che doveva chiamare gli altri tre suoi elettori. Sfottò bonari, insomma, che non intaccarono mai la loro amicizia e cui mio padre qualche volta rispondeva per le rime ma che più spesso liquidava con un gesto della mano, uno scuotimento del capo e un accenno di sorriso, come se non valesse la pena sforzarsi per ribattere.
Negli anni sessanta mio padre comprò un piccolo appartamento al mare, in Liguria, e poco tempo dopo Augusto trovò anche lui, da quelle parti, una casa rustica nell'entroterra. Acquisti fatti per portare in vacanza i figli, visto che il mare non piaceva a nessuno dei due. Nei periodi di vacanza condivisi passavano molto tempo insieme, parlando spesso in dialetto emiliano; disdegnando le spiagge, giravano per i paesini scattando fotografie (Augusto con la sua Leica M6 che vantava come nettamente superiore alla Contarex di mio padre); oppure andavano alla ricerca di robivecchi e rigattieri, sempre con la speranza di fare il colpaccio, di scovare il pezzo importante sottovalutato dal venditore. Remo e Augusto erano ambedue fieri delle proprie collezioni di antiquariato e spesso si perdevano in interminabili discussioni confrontando i pezzi, ciascuno vantando i propri e denigrando quelli dell'amico; poteva anche capitare, ma raramente e dopo lunghe ed estenuanti trattative, che facessero degli scambi. È anche da giornate come queste che viene l'ispirazione per molti dei racconti di mio padre centrati sull'antiquariato, usciti prima su La Stampa e poi raccolti nel volume Tarlo ci cova.
Alla sera sovente si ritrovavano con le famiglie alla Trattoria del Bosco, sull'altopiano delle Mànie alle spalle di Finale Ligure. Un locale rustico, immerso nel silenzio e nel verde della “macchia mediterranea”, che offriva coniglio, allevato in libertà e preso con il fucile come fosse selvaggina; arrosto; cima alla genovese; cinghiale, quando capitava a tiro; vino nostralino; raramente menu di mare, boghe per lo più. Cibo genuino, cucina semplice, trattamento famigliare, lunghe tavolate, gran risate, piccolo conto rigorosamente pagato alla romana.
Avendo tempo a disposizione, era inevitabile che le punzecchiature di Augusto arrivassero a toccare anche il tema della pittura di Remo. Io non ero presente, probabilmente ero in spiaggia a fare a botte con i bambini di Milano, ma credo proprio che le cose siano andate come ora le descrivo: Augusto deve aver detto a Remo che non sarebbe riuscito a trovare chi accettasse un suo dipinto neanche in regalo e deve averlo sfidato scommettendo una cena. A quell'epoca, i paesini della Riviera brulicavano di piccole gallerie d'arte, aperte solo d'estate, che vendevano quadri di artisti più o meno improvvisati ai turisti desiderosi di arredare con poca spesa le case delle vacanze. Remo deve aver pensato che, se tanti erano disposti a spendere qualche lira per quadri di modesto valore, anche lui sarebbe riuscito a piazzarne uno dei suoi, tantopiù gratis. Così, pur essendo contrario per carattere alle scommesse ed a qualsiasi azzardo, finì per accettare.
Quel pomeriggio si trovarono sulla passeggiata a mare, o su qualche altra via con buon traffico pedonale. Mio padre aveva portato una sua opera, una natura morta con frutta, credo. La appoggiò ad un muretto, ben in vista, come fosse stata abbandonata; poi, lui e l'amico sedettero su una panchina poco distante a sorvegliare la scena.
Ogni tanto qualche passante rallentava, gettava un'occhiata, poi tirava avanti.
Dopo forse due ore, un refolo di vento o l'aria mossa da un'auto veloce fecero cadere il quadro a faccia in giù. Remo fece per alzarsi e andare a raddrizzarlo ma fu preceduto dall'ennesimo passante che, incuriosito, lo raccolse da terra, lo guardò a lungo – mio padre deve aver creduto, per un attimo, di aver vinto la scommessa – ma poi lo rimise giù, come l'aveva trovato, e se ne andò.
Fu troppo. Raccolse la sua natura morta, la gettò con rabbia in un bidone lì vicino e, tra le risate di Augusto, si dichiarò sconfitto.
Quella sera ci trovammo tutti alla Trattoria del Bosco. Remo toccò appena il cibo mentre Augusto mangiò ben più del solito, con grande appetito. Il giorno dopo non si fece vivo. Sua moglie Piera ci riferì che era rimasto a casa con un gran mal di stomaco e, timorosa, sperava che non fosse qualcosa di brutto. «Moché cancher, n'èt vést ch'aièr sira a l'a magné com on nimèl?» fu la rassicurazione un po' stizzita di mio padre.

Augusto superò bene quell'indigestione e morì oltre quarant'anni dopo, tre anni prima di mio padre. Mi piacerebbe credere in un aldilà per pensare che l'abbia aspettato, con le loro mogli che li avevano preceduti, per fargli da anfitrione nella nuova località di villeggiatura, dove i rigattieri danno via a poco tele di Caravaggio e dove sicuramente c'è un posto molto simile alla Trattoria del Bosco, tranne che lì si potrà anche esagerare senza timore di doverne pagare lo scotto. Passeranno il tempo sostenendo le parti chi di San Gimignano e chi di San Prospero, e perduti in eterne discussioni sulla forma delle nuvole o su altri dettagli che noi, qui, non possiamo nemmeno immaginare.

Daniele Lugli