martedì 11 agosto 2015

L'imprevisto

Continuava a nevicare. Erano dieci giorni che i quattro operai aspettavano di poter eseguire i controlli agli impianti della diga per i quali erano saliti fin lassù. A duemila metri di quota, circondati da un paesaggio sommerso dalla neve, non avevano altra scelta che quella di rimanere rintanati nella casa del custode. E passavano il tempo giocando ai dadi. Era stato Carletto, il più giovane, ad avere l'idea. Carletto, abile sciatore, scendeva in paese ogni tre giorni. Andava giù nel pomeriggio e ritornava l'indomani mattina con uno zaino di provviste. Una faticaccia: sci in discesa e racchette ai piedi nella salita. Da quindici giorni il gatto delle nevi, il mezzo cingolato in dotazione alla centrale, era guasto; si aspettava che un meccanico potesse salire per ripararlo, ma non arrivava mai. Così era stato deciso che i quattro, ormai saliti, aspettassero di poter eseguire il loro lavoro e uno di loro provvedesse ai rifornimenti a piedi.
Carletto affrontava la fatica e i disagi del viaggio per le provviste e, cosa segreta ma per lui molto importante, per mantenere i contatti con il mondo femminile. In paese aveva la fama d'essere un conquistatore di donne. Di questo argomento non parlava mai: era uno di quelli che tacciono, ma agiscono. I compaesani dicevano ci fossero sempre almeno due ragazze che si consideravano fidanzate legittimamente con lui.
Una mattina, dunque, Carletto arrivò alla diga con i dadi. Li gettò sulla tavola in mezzo alle pagnotte, alle scatolette di carne, ai formaggi e ai pacchetti di sigarette: cinque dadi da poker con relativo bossolo di cuoio, bellissimi. Olivo e Adeodato li guardarono un po' stupiti, coi dadi non avevano mai giocato. Lino invece li aveva usati qualche volta, da militare. «Con questi passeremo il tempo bene» aveva detto Carletto, poi aveva spiegato le regole del gioco: «Si buttano i dadi: per il punteggio contano soltanto il re, che vale cinquanta punti, e l'asso, che ne vale cento. Fin che si fanno punti, si possono tirare i rimanenti dadi e se vengono tutt'e cinque si fa un altro giro. Qui però viene il bello» aveva sottolineato Carletto: «se nessun dado presenta un re o un asso, cioè se si fa cista, termine che indica zero punti, quelli appena realizzati si annullano e il punteggio rimane fermo come al precedente giro. Vince chi supera per primo duemila».
Dapprincipio Olivo e Adeodato avevano giocato con un certo impaccio perchè faticavano a prendere dimestichezza con le regole; poi, via via, avevano snellito i loro gesti e avevano messo nel gioco passione e entusiasmo. La posta era bassa, cinque euro, tanto per ravvivare le partite con l'interesse. Tuttavia erano tante le ore della giornata dedicate al gioco che al momento d'andar a letto qualcuno, bersagliato dalla sfortuna, poteva aver perduto anche più di cento euro. Aveva però la speranza di rifarsi il giorno dopo.
Ma ciò che dava vivacità alle partite non era tanto la paura di perdere molto denaro o la speranza di vincerlo, quanto la lotta che i giocatori ingaggiavano con la iettatura. Era stato Carletto, superstizioso sfegatato, che aveva portato, oltre alla smania per il gioco, il clima degli scongiuri. Sicché ogni lancio dei dadi era preceduto da parole propiziatorie del giocatore e da altre di malaugurio da parte dei rivali. Nella cucina del custode sembrava ci fossero non quattro giocatori ma venti, tante erano le risate, le imprecazioni, le grida di entusiasmo che via via si alternavano o si sommavano. Ma il tutto in una atmosfera bonaria, divertente anche per chi perdeva.
A mano a mano che passavano i giorni Adeodato si andava facendo il più accanito dei giocatori e affrontava ogni partita con l'impegno di chi si accinge a un compito di bravura. Il suo occhio scrutava con rapidità i dadi sulla tavola e il foglietto dei risultati; le sue mani tradivano l'emozione e il nervosismo con il continuo sfregamento dei polpastrelli sul palmo; le sue labbra bisbigliavano frasi di evocazione. Se il suo punteggio non procedeva di pari passo con quello degli altri, si lamentava come se fosse stato colpito da una sventura. Ma se la fortuna lo assisteva facendo balzare avanti i suoi punti, allora Adeodato trattava gli avversari con superiorità, li sbeffeggiava, rideva a crepapelle davanti a chi lanciava i dadi senza fare un punto. «Ha fatto cista» gridava, «ha fatto cista, cista, come gli sta bene questa cista». Ripeteva questa strana parola, che aveva sentito per la prima volta sulla bocca di Carletto, come se gli fosse familiare dall'infanzia. «Càlmati, càlmati» gli dicevano gli altri, «non ti esaltare troppo, lasciaci giocare tranquilli».
Un pomeriggio Adeodato, nel primo giro di una partita, fece duemila punti. Si mise a fare salti di gioia. «Guardate che giocatore, sono» diceva. «Provate voi, se siete capaci di fare qualcosa del genere». La partita praticamente l'aveva già vinta: Carletto aveva 150 punti, Lino 300 e Olivo appena 50. Chi poteva avere una fortuna come la sua, per fare un balzo tale da oltrepassare i duemila? E poi, a lui restava sempre l'ultima parola: chissà quanti altri punti avrebbe azzeccato.
«Bene» disse Carletto afferrando il bossolo con i dadi, «quanto vuoi scommettere che vinco io?» Adeodato gli fece una risata sulla faccia.
«Ti vuoi proprio suicidare» disse.
«Se perdo ti do cento volte la puntata, cinquecento euro; ma se vinco» e qui Carletto fece una pausa guardando l'amico fissamente negli occhi «mi lasci andare a portare i saluti a tua moglie, stasera, quando scendo in paese».
Ci fu silenzio. Adeodato si fece improvvisamente serio. Per la sua mente passarono, rapidi, molti pensieri: la fama di dongiovanni di Carletto; la propria moglie bella, giovane, sola nella casetta appartata dietro la chiesa; la provocazione che l'amico gli stava facendo, perché era evidente che, se gli chiedeva il permesso di andarla a «salutare», intendeva in realtà chiedergli il permesso di andarla a insidiare. Ma d'altra parte non poteva, lui, Adeodato, dimostrare d'aver paura della galanteria da strapazzo di Carletto; sua moglie gli era senza dubbio fedele, non avrebbe corso pericoli; e infine qui, al proprio attivo, aveva già duemila punti, vale a dire la partita di fatto vinta. Tutti lo stavano a fissare, tutti aspettavano una sua decisione.
«Ci sto» disse, «se tu riesci a vincere, puoi andare a portare i miei saluti a mia moglie».
Tirò per primo Lino e fece 150 portando la sua quota a 450, lontanissima dalla vittoria. Poi tirò Olivo: gli venne un asso e basta, era decisamente tagliato fuori. Carletto chiese, con un gesto delle braccia, che facessero largo. Tolse dal portamonete un piccolissimo corno di ferro, che non aveva mai usato e che nessuno gli aveva mai visto, e lo introdusse nel bossolo con i dadi. Era soltanto l'inizio di un complesso rito propiziatorio. Incominciò ad agitare il bussolotto con gesto largo e lento, pronunciando strane, incomprensibili parole. Adeodato lo guardava con un sorriso di sufficienza. Carletto, piccolo com'era, si protese sul tavolo, vi si sdraiò quasi col busto per raggiungere il centro, prese a fare con la bocca un richiamo delicato, pieno di amore e di dolcezza, come se dovesse chiamare un caro animale domestico che s'era sperduto. «Piccoli assi miei, venite, venite» disse alla fine e tirò i dadi con estremo garbo, facendoli uscire roteando il bossolo leggermente inclinato.
Ne vennero quattro, di assi. Carletto tirò il quinto e fu un re. Doveva quindi continuare il gioco. Rimise dentro l'amuleto assieme ai cubi, riprese a pronunciare le strane frasi. Adeodato si mise a gridare: «Cista, fai cista» per tentare di combattere l'atmosfera che il rivale stava creando. «Adesso ti viene una cista e perdi tutto, cista, cista, cista». Carletto vuotò ancora con delicatezza il bussolotto ed ebbe due assi e due re, tirò il rimanente dado e fu un asso. Era arrivato a 850 punti e poteva tirare di nuovo.
«Dài, che ce la fai» l'incitavano Lino e Olivo. Adeodato si mise a imprecare. «Basta con quel corno» gridò,«devi tirare i dadi da soli. Ma tanto, questa volta non fai niente e perdi tutto». Carletto, sempre steso sul tavolo, sempre chiamando gli assi come fossero gattini smarriti, tornò a tirare, questa volta senza amuleto: altri quattro assi e un re.
«Roba da matti, non si è mai saputo di una fortuna così sfacciata. Non voglio più vedere, guardate voi» disse Adeodato, rivolgendosi a Lino e Olivo, «poi mi chiamate» e si andò a sedere vicino alla finestra.
Passarono tre minuti di grande tensione, con un silenzio rotto solo dal bisbigliare di Carletto e dal rotolare dei dadi sulla tavola. Poi si udì un grido di Olivo: «Fuori! è arrivato a 2050, ha vinto lui».
Adeodato si alzò in piedi, pallido, si avvicinò al tavolo con l'impressione di vacillare. Ma non era perduto niente, ancora: toccava a lui chiudere il gioco. Possibile che non facesse cento punti, cinquanta più dell'avversario? Tirò senza pensarci tanto, voleva farsi vedere superiore a tutti, coraggioso. Non uscì niente.
«Cista, cista» gridò Carletto con un balzo: «ho vinto!»

Non riusciva a prender sonno, Adeodato. Pensava a Carletto che era giù, in paese, ed era andato a portare i saluti a Gisella. Chissà cosa aveva tentato di fare. Questo pensiero gli stava rodendo la testa e gli insinuava un senso di colpa crescente. Aveva voluto sfidare il normale corso delle cose. Ma perchè lo aveva fatto? Se lo chiedeva senza sapersi dare una risposta, solo ne raccoglieva maggiore peso, accoramento, consapevolezza dell'errore commesso. Pensava: non si può pretendere di affrontare i misteri che ci circondano, provocare ciò che non si conosce. Di Gisella aveva sempre avuto fiducia ed era certo che finora questa fiducia fosse stata ben riposta, ma adesso con questo atto insensato andava a sconvolgere la quiete, la linearità dell'andamento degli eventi. Gettava Gisella nelle braccia di Carletto, ecco il risultato: proprio una follia, sapendo quale fama di donnaiolo lui godeva.
E poi, a ben riflettere, c'era da essere proprio tanto sicuri di Gisella? Una volta, ricordava, l'aveva sorpresa a parlare con il postino e le aveva chiesto che cosa stessero dicendo, ma lei era arrossita e non aveva saputo rispondere. Ora Carletto era andato a casa sua a portare quei maledetti saluti. Forse era riuscito a prolungare la visita, forse era restato addirittura a cena con la Gisella; forse era ancora là adesso. Non poteva resistere. Si alzò, piano, perché Lino e Olivo non se ne accorgessero. Prese gli sci. Sarebbe andato giù, a vedere. Fortunatamente c'era la luna, in meno di due ore sarebbe arrivato davanti a casa.
Vi giunse poco dopo lo scoccare della mezzanotte, sudato e ammaccato in più punti per due cadute. Il cuore gli batteva forte. Che cosa avrebbe detto a Gisella, per giustificare quell'improvviso ritorno? Niente, che aveva tanta voglia di vederla. E se avesse trovato in casa Carletto? Picchiò tre colpi di battente poi, rapidamente, si portò a fianco della casa, un po' scostato, per tenere d'occhio sia la porta d'ingresso sia le finestre sul retro. Trascorse un minuto di silenzio che gli parve lunghissimo, poi la finestra del pianterreno, dietro, si spalancò di colpo e un uomo balzò fuori e subito si mise a correre sulla neve gelata, verso il bosco. Era alto, magro, non era Carletto. Quasi istupidito dalla visione, Adeodato tardò qualche momento a rendersi conto che ai piedi della finestra l'uomo aveva perduto un indumento. Andò a raccoglierlo, era una giacca di renna marrone. Era la giacca del figlio del farmacista: soltanto lui, in paese, ne aveva una.


Adeodato rimase immobile, come pietrificato. Poi si portò le mani a coprirsi la faccia e scoppiò in pianto. Dunque tutto finiva: non più giorni felici, a pensare a Gisella così buona, che gli voleva tanto bene. Era, è, una vigliacca traditrice che si merita solo di essere cacciata con un calcio in culo. Ma adesso che fare? Andare dentro e far partire il dramma per annunciarle che la caccerà, che divorzieranno? Rimase ancora per un po’ immobile. Il freddo era pungente, lo faceva tremare. Gli sovvennero gli amici che si sarebbero accorti della sua assenza e l’avrebbero aspettato. Si mosse per tornare: sì, bisognava pensarci su, possibilmente anche dormire. Comunque fosse andata, la sua vita cambiava.

Nessun commento:

Posta un commento

Dimmi la tua opinione: