Maggio
1976. Sono in volo su un turboelica Grumman della marina
statunitense, per una visita alla portaerei Saratoga che naviga nel
Tirreno, a nord della Sicilia. L’aereo ha i sedili rivolti verso la
coda. I passeggeri sono una dozzina, giornalisti e ufficiali danesi
della Nato che vanno sulla Saratoga per servizio. Tutti con giubbotto
salvagente, casco in testa, cuffie alle orecchie perché
l’insonorizzazione è inesistente e il rombo fortissimo, spalle
bloccate da cinghie strettissime. Un soldato spiega come si fa a
sganciare i portelli di sicurezza se l’aereo finisce in mare e
quale leva c’è da tirare se cade con la carlinga rovesciata. Il
giubbotto è gonfiabile tirando un certo cordoncino e se non si
gonfia c’è il tubetto da infilare in bocca per soffiare. Nel caso
si finisca in mare, una pila a contatto dell’acqua salata
alimenterà una lampada che di notte segnalerà la presenza dei
naufraghi, per di più una polvere colorerà la zona per renderla più visibile ai
soccorritori, quindi… un viaggio di tutta tranquillità. Un
soldato agiterà un braccio quando l’aereo starà per toccare
il ponte, perché i passeggeri possano essere preparati alla brusca
frenata dell’apparecchio bloccato da uno degli elastici. Ora il
braccio segna e io, che sono vicino a uno dei pochi oblò, vedo
l’acqua, poi il ponte della portaerei, ma appena per un secondo, e
di nuovo l’acqua. Non è successo niente, siamo ancora in aria. O
meglio, è successo che il pilota ha mancato l’appontaggio, non è
riuscito a farsi agganciare da uno dei quattro elastici. Un giro
largo nel cielo e la Saratoga appare lontana in un disco di mare. Poi
un nuovo tentativo e, di colpo, mi sento schiacciare contro lo
schienale. L’aereo va al parcheggio e ripiega le ali. Scendiamo.
Eccola
la Saratoga: 80 mila tonnellate che corrono sull’acqua a 60
chilometri all’ora, lunghezza 320 metri, larghezza 81, e il radar
che è all’estremità dell’albero è alto come un palazzo di 23
piani. Sul ponte una grande quantità di aeroplani, rombi e sibili
si incrociano, taluni velivoli si spostano autonomamente, altri
sono trainati ; e intorno un andare e venire di uomini in tute e
scafandri, vampate di calore e di odori acri spazzano il ponte,
s’alternano alle brezze purificatrici. Il gruppo viene
accompagnato giù in un hangar sotto il ponte per un’occhiata a
vedere decine di aerei allineati gomito a gomito (sono 90 di
quattro tipi, compresi i Phantom capaci di una velocità due volte e
mezza quella del suono), e poi davanti a un televisore per vedere la
registrazione dell’appontaggio del Grumman.
Uno
spuntino perché è mezzogiorno, quindi sulla torre ad ammirare la
fantasmagoria delle partenze e degli arrivi. A prua si vedono le
catapulte per il decollo, da poppa e fin oltre la metà della nave e
protesa verso la parte estera sinistra c’è la pista di
atterraggio. Ogni 90 secondi si può avere un decollo e mentre un
aereo parte un altro può arrivare. La catapulta consiste in un
gancio che traina il velivolo per una sessantina di metri con una
irruenza tale che quando lo lascia gli ha impresso la velocità di
200 chilometri sicché può proseguire con i suoi motori. Ricordo la
Saratoga come un mostro di grande bellezza e fascino. E ricordo
anche la partenza, di nuovo sul Grumman: uno strappo che mi aveva
mozzato il respiro.
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