Giravo per la Riviera in cerca
di appartamenti e ville in vendita. Lavoravo per conto di una società
che acquistava immobili nelle località turistiche per rivenderli poi
ai ricchi stanchi di far quattrini in città o tormentati dai
reumatismi, che andavano cercando la primavera anche d'inverno. Il
mio compito era quello di segnalare alla società non solo gli
stabili che venivano spontaneamente offerti sul mercato, ma anche –
anzi, specialmente – quelli per i quali v'erano nascoste
prospettive di vendita. L'esperienza dimostrava che, proprio quando i
proprietari erano ancor lontani dalla decisione di alienare i loro
beni, c'erano maggiori probabilità di successo e di guadagno. Io
scrivevo o telefonavo in sede i risultati delle mie indagini e subito
entravano in azione altri funzionari che incominciavano i sondaggi e
gli approcci per le prime offerte.
A L., il proprietario del bar
dove mi ero fermato e, senza fretta, avevo attaccato discorso, mi
indicò una villetta in una piccola insenatura, tra la strada e il
mare. Il terreno digradava dolcemente verso gli scogli; rispetto ai
pendii aspri e ripidi che erano a monte della litoranea, quell'area,
verde di olivi, di timi e di lauri, sembrava godere di un premio. Era
mollemente distesa nel caldo sole di marzo e su di essa il profumo
degli arbusti aleggiava, si alternava al pizzico salmastro portato
dall'aria assieme al ritmico battito dell'onda contro gli scogli
vicini, ma pure invisibili oltre le macchie della vegetazione. Una
strada bianca di polvere, delimitata col pastello verde cupo di due
siepi di bosso, ornava con le sue volute quel pezzetto di terra.
La villa era rosa, d'un rosa
pallido e tenero come era pallido e tenero il verde degli ulivi.
Aveva un balcone d'angolo con il parapetto guarnito di fiori. A mano
a mano che scendevo con l'automobile per la stradetta bianca la villa
mi precisava i suoi contorni, le sue proporzioni, il colore dei suoi
fiori. Non sarebbe stato certo difficile venderla, così quieta
com'era, assisa davanti al mare. Ma prima doveva essere comperata.
Quando fui quasi di fronte
alla costruzione vidi una donna uscire dal cancelletto ed avviarsi
nella direzione opposta alla mia. Rallentai, fermai la macchina al
suo fianco, salutai con la mano fuori dal finestrino. «Scusi,
signora» chiesi, «mi sa dire chi abita qui?» La donna aveva una
cinquantina d'anni, era magra, priva di due denti incisivi, con i
capelli grigi, un vestitino nero a bolli bianchi che poteva anche
essere un grembiule da lavoro. Si chinò per abbassare la testa
all'altezza del finestrino, posò una mano sul bordo del vetro. «Il
cavalier Timoteo Rebecchi» rispose e, dopo un attimo di sospensione,
chiese: «Cosa vuole da lui?» Dissi che mi interessava sapere se la
villa era in vendita. «Non adesso» s'affrettò a dire la donna. Lo
disse con voce sommessa, come se avesse paura d'essere sentita.
«Quando?» chiesi io. La donna sollevò la mano dal vetro, la tenne
a mezz'aria in un atteggiamento interrogativo. «Non so» disse;
poi: «forse fra due mesi, un mese».
Non capivo. Soprattutto non
capivo quell'aria di mistero che era più nella sua voce che nelle
sue parole. «E perché non adesso?» domandai. «Perché lui è
malato, è molto malato. Io lo so. Sono al suo servizio da quando
avevo dieci anni: lo so che non c'è più speranza». «Posso
chiedergli se vende?» domandai. «No, no, non è possibile. Se
andassi al suo capezzale per dirgli che c'è gente che vuole
comperare la villa, immaginerebbe la gravità della situazione,
intuirebbe d'essere vicino alla fine».
«Allora» dissi, «come devo
fare per sapere se la villa si può comperare?» La donna distese
l'avambraccio sul bordo del finestrino, si curvò maggiormente, venne
con il suo viso a un palmo dal mio, tacque un momento poi parlò
ancora sommessamente: «Ritorni tra due mesi». Rimasi in silenzio.
Mi aveva colpito la sicurezza con la quale la donna aveva fissato
quel termine. «Che cosa ha» chiesi, «male di cuore?» La donna si
sollevò per fare un gesto con il braccio: «Magari fosse male di
cuore! È un brutto male, un brutto male» ripeté con la desolazione
che si prova davanti a una condanna inappellabile.
Nel riquadro del finestrino
vedevo la donna e a fianco di lei vedevo parte della villa, con le
imposte socchiuse, i fiori vivaci sul balconcino, e dietro la chiazza
rosa della villa il nero della montagna che s'alzava al di là della
strada litoranea e l'azzurro del cielo. Il padrone era grave, stava
per morire, secondo quanto affermava la donna, ma io in quel momento
non pensavo tanto a lui quanto alla villa, all'affare che la villa
rappresentava, alle parole che avrei adoperato per annunciare al mio
direttore il possibile acquisto.
«Tra due mesi» dissi alla
donna seguendo un subitaneo pensiero «chissà chi trovo qui dentro».
Lei atteggiò il viso a un misurato sorriso o a una espressione
composta di tranquillità e di soddisfazione insieme. Disse: «Non si
preoccupi: ci sarò io, qui. Il cavaliere non ha altri all'infuori di
me, io gli ho dedicato tutta la vita e lui ha lasciato una carta a
mio favore. Ci sarò io». Non mi decidevo a ripartire. Continuavo a
guardare oltre le spalle della donna la macchia rosa della casa e
l'azzurro del cielo, poi guardavo gli occhi di lei. «Non abbia
paura» disse ancora la donna. «Vada tranquillo, non sarà venduta
prima. Ripassi fra un paio di mesi, magari fra un mese e mezzo».
Avviai il motore e lei mi sorrise, mi salutò con un cenno della mano
che pareva quasi un'intesa.
Continuai a girare nella zona
per qualche giorno, poi cambiai località, mi spinsi più a ponente,
vicino alla frontiera. Ma per poco tempo, perché una sera rientrai
in albergo con la febbre alta. Era un attacco di orticaria e si
protrasse per una settimana. Alla fine, quando credevo di poter
riprendere il lavoro, fui colpito da una colica renale che mi sfibrò.
Avevo bisogno di riposo e lo dissi per telefono al mio direttore. Lui
mi invitò ad andarmene a casa e a rimanerci tranquillo per una
quindicina di giorni. Quando mi ripresentai in ufficio trovai una
novità: ero destinato in montagna, sulle Alpi trentine.
Ripresi là il mio lavoro. A
volte facevo lunghe camminate per raggiungere case o ville isolate:
l'aria e il moto mi ritempravano la salute. Finivo di visitare una
borgata, mi spostavo di qualche centinaio di metri e dietro una curva
della strada spuntava un altro paese. Ricominciavo da capo. Così i
giorni passavano e l'estate avanzava. Una sera, mentre cercavo
sonno, mi sovvenne della villetta rosa in riva al mare. Ebbi la
sensazione di essermi lasciata sfuggire un'occasione e mi chiesi come
mai non mi ero ricordato prima di quell'affare.
Con il pensiero riandai a
quella vista, cercai di localizzarla nel tempo e vi riuscii facendo
riferimento al periodo in cui ero stato ammalato: erano passati due
mesi e mezzo. Certo il cavalier Timoteo Rebecchi aveva finito di
soffrire. Ricordavo la domestica mentre diceva: «È un brutto male,
è un brutto male»; si capiva da quelle parole che la fine sarebbe
stata imminente. Avrei voluto essere con un balzo in Riviera,
scendere la stradetta bianca fra le siepi di bosso.
Impensatamente, dieci giorni
dopo mi fecero rientrare in sede. Ne approfittai per parlare della
villetta rosa al direttore. Ottenni l’incarico di partire per L.
L'indomani mattina, verso mezzogiorno, ero in vista della insenatura
davanti alla quale si stendeva il terreno verde di ulivi, di timi e
di lauri. Imboccavo la strada bianca, scendevo verso il mare, vedevo
la villa stagliata sotto il sole. Fermai la macchina, scesi, passai
il cancelletto, che era aperto; suonai alla porta. Trascorse un
minuto, che fu lungo; pensavo già che non ci fosse nessuno: morto il
padrone, allontanata la domestica.
Improvvisamente e in silenzio
la porta si aprì: mi comparve davanti un vecchio piccolo, con il
pizzo bianco, la zazzera sul colletto della giacca da camera. Gli
diedi il buongiorno poi rimasi impacciato. Finalmente chiesi del cavalier Timoteo Rebecchi. «Sono io» disse il vecchio e mi fece entrare. Io
deglutii, lo ringraziai. Ci sedemmo in un salotto in penombra. «Sono
venuto» dissi, cercando di parlare con calma e chiarezza, «a
vedere se lei è disposto a vendere la sua villa». Il vecchio mi
lasciò spiegare chi ero e per conto di quale società parlavo.
«Lei è venuto in un momento
propizio» disse poi. «Proprio in questi giorni stavo pensando
all'opportunità di trasferirmi in albergo. Io sono solo, esco adesso
da una lunga malattia e per giunta sono rimasto anche senza
domestica». «Come mai?» chiesi io, senza avvedermi di
interromperlo. «Poveretta» disse il vecchio, «se n'è andata
improvvisamente due mesi fa, una sera, mentre era seduta a fianco del
mio letto a tenermi compagnia. Ha fatto una smorfia e si è
accasciata in avanti: il cuore... Adesso, così solo, in questa casa
troppo grande per me, non mi ci trovo più. Ho pensato di andare in
albergo dove ci sia personale di servizio e movimento, gente con cui
stare in compagnia. Posso prendere in esame la sua proposta».
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