Sua madre entrò, si diresse
alla finestra, sollevò l'avvolgibile, la luce invase la stanza.
«Sono quasi le otto» gridò. «Maria, alzati!» La ragazza aveva
coperta anche la testa, stava immobile, ma non dormiva. «Non
arriverai più in tempo» incalzò la madre. Maria si districò
lentamente dall'involucro di lenzuola e coperte, lanciò piccoli
gemiti come se in quel momento si stesse svegliando, poi disse:
«Questa mattina non ci vado, in ufficio. Ho tutte le ossa rotte,
credo d'avere avuto la febbre stanotte». La madre le si avvicinò,
le posò una mano sulla fronte: «Adesso non sembra» disse. «Vuoi
che telefoni in ufficio?» «Sì, grazie. Di' che tornerò a lavorare
appena starò meglio. Ora cerco di dormire di nuovo».
La madre riabbassò
l'avvolgibile, la figlia la fermò prima che la serranda fosse
completamente chiusa. C'era rimasto uno spiraglio di una decina di
centimetri attraverso il quale dal letto si vedeva una terrazza della
casa di fronte, due piani più in su, con panni stesi, battuti dal
vento e dal sole. «Basta così, grazie» disse la ragazza. La madre
si avviò alla porta. «Più tardi ti porto il latte. Se hai bisogno
chiamami». Maria girò lo sguardo alle cose della stanza un po'
confuse nella penombra, guardò attraverso la fessura della finestra
la macchia chiara della terrazza illuminata. Aveva voglia di
piangere. Aveva già pianto a mezzanotte quando si era coricata.
Anche adesso pensava alle parole che Giulio le aveva detto la sera
prima, tornando dal cinema.
Giulio era cassiere
nell'ufficio accanto al suo. Erano amici da tempo, ma negli ultimi
mesi la loro amicizia si era fatta più intima. Lui era gentile,
premuroso, buono; e scapolo. Aveva trentotto anni, due più di lei. A
quell'età doveva per forza pensare al matrimonio, a una casa. Maria
studiava le sue parole, i sottintesi, cercava di scoprire le
intenzioni nascoste. Giulio le piaceva, sperava di sentirsi dire da
lui, una volta o l'altra, che le voleva bene. Nel pomeriggio del
giorno prima, uscendo dall'ufficio, l'aveva invitata al cinema per la
sera, come altre volte, per stare un poco in compagnia. Dopo lo
spettacolo, in auto, mentre l'accompagnava a casa, le aveva detto:
«Ho bisogno di confidarmi con te, ascoltami, ti prego». Lei si era
sentita le gambe tremare all'improvviso, le sembrava già di udire le
sue parole d'amore, avrebbe voluto abbracciarlo subito, prima ancora
che incominciasse a parlare. Invece Giulio aveva detto: «Sono
innamorato di una ragazza che ha vent'anni, è ricchissima, capisco
che non è assolutamente adatta a me e che nemmeno mi vorrebbe, ma
sono testardo, non so dimenticarla, come devo fare?»
Maria era rimasta in silenzio.
Le era venuto un nodo alla gola e si sentiva come sprofondata nel
sedile, il tremore di prima alle gambe s'era d'improvviso tramutato
in un vuoto, un'insensibilità, come se gli arti non le
appartenessero più, se in quel momento avesse dovuto scendere certo
non l'avrebbero retta in piedi. Giulio aveva accostato l'auto sulla
destra, in uno spiazzo libero del viale che percorrevano. Lui
aspettava una sua risposta, ma lei non parlava, il nodo alla gola le
aveva tolto anche la parola. «E allora cosa mi dici?» le aveva
chiesto vedendo che l'attesa si prolungava. Con grande fatica Maria
era riuscita ad aprire bocca. «Sono cose troppo personali, non si
possono dare dei consigli, sei tu che devi decidere».
A casa s'era buttata sul
letto e aveva pianto. S'era addormentata tardissimo e s'era svegliata
presto. Pensava a Giulio e pensava ai propri trentasei anni.
Trentasei per modo di dire: ne avrebbe compiuti trentasette dopo
dodici giorni, il ventiquattro marzo. Era una data che ormai odiava;
odiava anche la primavera, i primi caldi soli, i primi venti, le
viole nelle prode delle strade di periferia, perché le ricordavano
l'imminente scadenza.
Pensava ad altri compleanni
lontani: il diciottesimo, il ventesimo, quando c'era ancora suo padre
e ogni anno a primavera facevano un viaggio. I vent'anni li aveva
compiuti a Innsbruck. Al mattino avevano visitato l'Hofgarten, il
giardino imperiale; a mezzogiorno, rientrando all'albergo dove erano
alloggiati - il Greif, ne ricordava ancora il nome - aveva trovato un
telegramma per lei. Era di Rolando; diceva: "Hai voluto partire
nonostante la mia proibizione: non cercarmi più". Rolando, il
suo primo fidanzato, era gelosissimo, a volte insopportabile. Lei
aveva scrollato le spalle: le importava poco che Rolando la
lasciasse, aveva tempo e si sentiva bella. Poi aveva incontrato
Sergio. Si erano voluti molto bene, ma avevano anche avuto liti
furibonde; era finita male, addirittura a schiaffi e a calci. Anche
con gli altri, dopo, non era mai stata fortunata, o per un motivo o
per l'altro.
Fissava la terrazza della casa
di fronte: oltre la ringhiera si vedevano sbattere al vento un
asciugamano bianco e una sottana gialla. Davanti all'asciugamano si
fermò un bambino, si chinò, si alzò, si tornò a chinare, ora si
vedeva soltanto la sua testa muoversi in maniera appena percettibile:
evidentemente stava giocando con qualcosa che era sul pavimento.
Maria avrebbe voluto che se ne andasse: c'erano già di troppo, su
quella terrazza, anche il vento e il sole.
Il bambino le ricordava
Michele. Michele era stato l'ultimo, prima che lei incominciasse a
pensare a Giulio. Michele si era fidanzato regolarmente. «Ci
sposiamo presto» le diceva. Era di un'altra città, faceva il
tecnico di macchinari per arti grafiche; era venuto per assistere gli
operai che montavano una macchina svizzera in una tipografia. «Ti
sposo presto» ripeteva; ma non andava mai oltre questa generica
promessa. Lei si sarebbe aspettata che facesse qualche progetto, che
indicasse una data probabile, che esprimesse qualche idea su quella
che sarebbe potuta essere la loro casa. Le diceva invece, tante
volte, che aveva un corpo magnifico, che era stupenda, una donna
meravigliosa e lei, a quei complimenti, socchiudeva gli occhi per la
soddisfazione, quasi inebetita. Poi, un giorno, l'angosciosa
scoperta: Michele era sposato e aveva due bambini. Quando Maria
gliel'aveva rinfacciato lui si era messo a piangere, le aveva chiesto
perdono. Una scena melodrammatica. Ma c'era poco da fare, se non
troncare. E si erano lasciati, lei furibonda, ingiuriante, lui sempre
piangente, strisciante, implorante perdono.
Ora le pareva di risentire
quelle sue parole che sapeva sussurrare con tanta abilità nei
momenti di esaltazione amorosa: «Hai un corpo magnifico, sei
stupenda». Era vero oppure Michele mentiva anche in quelle
affermazioni? Maria cercò di figurarsi il proprio corpo, era tanto
che non l'aveva guardato con occhio critico. Le venne un improvviso
desiderio di vederlo, di scrutarlo, di ammirarlo. Se l'avesse trovato
ancora piacente forse avrebbe potuto riconquistare un po' di fiducia,
un'ultima speranza. Scese dal letto, infilò le pantofole, andò
davanti allo specchio dell'armadio. Ebbe subito un moto di disappunto
guardandosi in faccia: gli occhi erano gonfi, scuri, i capelli
scomposti; ma forse la scarsa luce contribuiva a peggiorare
l'immagine. Andò a sollevare un po' la serranda, tornò allo
specchio, si sforzò di sorridere, pensò che il trucco l'avrebbe
trasformata, non poteva giudicarsi in quelle condizioni. Si strinse
la vita tra gli indici e i pollici facendo aderire la camicia da
notte: la vita era ancora sottile, il petto florido. Si passò una
mano sui capelli, sorrise. Ora non pensava a nulla, si limitava a
sorridere a se stessa senza sapere il perché.
Si scosse al suono del
campanello, nell'ingresso. Sentì sua madre avviarsi ad aprire. Tornò
a letto, ad ascoltare. Era la voce di un uomo quella che si sentiva
di là. Maria cercava di decifrare le parole, ma non ci riusciva; ora
la voce si spostava per il corridoio, entrava nel salotto. Maria
attese ancora qualche minuto poi suonò il campanello interno e sua
madre venne sull'uscio. «Chi è?» chiese la ragazza. «È il
tecnico della tivù, è venuto per l'audio del televisore, dice che il
guasto lo può riparare qui, ha già incominciato». La madre uscì
di nuovo. Maria si stirò, rimise i piedi a terra, s'infilò le
pantofole, la vestaglia, uscì dalla stanza, entrò in bagno. Poi
ritornò in camera, si sedette alla toeletta, incominciò a
massaggiarsi il viso, scelse il vasetto della crema, il tubetto del
rossetto, la boccetta del profumo. Si pettinò con cura, tuttavia
senza indugiare. Vide il volto rifiorire, pensò che non era un
volto brutto, forse non dimostrava nemmeno gli anni che aveva.
Quando fu pronta si alzò, si
diresse alla porta, ma sostò un attimo a guardarsi nello specchio
grande dell'armadio. Uscì, nel corridoio si fermò, si ripassò una
mano sui capelli con morbidezza per accertarsi che fossero proprio a
posto. Dal salotto veniva il gracchiare metallico e confuso del
televisore che il tecnico stava riparando. Posò la mano sulla
maniglia, entrò.
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