domenica 11 ottobre 2015

La speranza

Sua madre entrò, si diresse alla finestra, sollevò l'avvolgibile, la luce invase la stanza. «Sono quasi le otto» gridò. «Maria, alzati!» La ragazza aveva coperta anche la testa, stava immobile, ma non dormiva. «Non arriverai più in tempo» incalzò la madre. Maria si districò lentamente dall'involucro di lenzuola e coperte, lanciò piccoli gemiti come se in quel momento si stesse svegliando, poi disse: «Questa mattina non ci vado, in ufficio. Ho tutte le ossa rotte, credo d'avere avuto la febbre stanotte». La madre le si avvicinò, le posò una mano sulla fronte: «Adesso non sembra» disse. «Vuoi che telefoni in ufficio?» «Sì, grazie. Di' che tornerò a lavorare appena starò meglio. Ora cerco di dormire di nuovo».
La madre riabbassò l'avvolgibile, la figlia la fermò prima che la serranda fosse completamente chiusa. C'era rimasto uno spiraglio di una decina di centimetri attraverso il quale dal letto si vedeva una terrazza della casa di fronte, due piani più in su, con panni stesi, battuti dal vento e dal sole. «Basta così, grazie» disse la ragazza. La madre si avviò alla porta. «Più tardi ti porto il latte. Se hai bisogno chiamami». Maria girò lo sguardo alle cose della stanza un po' confuse nella penombra, guardò attraverso la fessura della finestra la macchia chiara della terrazza illuminata. Aveva voglia di piangere. Aveva già pianto a mezzanotte quando si era coricata. Anche adesso pensava alle parole che Giulio le aveva detto la sera prima, tornando dal cinema.
Giulio era cassiere nell'ufficio accanto al suo. Erano amici da tempo, ma negli ultimi mesi la loro amicizia si era fatta più intima. Lui era gentile, premuroso, buono; e scapolo. Aveva trentotto anni, due più di lei. A quell'età doveva per forza pensare al matrimonio, a una casa. Maria studiava le sue parole, i sottintesi, cercava di scoprire le intenzioni nascoste. Giulio le piaceva, sperava di sentirsi dire da lui, una volta o l'altra, che le voleva bene. Nel pomeriggio del giorno prima, uscendo dall'ufficio, l'aveva invitata al cinema per la sera, come altre volte, per stare un poco in compagnia. Dopo lo spettacolo, in auto, mentre l'accompagnava a casa, le aveva detto: «Ho bisogno di confidarmi con te, ascoltami, ti prego». Lei si era sentita le gambe tremare all'improvviso, le sembrava già di udire le sue parole d'amore, avrebbe voluto abbracciarlo subito, prima ancora che incominciasse a parlare. Invece Giulio aveva detto: «Sono innamorato di una ragazza che ha vent'anni, è ricchissima, capisco che non è assolutamente adatta a me e che nemmeno mi vorrebbe, ma sono testardo, non so dimenticarla, come devo fare?»
Maria era rimasta in silenzio. Le era venuto un nodo alla gola e si sentiva come sprofondata nel sedile, il tremore di prima alle gambe s'era d'improvviso tramutato in un vuoto, un'insensibilità, come se gli arti non le appartenessero più, se in quel momento avesse dovuto scendere certo non l'avrebbero retta in piedi. Giulio aveva accostato l'auto sulla destra, in uno spiazzo libero del viale che percorrevano. Lui aspettava una sua risposta, ma lei non parlava, il nodo alla gola le aveva tolto anche la parola. «E allora cosa mi dici?» le aveva chiesto vedendo che l'attesa si prolungava. Con grande fatica Maria era riuscita ad aprire bocca. «Sono cose troppo personali, non si possono dare dei consigli, sei tu che devi decidere».
A casa s'era buttata sul letto e aveva pianto. S'era addormentata tardissimo e s'era svegliata presto. Pensava a Giulio e pensava ai propri trentasei anni. Trentasei per modo di dire: ne avrebbe compiuti trentasette dopo dodici giorni, il ventiquattro marzo. Era una data che ormai odiava; odiava anche la primavera, i primi caldi soli, i primi venti, le viole nelle prode delle strade di periferia, perché le ricordavano l'imminente scadenza.
Pensava ad altri compleanni lontani: il diciottesimo, il ventesimo, quando c'era ancora suo padre e ogni anno a primavera facevano un viaggio. I vent'anni li aveva compiuti a Innsbruck. Al mattino avevano visitato l'Hofgarten, il giardino imperiale; a mezzogiorno, rientrando all'albergo dove erano alloggiati - il Greif, ne ricordava ancora il nome - aveva trovato un telegramma per lei. Era di Rolando; diceva: "Hai voluto partire nonostante la mia proibizione: non cercarmi più". Rolando, il suo primo fidanzato, era gelosissimo, a volte insopportabile. Lei aveva scrollato le spalle: le importava poco che Rolando la lasciasse, aveva tempo e si sentiva bella. Poi aveva incontrato Sergio. Si erano voluti molto bene, ma avevano anche avuto liti furibonde; era finita male, addirittura a schiaffi e a calci. Anche con gli altri, dopo, non era mai stata fortunata, o per un motivo o per l'altro.
Fissava la terrazza della casa di fronte: oltre la ringhiera si vedevano sbattere al vento un asciugamano bianco e una sottana gialla. Davanti all'asciugamano si fermò un bambino, si chinò, si alzò, si tornò a chinare, ora si vedeva soltanto la sua testa muoversi in maniera appena percettibile: evidentemente stava giocando con qualcosa che era sul pavimento. Maria avrebbe voluto che se ne andasse: c'erano già di troppo, su quella terrazza, anche il vento e il sole.
Il bambino le ricordava Michele. Michele era stato l'ultimo, prima che lei incominciasse a pensare a Giulio. Michele si era fidanzato regolarmente. «Ci sposiamo presto» le diceva. Era di un'altra città, faceva il tecnico di macchinari per arti grafiche; era venuto per assistere gli operai che montavano una macchina svizzera in una tipografia. «Ti sposo presto» ripeteva; ma non andava mai oltre questa generica promessa. Lei si sarebbe aspettata che facesse qualche progetto, che indicasse una data probabile, che esprimesse qualche idea su quella che sarebbe potuta essere la loro casa. Le diceva invece, tante volte, che aveva un corpo magnifico, che era stupenda, una donna meravigliosa e lei, a quei complimenti, socchiudeva gli occhi per la soddisfazione, quasi inebetita. Poi, un giorno, l'angosciosa scoperta: Michele era sposato e aveva due bambini. Quando Maria gliel'aveva rinfacciato lui si era messo a piangere, le aveva chiesto perdono. Una scena melodrammatica. Ma c'era poco da fare, se non troncare. E si erano lasciati, lei furibonda, ingiuriante, lui sempre piangente, strisciante, implorante perdono.
Ora le pareva di risentire quelle sue parole che sapeva sussurrare con tanta abilità nei momenti di esaltazione amorosa: «Hai un corpo magnifico, sei stupenda». Era vero oppure Michele mentiva anche in quelle affermazioni? Maria cercò di figurarsi il proprio corpo, era tanto che non l'aveva guardato con occhio critico. Le venne un improvviso desiderio di vederlo, di scrutarlo, di ammirarlo. Se l'avesse trovato ancora piacente forse avrebbe potuto riconquistare un po' di fiducia, un'ultima speranza. Scese dal letto, infilò le pantofole, andò davanti allo specchio dell'armadio. Ebbe subito un moto di disappunto guardandosi in faccia: gli occhi erano gonfi, scuri, i capelli scomposti; ma forse la scarsa luce contribuiva a peggiorare l'immagine. Andò a sollevare un po' la serranda, tornò allo specchio, si sforzò di sorridere, pensò che il trucco l'avrebbe trasformata, non poteva giudicarsi in quelle condizioni. Si strinse la vita tra gli indici e i pollici facendo aderire la camicia da notte: la vita era ancora sottile, il petto florido. Si passò una mano sui capelli, sorrise. Ora non pensava a nulla, si limitava a sorridere a se stessa senza sapere il perché.
Si scosse al suono del campanello, nell'ingresso. Sentì sua madre avviarsi ad aprire. Tornò a letto, ad ascoltare. Era la voce di un uomo quella che si sentiva di là. Maria cercava di decifrare le parole, ma non ci riusciva; ora la voce si spostava per il corridoio, entrava nel salotto. Maria attese ancora qualche minuto poi suonò il campanello interno e sua madre venne sull'uscio. «Chi è?» chiese la ragazza. «È il tecnico della tivù, è venuto per l'audio del televisore, dice che il guasto lo può riparare qui, ha già incominciato». La madre uscì di nuovo. Maria si stirò, rimise i piedi a terra, s'infilò le pantofole, la vestaglia, uscì dalla stanza, entrò in bagno. Poi ritornò in camera, si sedette alla toeletta, incominciò a massaggiarsi il viso, scelse il vasetto della crema, il tubetto del rossetto, la boccetta del profumo. Si pettinò con cura, tuttavia senza indugiare. Vide il volto rifiorire, pensò che non era un volto brutto, forse non dimostrava nemmeno gli anni che aveva.
Quando fu pronta si alzò, si diresse alla porta, ma sostò un attimo a guardarsi nello specchio grande dell'armadio. Uscì, nel corridoio si fermò, si ripassò una mano sui capelli con morbidezza per accertarsi che fossero proprio a posto. Dal salotto veniva il gracchiare metallico e confuso del televisore che il tecnico stava riparando. Posò la mano sulla maniglia, entrò.


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