martedì 31 marzo 2015

Una famiglia

Anselmina chiede l’elemosina di sera, un paio d’ore. Di giorno no perché ha paura della polizia. Di solito sosta a cinquanta metri dall’ingresso di un cinema, s’appoggia al marmo, tra le due vetrine di un negozio di tessuti. È sui settant’anni. Piccola, magra, con le spalle un po’ curve, sempre vestita di nero. Ai passanti non chiede nulla, si limita a guardarli con i suoi occhi azzurri che dicono bontà e sofferenza e chiedono perdono. La mano destra sbuca timidamente da sotto lo scialle ed è una piccola macchia chiara in mezzo al nero delle vesti. Quando il passante è davanti a lei, Anselmina ha un lievissimo moto: solleva appena la testa e preme le spalle contro il marmo e la mano, per seguire il busto, si alza di un centimetro, non di più. Con quel movimento lei sembra stagliarsi nel marmo chiaro al quale si appoggia. È una figura d’altro tempo, dell’Ottocento.

Vive sola, in una soffitta di una casa decorosa. È vedova da sedici anni, di un sarto che aveva un laboratorio ben avviato. Alla sua morte è andata a lavorare a ore, per qualche anno, poi si è ammalata d’asma e ha dovuto smettere. Ogni tanto riesce a farsi ricoverare in ospedale e ci sta il più che può. Ha un figlio, Michele, che ha trenta anni e che è la sua croce. Non ha voglia di lavorare: in un posto ci sta un mese e poi si fa cacciare per le troppe assenze. Ed è nelle mani di una donnaccia, che fa la vita. Anselmina non sa nemmeno dove abitino. Una volta, dall’ospedale, era riuscita a fargli sapere che stava molto male e qualche giorno dopo era andato a trovarla un amico di lui, con due arance e tre caramelle. Se un passante rivolge la parola ad Anselmina lei risponde con voce fievole e racconta le sue sventure.

Michele vive quasi tutto il suo tempo all’osteria che è nella zona dove lavora Argia, la sua compagna, con la quale vive e con la quale ha un figlio, Rino, che ha fatto la terza, ma da due anni a scuola non ci va. Loro due si alzano nel primo pomeriggio, vanno in motoretta a mangiare all’osteria, poi lei incomincia a battere il marciapiede. Il ragazzo dalle nove del matttino va in una piazza di parcheggio dove ci sono altri ragazzi. Giocano, bisticciano, studiano gli atteggiamenti migliori per preoccupare gli automobilisti e indurli a dare buone mance.

Ma da un po’ di tempo la giornata di Rino è cambiata: è entrato nel giro della droga. Per lui, dalle dieci a mezzanotte, c’è il turno tra la farmacia del corso e il cinema. È felice, fiero di sé, perché sente che di lui c’è chi ha fiducia. Proprio contento di essere così bravo.



martedì 24 marzo 2015

La prima auto


Avevo sette anni. La pianura emiliana era bianca di neve ghiacciata, il sole batteva sulle distese lucide e faceva riverbero. Sulla lunga e dritta strada verso Modena l’automobile filava scoppiettando. Era il giorno dopo l’Epifania, dopo le vacanze davo addio all’Ampergola per la scuola: il babbo portava me e la mamma nella casa di città dove ci avrebbero poi raggiunti gli altri in età scolare. La macchina era aperta, il mantice abbassato dietro di noi; anche se l’avessimo alzato non ci saremmo riparati dal freddo perché non c’erano finestrini. Mio padre al volante, alto, le spalle quadrate, il bavero del mantello alzato; mia madre e io dietro, la schiena appoggiata all’alta spalliera del sedile, affondati dentro i pesanti paltò, la testa coperta dal passamontagna che lasciava liberi soltanto gli occhi, le mani infilate su per le maniche. Ma l’aria riusciva a passare dappertutto, ci sembrava di essere pezzi di ghiaccio.

L’automobile – parafanghi alti, radiatore di ottone lucente – correva e superava carretti e biciclette, tanti ciclisti: operai che andavano al lavoro e contadini che si recavano al mercato. Ognuno di loro lasciava la sua scia bianca di fiato che si stagliava sul nero delle mantelline. Il gelo era terribile, mi dava tremiti convulsi, mia madre non diceva nemmeno una parola, tesa com’era a resistere al freddo. Ma avevamo la soddisfazione di essere sull’automobile, nostra, una delle poche che correvano su quella strada durante l’anno, certo la sola che circolava in quell’ora così mattutina.

Al passaggio a livello, tre chilometri prima della città, ci fermammo davanti alle sbarre abbassate. I ciclisti, tutt’attorno, ci guardavano con ammirazione e invidia. Il treno, dopo una lunga attesa, passò; mio padre scese a girare la manovella di avviamento. La macchina si scuoteva tutta, ma il motore non partiva. Mio padre insisteva a girare sbuffando e noi sul sedile continuavamo a sobbalzare. Niente. Prese fiato, imprecò contro il guasto e alzò il cofano, tolse alcuni attrezzi dalla cassetta che era sul predellino di destra, si curvò sul motore. Armeggiò a lungo.

I riflessi del sole variavano d’angolo e d’intensità con il passare del tempo. Intanto torme di ciclisti neri e fumanti di fiato ci superavano. «Ormai hai perso la scuola» disse a un tratto la mamma. Io non ero capace di pronunciare una parola, i denti mi battevano in continuità, i piedi non li sentivo più. Infine il babbo si rizzò e riabbassò il cofano. Riprovò ancora una volta a girare la manovella, lo fece con più forza e con rabbia. La macchina sobbalzò come un animale bagnato che si scrollasse. Inutilmente.

«Scendete» disse, «dobbiamo spingerla». Così facemmo. La lamiera sembrava infuocata tanto bruciava per il freddo. Mia madre e io spingevamo dietro, lui di fianco, una mano al volante e una al piantone del parabrezza. I ciclisti continuavano a a passare in gran numero Molti, superandoci, ci dicevano una frase scherzosa, una presa in giro. La nostra casa, fortunatamente, si trovava tra le prime, subito dopo la garitta del dazio, confine tra dentro e fuori. Quando arrivammo, verso le dieci, non avevamo più freddo, escluse le mani. Ma nella casa ce n’era in abbondanza.