venerdì 18 ottobre 2013

Lebbrosi


Messina, febbraio 1973. Sotto il sole splendente città e Stretto offrono un paesaggio stupendo. Qui una clinica ospita poveri sventurati con i volti sfigurati dalle cicatrici, i nasi a sella o mangiati dalle piaghe. Sono  lebbrosi, da due giorni stanno facendo lo sciopero della fame: chiedono che il sussidio giornaliero di mille lire sia portato a cinquemila per i ricoverati e a sei per i dimessi. Quando sono entrato nessuno mi ha teso la mano, per non mettermi in imbarazzo. Mi raccontano il dramma che la malattia porta con sé: un marchio infamante che coinvolge la famiglia; la loro vita è segnata anche quando sono dichiarati guariti e vengono dimessi, non trovano più lavoro e i figli non riescono a sposarsi, persino i parenti si tengono a distanza. La lebbra, si sa, ha fama di essere contagiosa mentre invece, sostengono  i medici, non è vero. A sostegno della loro affermazione portano ad esempio un infermiere che lavora lì da diciotto anni ed ha buona salute. Lui conferma, ma ammette che da contratto percepisce un’indennità di rischio: trecento lire al giorno.