lunedì 1 febbraio 2016

La salsiccia del ciabattino

I calzolai col deschetto che facevano le risuolature, o anche soltanto rattoppavano la tomaia con una piccola cucitura, oggi sono praticamente introvabili. A cercare una di queste botteghe quasi sempre si gira a vuoto. Il diffondersi dell'industrializzazione ha di fatto cancellato le riparazioni, rendendo più conveniente l’oggetto nuovo; e così a poco a poco va scomparendo l’artigianato. Come i calzolai, appunto. Ce n’erano di bravissimi, che un piede, dopo averlo ben misurato, sapevano calzarlo alla perfezione. I più si limitavano alle riparazioni e anche tra questi c’erano diversi livelli di bravura: in genere i migliori erano in città, con una clientela esigente, mentre nelle campagne i ciabattini, avendo per le mani soprattutto zoccoli, sapevano più piantar chiodi che lavorare di trincetto. Di questi ne ricordo uno, negli anni trenta, nella Bassa modenese. Si chiamava Rigoni ma era conosciuto come Toppone, per le toppe che metteva nelle scarpe
In marzo, con le prime giornate tiepide, Rigoni portava fuori dalla cucina il deschetto e si metteva a lavorare in cortile. Il cortile era lungo e stretto: da una parte la fila di usci delle varie abitazioni, dall’altra un muro alto due piani, senza finestre. In fondo c’era una rete metallica e oltre la rete la campagna con i filari di olmi che reggevano le viti di Lambrusco. Sistemava il deschetto vicino alla rete, sempre nello stesso posto.
Usciva a lavorare fuori il più presto possibile, ai primi accenni di primavera, per sfuggire al baccano che gli facevano intorno i figli. Ne aveva dieci, la più grande contava quattordici anni, il più piccolo pochi mesi. E tutti stavano nella cucina che era abbastanza grande per farci da mangiare, ma molto piccola per viverci tutto il giorno in due adulti e dieci ragazzi, e soprattutto per lavorarci.
La moglie di Rigoni, alta, magra, sempre vestita di nero, con un fazzoletto nero in testa, aveva sempre un’aria trasognata. sembrava che stese chiedendosi se esisteva o no. I ragazzi le saltavano addosso mentre era seduta a rammendare o a far la calza e lei nemmeno se ne accorgeva, tutt’al più si metteva a lavorare di sbieco per scansarli. Rigoni invece si spazientiva per quel frastuono e quando il clamore si faceva proprio insopportabile gridava: «Basta, basta, vado via, vado in Africa». Si era alla vigilia della guerra in Abissinia e ogni tanto qualcuno del paese partiva volontario. L’Africa in quel tempo sembrava un miraggio che avrebbe potuto risolvere tanti problemi che gravavano sulla gente, per la disoccupazione e la miseria. «Vado in Africa, vado in Africa» ripeteva, ma si sentiva dalla sua voce che fingeva solo di essere arrabbiato e che in Africa, di sua volontà, non ci sarebbe mai andato. Quella masnada di figli, pur chiassosi e turbolenti, erano il suo mondo dal quale non avrebbe potuto separarsi. Quando proprio non ne poteva più gridava: «Tutti su, in camera». La camera era l’unica dell’abitazione, stava sopra la cucina ed era disseminata di pagliericci. Ma dopo un poco si pentiva, li faceva ridiscendere perché aveva paura che qualcuno, nella foga dei giochi, saltasse giù dalla finestra.
Il calzolaio Rigoni lavorava dodici, anche quattordici ore al giorno, incominciava con le prime luci dell’alba e smetteva quando non ci si vedeva più. Sgobbava tanto, ma guadagnava poco perché, com’era molta la sua buona volontà, così era scarsa la sua abilità. Non ne aveva colpa. Il mestiere del ciabattino l’aveva imparato da sé, aggiustando le scarpe dei suoi quindici fratelli, d’inverno, nella stalla. Sposandosi e non avendo voglia di lavorare nei campi, era uscito di famiglia e aveva messo su il deschetto. In paese, viste le sue esecuzioni, gli avevano affibbiato quel soprannome. Ma i suoi erano tutti clienti che andavano da lui solo per riparazioni grossolane: una pezza, due chiodi, una cucitura; per le scarpe nuove e le risolature andavano dagli altri tre calzolai del paese.
Conosceva i suoi limiti e non si lamentava di niente, nemmeno d’essere chiamato Toppone, e di dover lavorare tante ore per guadagnare poco più che la polenta per tutti i suoi figli. Era, anzi, sempre molto allegro. In cucina o nel cortile teneva al suo fianco una sedia, pronta per far sedere l’eventuale cliente. Chi portava un paio di zoccoli o di ciabatte doveva per forza mettersi a sedere, almeno due minuti, a scambiare qualche chiacchiera con lui. E tutti sostavano contenti perché a stare con Rigoni c’era da fare buon sangue. «Argia» gridava alla moglie, «metti a friggere un metro di salsiccia, ché il signore fa uno spuntino con noi». La moglie non alzava nemmeno la testa a quel finto ordine, ormai l’aveva udito migliaia di volte, perché Rigoni parlava molto di salsiccia. Magari insisteva, fingendosi impermalito: «Non crede che le faccia friggere un metro di salsiccia. Ma lo sa che su, in camera da letto, appesi a due stanghe che vanno da muro a muro, ce ne ho tredici metri?»
I clienti ridevano, qualcuno lo stuzzicava per farsi descrivere volume, colore, sapore della sua salsiccia e Rigoni allora si metteva a creare il suo poema per la saporita carne insaccata. Ne parlava con un trasporto e una competenza da far venire l’acquolina in bocca anche a chi s’era appena alzato da tavola. Lì, seduto al deschetto, con le mani abbandonate e immote sulla suola di uno stivale scalcagnato, Rigoni si trasformava con la fantasia in un macellaio-conditore di carne suina, di quei beccai che, nel pieno dell’inverno, vanno di cascina in cascina per le campagne della Bassa emiliana a scannar maiali e sono pagati, elogiati, riveriti dai contadini che in quella operazione da mattatoio vedono quasi un rito. Così Rigoni tritava con parole sapienti e sentite la rossa carne, le infondeva il giusto aroma, l’insaccava dentro un interminabile budello che poi suddivideva in tanti rocchi lunghi una spanna. Il cliente sorrideva divertito e Rigoni continuava a parlare con fervore: stagionava la salsiccia, la friggeva per mangiarla spellata con la polenta o la metteva in umido con l’uva secca, con le uova, con i fagioloni bianchi. In quei momenti la sua eccitazione era tanta che forse sentiva davvero, lì in cucina o nel cortile, il profumo della salsiccia. Per ascoltarlo, smettevano di correre e di gridare anche i suoi ragazzi e l’Argia si svegliava dal suo torpore, rideva quasi inebetita, come se stesse per mettersi a tavola a mangiare il piatto che suo marito aveva preparato con tanta passione. Poi l’incanto finiva e Rigoni concludeva: «Allora ha capito: quando ha bisogno di uno che sappia cucinare qualche metro di salsiccia, venga da me».
Era il grande desiderio che lo faceva parlare in quel modo. Forse di salsiccia in casa sua, da quando era sposato, non se n’era mai mangiata. Parlava per le esperienze giovanili, di quand’era contadino, figlio di famiglia, e nella cascina, in febbraio, ammazzavano il maiale. A comperarla in bottega la salsiccia costava cara, era cibo da gente che aveva soldi; e lui, con tutti quei figli, la salsiccia avrebbe davvero dovuto portarla a casa a metri. Le bocche dei suoi ragazzi erano abituate al baccalà e alle salacche. Fra tanti figli che aveva ce n’era sempre uno che credeva ai tredici metri di salsiccia, pensava che fossero nascosti in qualche angolo della camera. E diceva alla mamma: «Ma se è così buona come dice il babbo, perché non ce ne dai un poco?»


Fu d’autunno che Rigoni s’ammalò. Si era accanito a restare a lavorare in cortile, nonostante il freddo. Si prese la polmonite. Alla fine della prima settimana di malattia ebbe una crisi, i vicini dicevano: «Toppone muore stanotte». Invece si riprese, per tre giorni andò migliorando, il pericolo sembrava superato, qualcuno fra i più amici andò a fargli visita. Era già allegro, come al solito. «Adesso è ancora presto, ma appena sto meglio faccio friggere un paio di metri di salsiccia per riabituare lo stomaco. Ce n’ho tredici metri, giù, in cucina» e strizzava l’occhio contento.
Poi, d’improvviso, la quarta notte dopo la crisi, morì. Fu una notizia dolorosa, per tutto il paese, perché gli volevano bene anche quelli che non erano suoi clienti e disprezzavano le sue capacità di ciabattino. Per il funerale il cortile si riempì di folla. Arrivarono anche dei fiori, una corona mandata da tutte le classi delle scuole elementari, perché ogni classe era frequentata da almeno uno dei figli. Mentre il parroco stava per benedire il feretro, arrivò la fioraia con un grande involto. Aveva un atteggiamento incerto, l’aria confusa. Porgendolo a uno dei presenti che le era più vicino, disse: «Non sono fiori, ma io non c’entro, me l’hanno consegnato con la preghiera di portarlo». Ci fu un momento di esitazione, tutti gli occhi erano su quel misterioso pacco. Anche il prete indugiò, poi fece segno di aprirlo.
Sì, non erano fiori: era salciccia, una lunghissima catena di rocchi disposta in circolo a formare una corona e in mezzo era posato un nastro azzurro con la scritta I SUOI 13 METRI. Si sentì un coro di oh oh e poi parole di stupore e ammirazione. Però non c’era tempo da perdere, la cerimonia doveva concludersi. La bara fu posta sul carro e sulla bara la corona degli alunni. E la salciccia? Nel silenzio ci fu un cercarsi di sguardi, il prete fece un cenno in direzione della cucina, ma una voce disse: «No, portiamola in corteo». «Sì, sì» ribatte una donna e subito alcuni incominciarono a sciogliere la corona di rocchi e ad allungarla, sicché in un attimo, di mano in mano, andò ad ornare la parte posteriore e i fianchi del carro, come in un abbraccio. Ci appiccicarono anche il nastro con I SUOI 13 METRI. Un vecchio commentò: «Come sarebbe contento Toppone, se potesse vedere».
Un funerale memorabile. In paese ne parlano ancora adesso, sebbene siano passati tanti decenni. Naturalmente la salciccia fu mangiata dalla vedova e dai dieci orfani. Ne fecero conto, come fosse un filone d’oro. Servì a sfamare la famiglia per più di un mese. Proprio sul finire degli ultimi rocchi Clotilde, che era la figlia maggiore, trovò da occuparsi in città come serva e un mese dopo fece una scappata a casa a portare il primo stipendio.
Non si era mai saputo chi aveva consegnato alla fioraia il pacco da portare al funerale di Rigoni.


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