domenica 15 dicembre 2013

Sulla portaerei


Maggio 1976. Sono in volo su un turboelica Grumman della marina statunitense, per una visita alla portaerei Saratoga che naviga nel Tirreno, a nord della Sicilia. L’aereo ha i sedili rivolti verso la coda. I passeggeri sono una dozzina, giornalisti e ufficiali danesi della Nato che vanno sulla Saratoga per servizio. Tutti con giubbotto salvagente, casco in testa, cuffie alle orecchie perché l’insonorizzazione è inesistente e il rombo fortissimo, spalle bloccate da cinghie strettissime. Un soldato spiega come si fa a sganciare i portelli di sicurezza se l’aereo finisce in mare e quale leva c’è da tirare se cade con la carlinga rovesciata. Il giubbotto è gonfiabile tirando un certo cordoncino e se non si gonfia c’è il tubetto da infilare in bocca per soffiare. Nel caso si finisca in mare, una pila a contatto dell’acqua salata alimenterà una lampada che di notte segnalerà la presenza dei naufraghi, per di più una polvere colorerà la zona per renderla più visibile ai soccorritori, quindi… un viaggio di tutta tranquillità. Un soldato agiterà un braccio quando l’aereo starà per toccare il ponte, perché i passeggeri possano essere preparati alla brusca frenata dell’apparecchio bloccato da uno degli elastici. Ora il braccio segna e io, che sono vicino a uno dei pochi oblò, vedo l’acqua, poi il ponte della portaerei, ma appena per un secondo, e di nuovo l’acqua. Non è successo niente, siamo ancora in aria. O meglio, è successo che il pilota ha mancato l’appontaggio, non è riuscito a farsi agganciare da uno dei quattro elastici. Un giro largo nel cielo e la Saratoga appare lontana in un disco di mare. Poi un nuovo tentativo e, di colpo, mi sento schiacciare contro lo schienale. L’aereo va al parcheggio e ripiega le ali. Scendiamo.

Eccola la Saratoga: 80 mila tonnellate che corrono sull’acqua a 60 chilometri all’ora, lunghezza 320 metri, larghezza 81, e il radar che è all’estremità dell’albero è alto come un palazzo di 23 piani. Sul ponte una grande quantità di aeroplani, rombi e sibili si incrociano, taluni velivoli si spostano autonomamente, altri sono trainati ; e intorno un andare e venire di uomini in tute e scafandri, vampate di calore e di odori acri spazzano il ponte, s’alternano alle brezze purificatrici. Il gruppo viene accompagnato giù in un hangar sotto il ponte per un’occhiata a vedere decine di aerei allineati gomito a gomito (sono 90 di quattro tipi, compresi i Phantom capaci di una velocità due volte e mezza quella del suono), e poi davanti a un televisore per vedere la registrazione dell’appontaggio del Grumman.

Uno spuntino perché è mezzogiorno, quindi sulla torre ad ammirare la fantasmagoria delle partenze e degli arrivi. A prua si vedono le catapulte per il decollo, da poppa e fin oltre la metà della nave e protesa verso la parte estera sinistra c’è la pista di atterraggio. Ogni 90 secondi si può avere un decollo e mentre un aereo parte un altro può arrivare. La catapulta consiste in un gancio che traina il velivolo per una sessantina di metri con una irruenza tale che quando lo lascia gli ha impresso la velocità di 200 chilometri sicché può proseguire con i suoi motori. Ricordo la Saratoga come un mostro di grande bellezza e fascino. E ricordo anche la partenza, di nuovo sul Grumman: uno strappo che mi aveva mozzato il respiro.

mercoledì 4 dicembre 2013

Terremotati


Balvano, Irpinia, notte tra il 23 e il 24 novembre 1980, da dodici ore il terremoto ha distrutto decine di paesi. Facendo strage di vite, abbattendo tutti gli edifici per chilometri. Una voce fa un lamento continuo che continuerà fino al giorno dopo senza che nessuno abbia potuto raggiungere il povero corpo per potergli dare la salvezza. Giorni di desolazione, di orrori: la macchina dei soccorsi e degli aiuti stenta ad avviarsi e a mano a mano che si rimuovono le macerie il numero dei morti aumenta. I superstiti, senza più un tetto, iniziano la vita grama delle tendopoli destinata a durare anche anni: e intanto fa freddo e piove, ci si muove nel fango. Ancora adesso se ripenso al mio compleanno dei sessanta che scadeva in quei giorni, mi torna in mente quella voce lamentosa come un filo incandescente, e un viso di ragazzo che si affaccia sotto la pioggia nella fessura di un tenda.

venerdì 18 ottobre 2013

Lebbrosi


Messina, febbraio 1973. Sotto il sole splendente città e Stretto offrono un paesaggio stupendo. Qui una clinica ospita poveri sventurati con i volti sfigurati dalle cicatrici, i nasi a sella o mangiati dalle piaghe. Sono  lebbrosi, da due giorni stanno facendo lo sciopero della fame: chiedono che il sussidio giornaliero di mille lire sia portato a cinquemila per i ricoverati e a sei per i dimessi. Quando sono entrato nessuno mi ha teso la mano, per non mettermi in imbarazzo. Mi raccontano il dramma che la malattia porta con sé: un marchio infamante che coinvolge la famiglia; la loro vita è segnata anche quando sono dichiarati guariti e vengono dimessi, non trovano più lavoro e i figli non riescono a sposarsi, persino i parenti si tengono a distanza. La lebbra, si sa, ha fama di essere contagiosa mentre invece, sostengono  i medici, non è vero. A sostegno della loro affermazione portano ad esempio un infermiere che lavora lì da diciotto anni ed ha buona salute. Lui conferma, ma ammette che da contratto percepisce un’indennità di rischio: trecento lire al giorno.

sabato 28 settembre 2013

Rachele, la vedova del duce


Come inviato della Stampa ho avuto diverse occasioni di incontrare la vedova di Mussolini.
L’ultima volta fu il 9 settembre 1980. La mia visita era stata preannunciata, ma quando ho suonato al cancello di villa Carpena, a sei chilometri da Forlì, dove lei era nata, si è presentato il figlio Vittorio e ha detto che le visite erano sospese per motivi di salute. L’ho pregato di andare da lei, di dirle chi ero: ero sicuro che avrebbe acconsentito perché io avevo sempre riportato fedelmente le sue parole. È andato e quasi subito è tornato e mi ha aperto. Ci siamo seduti in un angolo di un salotto. Sembrava ancora più piccola, scarna; il volto, che sette anni prima era tondo, ora era solcato da profondo rughe; pesava appena 35 chili. Mi ha detto che stava già stentando a stare ritta da sola. Era dispiaciuta ma ancora abbastanza su di morale.
Era presente anche Edda, la figlia, che io ho stentato a riconoscere facendo una grossa gaffe perché avrei dovuto avere anche per lei una adeguata attenzione. Non avevamo un argomento particolare su cui parlare così il discorso è subito finito sul passato e lei andava enumerando le grandi sventure, sue e non sue. A un certo punto ha detto del suo Benito. «Se avesse dato retta a me, certe cose non sarebbero successe». E a me è venuta pronta la domanda: «Si era pentita d’averlo sposato?» «Certo che non lo avrei sposato, non come uomo, ma per quello che aveva in animo di fare».



sabato 3 agosto 2013

Il campo di patate



Era il tempo felice in cui eravamo fidanzati. Il lavoro al giornale iniziava intorno alle sette, quando di solito tutti vanno a cena. A quel momento arrivavamo dopo aver spremuto ogni attimo per suggerne tutta la felicità e la bellezza che la nostra compagnia poteva darci. Anche quella volta, verso sera, in bicicletta, s’andava per i campi della “bassa” emiliana, lei seduta sulla canna e io che pedalavo, con la bocca al suo orecchio, tra i capelli le dicevo piccole parole d’amore. Imboccammo un sentiero su un argine. Era largo, ma si andava restringendo senza che noi ce ne accorgessimo, intenti com’eravamo a dire e ad ascoltare le piccole dolci parole.

D’un tratto lei lanciò un grido: eravamo arrivati sull’argine e aveva visto che da una parte avevamo l’acqua del fiume e dall’altra la scarpata ripida che finiva in un campo di granoturco, almeno quattro metri più in basso; ma il sentiero percorribile sull’argine era molto stretto. «Oddio, oddio» gemeva, «come facciamo adesso, dove andiamo a finire?» Ero senza parole, anch’io non sapevo come saremmo finiti, visto che non c’era nemmeno lo spazio per scendere e posare i piedi. Per la paura stava rigida sulla canna come una statua. Il manubrio, che stringeva forsennatamente, sembrava facesse corpo unico con la bicicletta. Non potevo certo fermarmi in quelle condizioni, su una striscia di terra larga due spanne, sufficiente appena per le ruote: saremmo finiti nel canale o giù per la scarpata. Dovevo per forza andare avanti, con la speranza che lo stradellino si allargasse di nuovo. «Chiudi gli occhi» le dissi «e cerca di non bloccarmi il manubrio». Sudavo per la tensione e continuavo a pedalare. L'argine era lunghissimo, si perdeva ai confini della piatta distesa verde. «Ma perché ci siamo cacciati su questo sentiero?» chiedeva lei con voce lamentosa. «Taci, taci» la rincuoravo , «arriveremo».

Improvvisamente vidi una striscia non erbosa che scendeva in diagonale verso i campi: un sentiero che ci salvava. M'infilai giù frenando. Sul fondo, ai piedi dell'argine, c'era la carrareccia e oltre la carrareccia c'erano campi di granoturco. Smontammo dalla bicicletta, sospirai di sollievo, mi asciugai il sudore. «Dio mio che paura» mormorò lei con un filo di voce. Un po' più avanti si scorgeva uno spiazzo, lo raggiungemmo a piedi. Era un campo di patate, una piccola isola rettangolare, circondata su tre lati dal sipario del granoturco e sul quarto dall'argine. E tutto intorno era fasciato da una striscia di prato verde e morbido.

Posai la bicicletta a terra. Di corsa andammo a sdraiarci sull'erba. Ci abbracciammo, ci baciammo; la tensione di poco prima sul sentiero si scioglieva, scompariva. Ora in noi c'erano soltanto la dolcezza dell'amore e la serenità del luogo deserto. Ci mettemmo supini a guardare il cielo che si smorzava di luce. Intorno avevamo il fruscio delle foglie del granoturco e lo stridìo dei grilli, un'aria fresca ci accarezzava la pelle. Avrei voluto gridare di gioia ma tacevo, stavo fermo per non guastare quell'incanto. Un incanto, adesso me ne rendo conto, che non veniva soltanto dalla serenità agreste, dalla superata paura, dall'isolamento e dall'amore: veniva anche dalla nostra giovinezza, dai vent'anni che erano passati da non molto ai quali non pensavamo, ma che pure erano presenti in noi; e veniva dal nostro inconscio lungo futuro che si confondeva con la vastità del cielo.

La luce rapidamente calava, l'argine non era più verde, ormai era nero. Lei mi chiamò, mi baciò. Sarebbe stato bello non lasciare più quel campo, fermarci così com'eravamo, con i vent'anni ancora tanto vicini e, davanti, un cielo sempre così sconfinato.

Sentimmo dei passi di corsa sulla carrareccia. Avemmo appena il tempo di tirarci su a sedere, con il cuore in gola. Davanti a noi, sullo sfondo dell'argine, si fermò un uomo, un contadino, in camicia a scacchi bianchi e neri. Ansimava. «Ah» disse, «siete morosi! Allora niente, scusate, credevo un'altra cosa». Parlava a fatica, turbato. Mi alzai, mi ravviai i capelli. «Scusi lei» dissi, «che ci siamo sdraiati sulla sua erba». «Non fa niente, non fa niente. Credevo che foste venuti a rubarmi le patate. È da un po' che me le portano via. Vi ho visto passare sull'argine, in lontananza, e allora sono subito corso. Mi spiace di avervi disturbati, mi spiace proprio. State pur lì fin che volete». Incominciò a indietreggiare facendo un paio di goffi inchini, poi si voltò di scatto e si mise a correre sulla carrareccia.

Una conclusione più bella a questi attimi di paura non poteva esserci. Ci saremmo ricordati con simpatia di quel contadino e delle sue patate.

venerdì 28 giugno 2013

Noia della vecchiaia


C'era una volta un vecchio che continuava a invecchiare. Era contento. Aveva un gruppetto di amici, tutti vecchi ma un po' meno di lui. Chiacchieravano spesso. Non insieme a viva voce, perché ognuno era nella sua casa, magari a letto o su una sedia a rotelle: tutti avevano solo la testa che funzionava bene, per il resto non mancavano deficienze anche gravi. Si parlavano per telefono; era di solito lui, il più vecchio, che chiamava ora l'uno ora l'altro. Sfruttavano bene anche le parole telematiche, i messaggi mail per internet, perché erano tutti aggiornati alle tecniche moderne della comunicazione.

Di tanto in tanto, capitava che uno del gruppo inciampasse e cadesse, non con il corpo, ma con la sorte sua: tutto finito. Non più la sua voce, la sua parola, la sua memoria. Per lui un vuoto che si aggiungeva ad altri vuoti. Così il gruppo s'era fatto gruppetto, sempre più esiguo. Intanto lui continuava a invecchiare e continuavano a venirgli ricordi: cosa bellissima poterne parlare, ricordare insieme. La sua mano era pronta ad allungarsi al telefono per dar vita a un colloquio su quel tema che la mente gli aveva riproposto, su quelle parole, su quello che venne dopo. Ma subito la mano si ritraeva: no, quel numero non si poteva fare, l'amico, il carissimo amico che aveva condiviso quel giorno, non c'era più, quella vicenda non si poteva ravvivare, il ricordo era amputato: silenzio, immagini che svanivano, si scioglievano.

Lui continuava a invecchiare e ormai non aveva proprio più nessuno di quelli d'allora, sentiva che la sua mente era qualcosa che si raggrinziva, perdeva elasticità. Le sue giornate diventavano nebbiose, di una nebbia dentro, la nebbia della noia. Una nebbia aperta ogni tanto da squarci sgradevoli dovuti a ricordi che non trovavano lo sperato appiglio. Il suo occhio si guardava attorno smarrito, lui sentiva il peso di questo suo persistere nell'andare avanti. Vedeva avanzare i figli di quelli che erano stati i suoi amici. Ma come, già sessant'anni, possibile? Si dicevano già vecchi anche loro? Lo saranno anche stati, ma era vecchiaia diversa, lui era di un altro mondo. Il suo andare, continuare ad andare, non aveva meta, solo buio. Che noia.

martedì 21 maggio 2013

Il famoso artista

La sua pittura è  affidata a una scrittura leggiadra e sottile, come il segno impresso dalla penna di un Angelo», ha scritto di lui un critico. Il pittore Camillo Randulli dipinge sempre così: su uno sfondo scuro, solitamente “fumo di Londra”, una miriade di segni dei più svariati colori che dal centro si dipartono verso tutte le direzioni e poi si intrecciano, svoltano, tornano indietro, girano di nuovo.
Una tecnica nuova, dicono i critici, e si domandano come egli la realizzi. Un problema che, del resto, si pongono di sfuggita. Quello che importa è la resa. Dicono: «L’immagine è vissuta nel suo trascorrere romantico. Una fuga lirica che ha impresso nel foglio il segno di un’alta poesia». La sua notorietà si fa strada, il suo nome guadagna sempre più spazio, da una rivista all’altra.
La tecnica di Camillo Randulli è un segreto, la conosce soltanto lui. È ritenuto un appassionato di pesca, perché va spesso in un negozio a comperare le esche per l’amo, lombrichi, larve di mosconi. Ma a pesca non ci va. I lombrichi e le larve li adopera per dipingere. Ne prende uno e lo  immerge nel colore rosso, poi, con le pinzette lo deposita al centro del foglio. Il lombrico parte, con grande fatica per lo stordimento che gli viene dal colore, va con la speranza di liberarsi di quel veleno che lo avvolge, gira, torna indietro, torna avanti. A volte muore quasi subito, a volte fa in tempo a ricominciare un nuovo percorso dal centro verso un’altra direzione.
Morto un lombrico, un altro lo sostituisce, con un nuovo colore. Sempre così. Camillo Randulli trascorre interi pomeriggi chiuso nella sua soffitta, circondato da barattoli brulicanti di vermi, e da tubetti di colore. Non si è mai posto il problema di svelare o meno la sua tecnica. Gli basta  continuare così, è un lavoro che gli piace, segue ogni percorso di lombrico con trepidazione, con trasporto, con soddisfazione. Alla fine, quando il quadro è finito, si sente meglio, come se avesse conquistato una mèta ambita, o come se si fosse  liberato da un peso.
Scrive della sua opera un altro critico: «Il gesto si distende con viva partecipizione sentimentale; 
le linee cromatiche che tagliano i fogli suggeriscono l’idea della continuità oltre il limite del quadro. Questi aerei segni sono forse i percorsi di idee astratte? Le parabole dei sogni di un poeta?»

venerdì 5 aprile 2013

A chi l'eredità

 
A passettini e senza fretta la signora Giustina Merli vedova Canali fa tutti i giorni una passeggiata intorno all’isolato. Curva com’è, si aiuta appoggiandosi all’ombrello che porta sempre con sé. Anche col cielo sereno, in piena estate, inconsciamente sarà per non dover ricorrere al bastone. È sola da 28 anni e ne ha 92. Nonostante l’età è abbastanza lucida, qualche volta legge il giornale. Non ha preoccupazioni di carattere finanziario, anzi, dispone di un buon reddito: la pensione del marito che era funzionario statale e gli affitti di un grande palazzo centrale avuto in eredità dal padre. Spende un’inezia rispetto a quello che incassa.
Abita in un appartamento di sei camere, pure di sua proprietà, lo stesso in cui abitò col marito e il figlio, che era farmacista e che morì in un incidente ferroviario. Le finestre sono sempre socchiuse, sicché la casa, già poco luminosa per le pareti annerite, assume un aspetto tetro. Poltrone e sedie sono tutte ricoperte da fodere bianche, che nel buio risaltano e paiono trasformarsi in fantasmi a consesso. Sono anni ormai che la vedova Canali non si mette a sedere su una poltrona o una sedia, per non rovinarle. Si siede su uno sgabello in un angolo di un salotto, con la schiena appoggiata al muro. Una domestica al mattino va a farle da mangiare e a sbrigare le faccende più grosse in cucina e nella camera in cui dorme, tutti gli altri vani restano sempre chiusi.
La vedova Canali ha paura dei ladri, quindi evita di tenere il denaro in unico posto. In casa sua ci sono soldi fra i piatti, nelle scatole delle scarpe, sotto il lavandino, fra la biancheria. Lei li nasconde poi se ne dimentica, spesso capita che debba pagare qualcosa e non si ricordi dove li ha messi. È probabile che siano dimenticanze istintive nell’illusione di non dover pagare. La Canali ha due nipoti, figli di suo fratello col quale è in disaccordo da epoca lontana. Da una decina d’anni si è posta il problema dell’eredità. La prima decisione fu di passare sopra le divergenze fraterne e di lasciare eredi i due giovani. Ma due mesi dopo ci ripensò: ritornò dal notaio e gli consegnò un altro testamento, a favore della parrocchia. Fu il primo di una lunga serie di cambiamenti. Da allora di testamenti ne ha fatti più di quindici. I favori sono rimbalzati anche sull’ospedale, su due coniugi sventurati la cui storia era stata raccontata dal giornale, ancora sui nipoti e una domestica, quest’ultima diseredata per l’assenza di un giorno.
I coinquilini sono a conoscenza di questi suoi tormenti perché lei li racconta come volesse averne dei suggerimenti. E allora accade che qualcuno abbia per lei molta attenzione e sia pronto ad offrirle servigi, ma chiaramente lei non si lascia influenzare: ad esempio, per principio non ammette in casa nessuno all’infuori della donna di servizio. A volte, chiacchierando sulle scale coi vicini, parla con tristezza della propria solitudine e della morte che sta per venire. Di solito conclude: «Mi dispiace andar via, perché si sta bene nella mia casa, c’è tanto silenzio e poi ho ancora tutte le poltrone nuove».

lunedì 4 marzo 2013

La soluzione è per loro


Dice la figlia: «Tu, povera mamma, non puoi rimanere sempre qui sola, mentre io e Paolo siamo a lavorare. Almeno potessimo venire a casa a mezzogiorno, ma andiamo via al mattino e torniamo la sera, ci vediamo appena per la colazione, fugacemente, e a cena. Così le tue giornate sono cariche di solitudine. Sarebbe meglio che tu andassi nell' ”lstituto Familiarità”. Con la tua pensione non ci sono problemi. Là ci sono tante altre signore come te e potresti passare meglio le giornate. Ti verremmo a trovare la domenica; non avresti neanche la preoccupazione di una donna per la cura della casa e per il mangiare: nella retta che paghi, sono compresi camera, vitto, riscaldamento, proprio tutto: ogni tuo problema si risolverebbe».

La madre, Caterina, ha 72 anni, era amministratrice di una piccola ma ben avviata azienda tessile. Andata in pensione, si è appassionata alla cura della casa che, prima, col lavoro, doveva trascurare affidandola a una domestica della quale non era per niente soddisfatta. Col pensionamento ha avuto l’occasione di liberarsi della donna e di fare lei, praticamente, tutto. Diceva che le piaceva. Ma da qualche mese ha parecchi acciacchi ed è evidente che il lavoro casalingo le pesa. In casa, sia la figlia sia il genero hanno proposto di riprendere una collaboratrice, ma lei tergiversa, in sostanza si dimostra contraria. Ed ecco, abbastanza logica, la proposta della figlia, che rinforza con la prospettiva della compagnia di altre signore. Due giorni di meditazione poi Caterina dice si: accetta, si faccia la domanda.

Eccola nell' “lstituto Familiarità”. È un caseggiato enorme, fatto di corridoi e stanzette, tanti corridoi con tantissime porte, tutte chiuse. E silenzio. Sembrerebbe una casa vuota e invece in ogni stanzetta c'è una vecchia signora. La finestra di Caterina dà sul cortile, vastissimo, quadrato e ogni lato è costituito da un'ala dell'edificio nel quale si aprono centinaia di finestre ognuna delle quali corrisponde a una stanzetta che ospita una vecchia signora. A mettere la faccia contro i vetri e a guardar bene alle altre finestre si intravedono tante facce di donna, tutte dietro i vetri: sembrano la stessa faccia ripetuta all'infinito per un diabolico gioco di specchi.

A mezzogiorno tutto lo stabile viene percorso da un trillo di campanello; ce ne sono decine e decine, tutti collegati insieme, che suonano contemporaneamente. E dopo la lunga suonata, ogni porta si apre, dalle stanze sciamano fuori, a passi lievi o strisciati, le vecchie signore; s’incamminano per i corridoi, raggiungono i refettori dove mangiano in silenzio, come è prescritto da diciture che campeggiano in grandi cartelli ai muri. Anche se potessero parlare non avrebbero nulla da dirsi, non si conoscono nemmeno perché i posti non sono fissi, solo il refettorio è sempre lo stesso e la compagna di sedia può cambiare ogni giorno. Finita la consumazione del pasto ogni ospite lascia il refettorio per rientrare nella sua stanza. E qui si accosta alla finestra per guardare le altre finestre che via via si vanno animando. Soste, che il più delle volte sono brevi, perché molte signore preferiscono fare il riposino, sul letto: sarà anche un aiuto ad abbreviare il pomeriggio. Oggi Caterina pensa: «Chissà se verranno a trovarmi domenica; può darsi, perché domenica scorsa sono andati a sciare, e se non hanno la partita...».

mercoledì 23 gennaio 2013

Errore iniziale


Sergio Bocci ha la patente da sei mesi. L’ha presa pochi giorni dopo aver compiuto i 18 anni. Va a scuola in macchina, va dagli amici in macchina, va al club in macchina. Suo padre, che è architetto, aveva una onesta Panda di un paio d’anni. Il figlio gliel’ha disprezzata fino a fargliela vendere e gli ha fatto comperare un’auto sportiva: motore ruggente e carrozzeria filante, dentro la quale un eventuale terzo passeggero sta con le ginocchia in bocca. Qualche volta l’architetto Bocci riesce ancora a salire sull’automobile, ma prende il posto del terzo passeggero. Sua moglie sta davanti, a destra, il figlio alla guida. L’auto va per qualsiasi strada, in città o fuori, come se il conducente fosse inseguito dalla polizia con i mitra spianati: le ruote stridono lamentosamente sull’asfalto, il motore urla tutta la sua potenza compressa. Talvolta i genitori hanno l’impressione che il figlio esageri e timidamente glielo fanno presente. «Ma state zitti – dice lui, – che se fosse per voi andreste sempre come tartarughe. Bisogna essere dinamici».

Sergio Bocci frequenta la quinta liceo. È bravo, perché l’intelligenza non gli fa difetto, anzi, gli basta studiare pochissimo per ottenere voti che ad altri costano molta più fatica. Così può dedicare parecchio tempo agli svaghi: il club, il tennis, gli amici. Tutti ambienti molto distinti dove anche tra i giovani non sono rare le buone mance date con aria di grandezza. L’architetto Bocci ha una buona posizione, ma non proprio brillantissima. È un uomo che gode poca salute: ha mal di cuore, non si sa bene se il cuore è effettivamente deficiente o se i disturbi sono causati da distonie dovute al sistema nervoso. Fatto sta che basta una preoccupazione per dargli l’affanno, fiaccarlo fisicamente. E così il Bocci si lascia scappare i lavori più redditizi. La moglie, che di solito provvede alle finanze del figlio, cerca talvolta di far comprendere a Sergio che le possibilità della famiglia sono limitate, che lui non può permettersi i lussi e le larghezze che sono normalissimi per altri suoi compagni, figli di ricchi o di professionisti dalla grande fortuna. Sergio scuote le spalle sgarbatamente: «Non vorrete che faccia la figura del pezzente».

Sua madre, nonostante tutto, continua a adorarlo e a trattarlo come se fosse il figlio più buono e giudizioso. «Ma cosa vuoi sapere, tu, mamma – dice in certi casi Sergio –: hai una mentalità arretrata di cento anni. Dovresti farti più furba». La mamma sorride, lo prende come un complimento. L’architetto si rende conto che il comportamento del figlio è sbagliato, capisce che occorrerebbero metodi drastici, ma non se la sente di prendere posizione, lascia correre e si adatta ad andare in tram per cedere la macchina e qualche volta vi sale sopra mettendosi le ginocchia in bocca. Sa che tutto questo è così perché lui non s’è imposto fin da quando il figlio era piccolo, con buone dosi di sculaccioni o anche soltanto con la voce carica di autorità e la volontà di ottenere ubbidienza.

Certe sere Sergio riempie la casa di amici: ballano, bevono liquori, invadono le stanze, si sdraiano anche sui letti. In quei casi papà e mamma escono su invito del figlio: «Stasera dovete andar fuori – dice Sergio, anche all’ultimo momento – ho da portar gente in casa. Mi raccomando, non rientrate prima dell’una». Padre e madre vanno da amici, dopo una frettolosa telefonata di annuncio. Si trattengono il più possibile, poi si mettono a passeggiare in centro dove c’è ancora un certo movimento, sempre guardando l’orologio, sperando che arrivi presto questa benedetta una. E quando rientrano può capitare che i ragazzi li ricevano con fischi e urla per il ritorno, a loro avviso prematuro. E loro rapidamente vanno a chiudersi in camera e magari la baldoria continua nelle altre stanze.