sabato 14 gennaio 2012

Artigiana del pianto

Carmela Verzi è sui 45 anni ma ne dimostra di più. I capelli bianchi che spuntano con due ciuffi laterali sotto il fazzoletto nero, il sottomento gonfio e flaccido, gli occhi bordati di rosso per una congiuntivite cronica la fanno più che cinquantenne. Una di queste sue condizioni, gli occhi rossi, è un attrezzo del suo mestiere, in definitiva una fortuna. Abita nel «casone», una cadente costruzione nella parte più vecchia della città. La sua famiglia assomiglia a molte altre che abitano nello stesso stabile. Suo marito soffre di artrite, almeno così dice, perciò non lavora, passa le sue giornate all’osteria, torna la sera, sempre un po’ brillo, le chiede dei soldi per l’indomani e se lei non glieli dà si arrabbia, incomincia a menar calci alle gambe della tavola.
Mirco, l’unico figlio, di 22 anni, avrà lavorato sì e no due anni, a partire dall’epoca in cui ha finito le elementari. Fa l’idraulico, ma avrà già cambiato dieci padroni. Lavora una settimana, al massimo quindici giorni, poi non ci va più, dice che lo trattano male, che hanno esigenze assurde, impossibili. Il fatto è che i padroni pretendono che lavori e lui, invece, di lavorare non ne ha voglia. Anche se non è occupato, passa il suo tempo fuori di casa, non si sa dove, torna soltanto per mangiare, talvolta passa fuori anche la notte. Mirco ha la motoretta, avuta non si sa come, forse rubata, e ha il problema della benzina, quindi anche lui si rivolge a sua madre e se lei non ha niente da dargli si infuria, bestemmia, dice che così non si può più vivere.
Dunque è lei, Carmela, che deve sopportare tutto il peso della famiglia. Nel «casone» ci sono altre due situazioni analoghe e le donne hanno scelto la soluzione marciapiede. Lei no, non si abbassa a tanto: lei ha la fortuna della congiuntivite che le mantiene gli occhi rossi, è come se avesse pianto fino a quel momento. E allora, eccolo il suo mestiere. Ogni mattina, intorno alle nove, prende un tram o un autobus verso una determinata zona della città, che varia di volta in volta. Scende, si mette a camminare, si ferma, si appoggia a un muro, si copre il viso con una mano e incomincia a singhiozzare. A volte deve continuare parecchi minuti prima che qualcuno si fermi. Finalmente c’è chi le tocca un braccio, «Signora, signora, cosa le succede?». Lei lentamente si gira, abbassa la mano, con l’altra si asciuga, scopre i suoi occhi rossi, incomincia a parlare con voce ancora rotta da un ultimo singhiozzo. «Che sventura! – incomincia a dire con la voce a tratti spezzata da tumulti di pianto. — Mia figlia, che è vedova come me, è stata portata all’ospedale ieri mattina e io devo dar da mangiare ai suoi tre bambini, ma non so come fare e per giunta il padrone di casa ci sfratta. Dio che disgrazia».
La gente si commuove, le batte una mano sulla spalla, le allunga una monetina: perché non è il mutilato che tende il cappello, qui si tratta di un caso grave, ci sono di mezzo tre bambini, bisogna offrire una somma dignitosa. Qualche volta Carmela si vede mettere in mano uno o due euro, un giorno un signore le dato un biglietto da dieci. «Grazie, grazie», singhiozza lei e poi riprende il cammino, gli occhi divorati dal pianto, il dolore incorniciato nella veste nera. All’angolo della strada gira, cammina ancora un po’ poi, improvvisamente, si appoggia al muro, si copre il viso con una mano e scoppia a piangere. «Che sventura!», dice poi, non appena qualcuno le si accosta.
È un lavoro non facile, faticoso, anche perché Carmela vi si dedica, tra il mattino e il pomeriggio, almeno sei ore al giorno. E poi deve tenere ben conto delle zone della città, in modo da non tornare nelle stesse strade, se non dopo sei mesi. Ma Carmela lo fa con passione, ci si sente portata. La pare quasi di essere una attrice. La sua, ormai, è una missione.

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