Un inverno degli Anni Cinquanta, in
Piemonte. Era un freddo polare, nelle campagne gelavano le viti e nel
Po il ghiaccio avanzava dalle rive verso il centro e rendeva esigua
la striscia dell'acqua che si vedeva correre. Mi ricordai di
Filomena, una barbona della quale avevamo parlato sul giornale alla
fine dell'estate perché viveva sotto un ponte circondata da un
nugolo di cani. Quando l'avevo incontrata per l'articolo, sotto
l'arcata asciutta del torrente all'ombra fresca in una giornata di
afa, mi aveva decantato la sua vita, libera, senza diritti ma anche
senza doveri. Diceva che era felice dalla mattina alla sera e la
notte, sul suo materasso di foglie di granturco, faceva sogni
stupendi. Aveva una cinquantina d'anni ma ne dimostrava venti di più.
Non sapeva dov'era nata, ricordava di avere avuto una famiglia, ma di
averla abbandonata da ragazzina, forse a dieci anni, «per andare a
vedere il mondo». Così si era messa in strada ed era andata di casa
in casa a chiedere un pezzo di pane. Veniva dal Sud, forse da un
paese del napoletano, ma non ne era sicura. Il suo girovagare non
aveva come mete delle città o dei paesi, ma dei ponti. Quando ne
trovava uno giusto, con un’arcata sicura, con l'acqua abbastanza
distante da evitare sorprese, vi si sistemava con le sue cose, che
erano un paio di fagotti, un materasso di foglie e due tegami. Di
giorno andava in giro a cercare da mangiare. E quando il ponte e i
dintorni le erano venuti a noia, ripartiva per cercarne un altro, con
case non troppo vicine e cespugli in prossimità per le necessità
intime.
Aveva avuto dei compagni, vagabondi
come lei, sempre più anziani. Ci litigava perché si ubriacavano e
invece lei, mi aveva spiegato, nel bere era brava, si sapeva fermare
al momento giusto. L'ultimo compagno era morto da due d'anni; un
mattino di febbraio se l’era trovato a fianco, ghiacciato nel sacco
in cui era infilato, e da allora non s'era più voluta associare a
nessuno. Aveva scoperto i cani. Il primo era stato un fox terrier,
sperduto, che aveva un collare con medaglia e nastrino colorato.
L'aveva seguita per tutta la giornata e anche la sera, sotto il
ponte, e si era accucciato ai suoi piedi per passare la notte. Dopo
il fox terrier, che aveva chiamato Primo, intuendo che ne sarebbero
venuti altri, aveva avuto in regalo una lupacchiotta incinta. Così
la famiglia era cresciuta.
Una scoperta, questa dei cani, che
l'aveva entusiasmata. In quel nostro incontro aveva quasi sempre
parlato di loro. Di sé sembrava che ricordasse pochissimo, si
limitava a ripetere che era contenta della vita, proprio della vita
che faceva. La gente era generosa, non le faceva mancare niente,
c'era anche chi ogni tanto le portava sporte di pane secco per i
cani. Per lei, comunque, quelli che contavano erano loro: Primo,
Linda, Gigetto, Rosso, Bislacco e via di seguito. Tutti avevano una
storia, un carattere e un comportamento. Bisognava capirli, non
farli ingelosire, non impermalirli. Tutti le volevano un gran bene,
gareggiavano per dimostrarglielo con le loro leccate come baci, la
difendevano dai molestatori, le facevano compagnia nelle sue
passeggiate di casa in casa. Lei ai cani parlava e loro capivano.
Quando doveva entrare in un'aia, li faceva aspettare sulla strada,
per evitare che invadessero il territorio dei cani padroni o che
mettessero paura alla gente. Non tutti la seguivano, almeno due
restavano sotto il ponte, di guardia al “letto”, ai fagotti e ai
tegami. Prima di partire assegnava i compiti: oggi restate a casa voi
due, Primo e Gigetto, oppure, Rosso e Linda. E i prescelti a restare,
mi spiegava, capivano subito: seduti assistevano alla partenza del
gruppo poi si accucciavano. Quel giorno di cani ne aveva otto. Mi
avevano accolto abbaiando ma poi lei li aveva zittiti per chiedermi
chi ero e che cosa volevo. Mi aveva accettato, fatto scendere dalla
riva, ricevuto in "casa" e loro mi avevano accolto
scodinzolando, mi ero seduto a terra e i cani si erano pure
accucciati, tutt'intorno, e stavano in silenzio come se ascoltassero.
Erano passati sei mesi da
quell'incontro, ora il gelo mordeva ogni cosa in maniera terribile,
chissà che ne era di Filomena, che fosse ancora sotto quel ponte? Ci
andai di pomeriggio, c'era un sole pallido, la temperatura era di
otto gradi sotto zero e la notte prima si era avuto addirittura meno
20,3. I cumuli di neve ai lati della strada sembravano cemento.
Munito di bastone per non scivolare, sormontai l'argine di neve del
bordo strada in direzione della carrareccia che fiancheggiava il
fiume. C'era un sentiero di neve battuta e questo sentiero dopo
qualche metro scendeva giù per l'argine, verso l'acqua che era una
lastra di ghiaccio lucente. Quelle tracce stavano a significare che
c'era stato un passaggio recente dalla strada alla base della prima
arcata e infatti non appena incominciai ad avventurarmi, con cautela,
sulla neve ghiacciata della ripida discesa, si sentì il primo
abbaio, acuto, stridente, di un cane piccolo, subito seguito da un
abbaiare corale. Poi, ad uno ad uno tutti i cani si presentarono
fuori dall'arcata, sul sentiero che costeggiava la riva, abbaiando e
guardandomi. Erano i suoi cani.
«Filomena» chiamai, «Filomena,
Filomena». I cani si misero a fare un finimondo: il silenzio del
fiume veniva invaso da un intreccio di abbai, latrati, gagnolii che
già denunciava una varietà di taglie. Certo Filomena non poteva
riconoscere la mia voce, forse nemmeno riusciva a sentirmi. E invece
improvvisamente tutti i cani tacquero, evidentemente lei li aveva
zittiti. Non feci in tempo a pronunciare di nuovo il suo nome che la
sentii : «Chi è?».
«Filomena, sono quel giornalista che
venne questa estate, ricorda? Posso scendere?». Dal buio dell'arcata
arrivò il «sì». Affrontai la discesa lentamente, sotto gli
sguardi fissi dei cani, tutti silenziosi. A mano a mano che mi
avvicinavo qualcuno dimenava la coda, segno che m'aveva riconosciuto.
Li contai, erano otto, come quel giorno, sicuramente gli stessi: due
grossi, quattro mezzani e due piccoli. Entrai sotto l'arcata
preceduto, circondato e seguito dai cani. Filomena distesa, affondata
nel grande materasso di foglie, sotto un mucchio di coperte. Sollevò
la testa incappucciata con un passamontagna che arrivava alle
sopracciglia, tirò fuori una mano e l'agitò in segno di saluto.
Come prime parole non seppi dirle altro che: «Ma come fa a resistere con
questo freddo?».
Rise: «Lo dice lei che è freddo.
Per me no: ci sono loro che mi scaldano». E aggiunse subito: «Però
lei, venendo qui, mi ha disfatto il letto, adesso devono tutti
tornare al loro posto. Dài Gigetto, su Bislacco, avanti Primo, su,
saltate su». Uno per uno tutti presero il loro posto: tre cani
sdraiati sul lato sinistro, tre sul lato destro, simmetricamente, i
grossi uno per parte e altrettanto i mezzani; poi i due piccoli stesi
proprio sopra il corpo della padrona. «Oh, bene» disse, «così va
bene, stiamo caldi tutti, io e voi». Si voltò verso di me: «Come
mai è venuto a trovarmi?».
«Passavo da queste parti e mi sono
ricordato di lei». Mi guardai intorno, in un raggio di tre metri
c'erano tutte le sue cose: alcuni mattoni posati a far nicchia per il
focolare, un sacco pieno a metà quasi certamente di pane, due
pentole, alcuni sacchetti di plastica gonfi di qualcosa, un fiasco
vuoto e uno mezzo di vino rosso, un bicchiere, due piatti e una fila
di ciotole.
«Ha mangiato, oggi?».
«Certo che ho mangiato, vuole che non
abbia mangiato? Siamo stati a girare tre ore, dalle undici alle due,
sono venuti con me solo i due grossi, gli altri li ho fatti restare
qui sul letto, al caldo. È andata bene: ho raccolto un po' di soldi
e tante cose, oggi ho persino fatta la pasta asciutta, per tutti e
nove quanti siamo. Poi, mezz'ora fa, ho deciso di chiudere la mia
giornata, di venire a letto. Per oggi basta, sa, non sono giorni da
stare tanto in giro».
«I cani la tengono calda ma loro non
sono coperti, tremeranno».
«Ma cosa dice, guardi qui, alla mia
destra, vede quella coperta? Io stanotte, rimanendo distesa, la tiro
su e la lancio sopra a tutti, così anche loro sono a letto davvero,
come me».
«Filomena, ma non sarebbe meglio che
andasse nel dormitorio pubblico? Quello almeno è riscaldato».
«Fossi matta! Io, andarmi a far
comandare? Mai. Qui faccio quello che voglio, domattina dormo fin che
mi pare. Non nevica, non piove e ho i miei cani. Le sembra che possa
abbandonarli? Sarei una sciagurata. Sapesse come sono preziosi,
buoni. Noi ci parliamo: loro capiscono tutto e io comprendo quello
che dicono con le loro abbaiate. Creda, è una vita bella. Se uno la
sa apprezzare me la invidia».
«Filomena, in macchina ho un paio di
panettoni, li vado a prendere. Ma poi i cani tornneranno a guastare
il letto, come facciamo?».
«Ci penso io: glielo dico e loro
stanno buoni. Fermi, non muovetevi. Vada pure».
Risalii, tornai giù coi panettoni e
tutti rimasero fermi e zitti: avevano proprio capito tutto, qualcuno
dimenava anche la coda, perché tornavo, o forse per i panettoni.
«Filomena, mi ha fatto piacere
rivederla, tanti auguri», e le infilai qualche banconota sotto la
coperta.
«Ciao, ciao, torni quando vuole.
Tanto, per adesso, non cambio ponte».