Non di rado i miei sogni sono di tipo
angoscioso. Uno che si ripete è quello dell’impossibilità di
trasmettere un articolo al giornale che lo sta aspettando. Ho fatto
l’inviato per decine d’anni e svolto alcune migliaia di servizi
fuori sede, cioè sono andato sul posto, anche con viaggi lunghi
centinaia di chilometri, ho raccolto le informazioni necessarie, ho
scritto e poi ho trasmesso al giornale il testo via telefono dettando
agli stenografi o servendomi del computer e del modem. Tutto nello
stesso giorno, con tempestività, senza perdere un minuto. Non ho mai
avuto problemi, nessun servizio è mancato e nemmeno giunto in
ritardo per mia colpa. Certo, sapevo che con il poco tempo di cui
disponevo lavoravo sul filo del rasoio: sarebbe bastata
l’interruzione di una linea telefonica o un guasto all’auto che
mi bloccava in una località isolata per farmi mancare il servizio.
Lo sapevo ma non ne avevo turbamenti: una consapevolezza che mi
lasciava indifferente; o per lo meno di questo ero convinto.
Da quando non lavoro più - ormai oltre venti anni - di tanto in tanto vivo in sogno un dramma per
l’impossibilità di trasmettere il servizio già pronto.
Solitamente c’è di mezzo il telefono: lunghe code di persone che
mi precedono davanti all’unico apparecchio, oppure la linea che non
si prende, il disco combinatore che si inceppa, la voce che va e
viene, lo stenografo che ripete "non sento, non sento" o il
computer centrale del giornale che non accetta il collegamento del
modem. A volte non posso nemmeno scrivere, bloccato da un
susseguirsi continuo di circostanze che non mi consentono di tradurre
in articolo gli appunti.
Un altro sogno che si ripete è
quello dell’automobile che non trovo più: vado in giro di
parcheggio in parcheggio con angoscia crescente perché ho molta
fretta, c’è chi mi aspetta oppure sono in ritardo con il lavoro; e
mi struggo nel cercare di ricordare dove l’ho lasciata, senza
riuscirci. Tutti ripartono con la loro automobile, solo io non
ritrovo la mia.
Ancora. Sono lontano da casa ed è da
tanto che non do mie notizie, vorrei telefonare ma non posso e sento
crescere un senso di colpa. La casa non è la mia ultima, quella
della mia famiglia nella quale ho trascorso la maggior parte della
vita, ma quella della fanciullezza e giovinezza, che lasciai per
sposarmi e per andare a vivere con mia moglie e mia suocera. E
infatti la sensazione di rimorso è nei confronti dei miei genitori,
soprattutto mia madre. Assieme all’angustia c’è un presentimento
della gioia e dell’emozione che proverò nel momento in cui potrò
mettermi in contatto con loro.
Fortunatamente qualche sogno è
piacevole. Uno che ritorna di tanto in tanto è quello del volo. Un
volo mio, del mio corpo, non con l’aereo o l’elicottero. Non so
come lo spicco, se con un balzo da terra o lanciandomi dall’alto:
mi trovo già sollevato a media altezza, poco al di sopra di chi
cammina, e le mie braccia, come grandi ali, si aprono e si richiudono
contemporaneamente in due ampi semicerchi. Il nuoto aereo mi fa
avanzare rapido e io mi sento leggero ed elegante, pervaso da una
contentezza sconfinata; sono anche sorpreso per l’evento che sento
miracoloso ma al tempo stesso come una cosa naturale.
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