Le tue mani, nodose, malferme, non
riuscivano più a guidare la penna né a scegliere le lettere sulla
tastiera; potevano appena accennare una carezza. Le tue mani, che
avevano scritto tanto e anche forgiato tanti oggetti: il portacenere
d'argento che fa bella mostra di sé sul tavolo in sala. Il gallo
segnavento e l'elica di rame che, appena un po' invecchiati da una
patina verde, ancora rispondono ai capricci dell'aria. L'assemblaggio
di scarti di officina che, facendo il verso a Calder, accoglie i
visitatori all'ingresso.
La tua voce, irriconoscibile,
fievole, non riusciva più a trasmettere i tuoi pensieri. La tua
voce, che era stata limpida, calma, profonda. Con la quale avevi
fatto tante interviste, avevi convinto tante persone a raccontarsi.
Perso completamente l'udito – e
nessun apparecchio poteva aiutarti – avevi imparato a leggere le
labbra, e supplivi con l'intuito alle parole che non riuscivi a
cogliere.
Per un certo periodo, un bastone
era stato sufficiente ad aiutarti. Mi dicevi che eri diventato come
tuo padre, il nonno Giovanni (l'ho visto poche volte perché vivevamo
in città diverse ma lo ricordo, con il suo rustico bastone, sempre
sorridente). Dal piano di sopra ti sentivo camminare: un rumore
caratteristico. Sapevo che eri andato in sala, a guardare alla
finestra, o in cucina per bere. Ma questo rumore ogni giorno, in
maniera quasi impercettibile, si faceva più incerto, più
irregolare, più infrequente.
Una mattina mi chiamasti perché
non riuscivi ad alzarti dal letto. Ti aiutai, riuscii a vestirti e ti
misi a sedere in poltrona. Da quel momento hai sempre avuto bisogno
di una persona che ti seguisse, in tutte le fasi della giornata. Che
trauma dev'essere stato per te che eri stato così attivo: sempre in
giro per lavoro, sempre a contatto con la gente, alla ricerca delle
notizie; e poi, dopo la pensione, sempre con qualcosa da fare, da
costruire, da riparare, scrivere, dipingere.
In questo, non sei stato
fortunato. Non è una fortuna raggiungere un'età avanzata come la
tua in cattive condizioni. Non hai avuto la fortuna di chi ci arriva
bene, del vecchietto che si gode ancora la vita e poi d'improvviso,
senza avvisaglie, senza soffrire, forse senza neanche accorgersene,
in pochi secondi se ne va.
Solo la mente e la vista non ti
hanno abbandonato fino all'ultimo. Ore passate nella tua poltrona
vicino alla finestra, e quando si faceva buio accendevi la lampada
premendo l'interruttore con il bastone. Sul davanzale, una pila di
libri da leggere che si assottigliava con un ritmo impressionante. Le
mie frequenti puntate in libreria e alle bancarelle per fare
rifornimento: non bisognava lasciare che la pila si svuotasse
completamente; quelle rare volte che era capitato, eri andato in
crisi. La difficoltà di trovare qualcosa che tu non avessi già
letto.
Mi fa male però, mi disturba
ricordare questo tuo ultimo periodo, questo tuo morire poco per
volta.
* * *
Quando io ero bambino, eri
consapevole che la tua professione comportava il rischio di allentare
i rapporti con la famiglia e facevi di tutto per evitarlo. Ricordo
alcune occasioni speciali in cui qualche tua lunga inchiesta si
sovrapponeva ad una vacanza scolastica e mi portavi con te, con mille
raccomandazioni.
Il ristorante Garibaldino di
Viareggio fu per un certo periodo il ritrovo degli inviati, di tutti
i giornali, che lavoravano su un caso clamoroso degli anni sessanta.
Tra una portata e l'altra vi scambiavate informazioni e discutevate
le vostre teorie, le vostre impressioni. Un clima molto particolare:
un misto di amicizia, cameratismo, competizione, ironia; battute,
scherzi, barzellette, ma si capiva che avevate tutti le orecchie
dritte, attenti alle mezze parole, pronti a cogliere il minimo
accenno di novità.
Ero seduto tra te e un tuo
collega, dell'Unità mi pare, che mi suggerì di metterti dell'aceto
nel bicchiere. Mi lasciai facilmente plagiare: mi sembrò uno scherzo
bellissimo. Tu capisti subito che non era farina del mio sacco, ed
avesti un battibecco con lui. Il tuo rimprovero nei miei confronti fu
modesto, ma quanto mi vergognai! A fine pasto riempii di budino una
tasca della giacca del cattivo consigliere. Chi scherza dovrebbe
saper stare allo scherzo, ma non apprezzò; e non volle credere che
avessi agito di mia iniziativa.
* * *
Avevi avuto l'occasione di
incontrarti con le nuove tecnologie fin dal loro primo apparire nella
tua professione. La Stampa ti aveva dotato di un Olivetti M10,
un computer portatile delle dimensioni, più o meno, di un elenco del
telefono e con prestazioni che oggi farebbero sorridere; ma
sufficiente per battere un articolo e trasmetterlo via modem,
saltando il passaggio lungo, faticoso e facile agli errori della
dettatura allo stenografo (già allora, a metà anni ottanta, la
tecnologia informatica cominciava a erodere posti di lavoro). Nel
modem, grosso poco meno di una scatola da scarpe, bisognava inserire
la cornetta del telefono; ma, per la buona riuscita della
trasmissione, era prima necessario sostituire la capsula del
microfono con una speciale, più sensibile, che ti era stata data in
dotazione. Questa operazione non comportava danni per il telefono ma
si trattava comunque di svitare, togliere, mettere, riavvitare: un
traffico, insomma, che non passava inosservato e non poteva non
creare qualche preoccupazione al proprietario del telefono stesso,
per cui di solito ti premuravi di avvertirlo preventivamente e di
ottenerne il consenso.
Una volta però, mi raccontasti,
ti toccò trasmettere da un telefono pubblico, sotto gli occhi dei
passanti. Qualcuno notò il tuo armeggiare ed avvertì i Carabinieri
che, intervenuti prontamente, ti portarono in caserma per
accertamenti, sospetto di vandalismo. Alla fine ti credettero –
faceva parte del tuo mestiere saper convincere le persone – ma temo
che, quella volta, il tuo articolo sia arrivato in ritardo.
Ti eri poi tenuto aggiornato con
l'evoluzione del computer e riuscivi a destreggiarti anche con le
versioni recenti dei programmi di videoscrittura. Ti dilettavi di
fotografia ed avevi accettato la novità della fotografia digitale
(con qualche rimpianto per la vecchia Contarex, a cui eri
affezionato). Una volta, dopo avermi spedito per posta elettronica
delle immagini che avevi scattato, ti stupisti di averle ancora: «Ma
come, non te le avevo mandate?» Io avevo sorriso a questa tua
ingenuità, al confondere un file con un oggetto materiale.
Eppure, a ripensarci, non era così assurda la tua idea: far sì che
una manciata di bit abbia una
sua identità unica, che non possa essere in due posti diversi
contemporaneamente, è indispensabile in certi casi, come sa chi
possiede moneta virtuale.
Infine questo blog, dove hanno
trovato posto tanti ritagli, accumulati negli anni, fin quasi agli
ultimi momenti. Pubblicati con incostanza: la mia incostanza, perché
lasciavi a me questo incarico, e il mio lavoro spesso me ne faceva
dimenticare. Sul tuo computer c'è ancora tanto materiale;
proseguirò, è un modo per sentirti vicino.
* * *
Ti sento ancora vicino: anzi, in
certi momenti arrivo a dimenticare che non ci sei più. Mi capita al
mattino, appena sveglio, di pensare che devo venire da te, a vedere
come stai. Mi capita, se vedo un libro che tu mi avevi chiesto e non
ero riuscito a procurarti, di rallegrarmi perché finalmente l'ho
trovato. Mi capita di chiedermi come reagirai ad un certo fatto, ad
una certa notizia; persino adesso, per un attimo mi son chiesto se ti
piacerà quello che sto scrivendo. Poi, subito, mi rendo conto
dell'illusione.
Non sono confortato, come eri tu, dalla convinzione che un giorno ci si sarebbe tutti ritrovati. È la memoria, la memoria di grandi e piccole cose, a darmi qualche sollievo.
Daniele Lugli
Non sono confortato, come eri tu, dalla convinzione che un giorno ci si sarebbe tutti ritrovati. È la memoria, la memoria di grandi e piccole cose, a darmi qualche sollievo.
Daniele Lugli