domenica 14 febbraio 2016

L'uomo a cavallo

La prima volta fu all’incrocio di Sant’Egidio. Ero fermo al semaforo, in attesa del verde. Solo nell’auto, anzi, no: alle mie spalle, sul sedile posteriore, c’era Jolly, il mio cane. Al momento di partire, non appena avevo aperto lo sportello era balzato dentro e io non avevo avuto animo di farlo scendere; da qualche tempo gli era venuta la smania del giretto in macchina, gli piaceva talmente che quando lo accettavo a bordo si sdilinquiva in squittii di gioia e nei primi minuti tentava anche di darmi i bacini di ringraziamento dietro l’orecchio, se non lo tenevo lontano con la mano. Così ogni tanto lo portavo con me. Ero lì soprappensiero, incantato a guardare le nuvolette dei fiati dei pedoni che attraversavano. Per terra c’era ghiaccio e tutti camminavano lentamente, facendo attenzione ai loro passi. D’un tratto il mio occhio fu attratto dal gesto brusco di un uomo che sul passaggio pedonale stava per cadere. Si sbilanciò su un fianco, alzò il braccio opposto, ondeggiò e poi si ricompose: tutto in due o tre secondi, poi proseguì. Era Mirco, mio fratello. Un’emozione violenta, una vampata di calore alla testa: avrei voluto poter scendere, corrergli al fianco, ma non potevo abbandonare l’auto lì in mezzo e il semaforo continuava a rimanere rosso; a Sant’Egidio il rosso è sempre lunghissimo e in quella circostanza mi parve proprio interminabile. Vidi mio fratello scomparire nel flusso dei passanti sul marciapiede, diretti verso il fiume; oltre tutto da quella parte c’era il divieto di svolta. Al verde ripartii, detti un’ultima occhiata ma Mirco non lo vidi più. Avevo una grande agitazione. Cento metri più avanti, in un parcheggio, mi infilai in un posto libero. Spensi il motore. Mio fratello qui, in città, nella mia città, a cento chilometri dalla sua, senza che mi avesse avvertito; ma com’era possibile? Mi sentivo sconvolto; le mani, posate sul volante, mi tremavano. Era come se mi si aprisse davanti agli occhi uno squarcio nero, un buio di vuoto e di mistero. Mio fratello era qui per un motivo che mi taceva, dunque una sua trama nascosta. Ci eravamo parlati la sera prima per telefono e non mi aveva detto niente, quindi proprio un segreto. E se c’era oggi, chissà quante altre volte c’era stato senza che mi informasse. Incredibile. Al telefono ci parlavamo almeno due volte alla settimana, lunghe chiacchierate per dirci tutte le notizie, anche minime, delle nostre vite. Così da anni, da quando io mi ero sposato e mi ero trasferito per il mio nuovo lavoro e lui era rimasto con la mamma e il babbo. Morti loro, dopo qualche mese di solitudine si era deciso a concludere con il matrimonio il fidanzamento quasi decennale con Ornella la quale, mi aveva poi confidato, credeva ormai che sarebbe rimasta zitella.
In quel parcheggio, con Jolly che nella sosta era passato sul sedile anteriore del passeggero e mi guardava interrogativamente perché ci eravamo fermati, rimasi almeno per mezz’ora a rimuginare sulla immagine dell’uomo che era scivolato sul ghiaccio e sui possibili motivi della sua presenza nella mia città. Che quell’uomo fosse mio fratello non avevo dubbi: lo avevo visto con chiarezza anche in viso. Sul perché lui era lì non riuscivo proprio a focalizzare alcun ragionevole movente. Motivi di lavoro? No, aveva un impiego parastatale, non aveva alcun motivo di spostarsi dall’ufficio se non per passare in qualche stanza accanto. Una relazione extraconiugale? Nemmeno: era saldamente ancorato a sua moglie sia perché le voleva bene, sia perché tradirla avrebbe comportato dispendio di energie e impegno organizzativo: era un uomo tranquillo, un po’ indolente.
La sera, all’ora solita, dopo cena, telefonai. Se non mi avesse detto niente avrei avuto la prova del suo sotterfugio. E così fu, infatti. Discorsi soliti, le banalità quotidiane, niente resoconto d’un viaggio, niente esclamazione: “Sai, oggi sono venuto lì...” Adesso l’enigma si infittiva: il suo era un segreto solo nei miei confronti o anche in quelli di Ornella? L’avevo visto a metà della giornata e, dato che per colazione non andava a casa perché mangiava in mensa, avrebbe avuto tutto il tempo per arrivare qui, fermarsi magari un paio d’ore e poi fare ritorno, senza che lei lo sapesse.
«Marco, oggi avrei giurato che ti avevo visto» mi trovai a dire senza che l’avessi prima pensato e intanto mi avvidi di essermi lanciato in un discorso spinoso: lo interrogavo, stavo insinuando, lo accusavo? Ma mi rendevo anche conto che era importante sentire e analizzare la sua reazione. Tacqui e attesi. Ci fu un momento di silenzio. Poi disse, con voce un po’ incerta: «Cosa vuoi dire, in che senso mi avevi visto?» Dovevo spiegare, non potevo lasciare una frase simile sospesa per aria. «A un semaforo dove ero fermo ho visto uno che stava per cadere mentre attraversava la strada e sembravi proprio tu». «Già, tanti si assomigliano», disse, «io comunque non stavo per cadere, ero seduto alla mia scrivania». Poi subito cambiò discorso: «Te lo ricordi il tavolino del nonno, quello con l’intarsio della dama, ha l’impiallacciatura che si scolla...»
Quella notte tardai a prendere sonno. Il pensiero era fisso su questa vicenda. Provavo la sensazione della presenza di un muro di sbarramento oltre il quale non potevo procedere: restavo di qua impossibilitato ad andare avanti e di là c’era lui, Mirco, che prima era sempre stato un tutt’uno con me e adesso diventava estraneo, forse anche rivale. Ma che cosa tramava, che cosa era lui per me e che cosa ero io per lui? I giorni che seguirono furono diversi dai precedenti, mi sentivo in un cono d’ombra; anche se il pensiero e la tensione si erano un po’ attenuati, ero immerso in un offuscamento che mi rattristava e incupiva. Telefonai a mio fratello con maggiore frequenza, sperando di poter cogliere nelle consuete conversazioni qualche segnale che potesse farmi capire qualcosa, aprirmi uno squarcio nel buio. Una sera chiacchierai con Ornella, lui era andato a una riunione di condominio. «Ho voglia di vedervi» dissi, «perché una volta tanto non fate voi una gita fin qui?». «Figurati» disse lei, «con Mirco così pantofolaio com’è non si può programmare niente. Non muove mai neanche la macchina, che sta invecchiando senza nemmeno aver fatto il rodaggio. Vieni tu, che ci fai sempre piacere». No, Ornella certamente non sapeva nulla di ciò che lui poteva aver fatto quel giorno a cento chilometri da casa. Dovevo tenere per me l’enigma, ci avrei arzigogolato intorno con tormento d’animo e scarsa probabilità di riuscire a svelarlo.
Avevo la speranza che il mio almanaccare si sarebbe a poco a poco affievolito man mano che mi allontanavo da quell’episodio, ma un paio di settimane dopo, di primo pomeriggio, mentre stavo parlando per strada, fermo con un amico che non vedevo da tempo e che avevo incontrato un momento prima, vidi la faccia di Mirco passarmi veloce a meno di un metro. Era quasi appiccicata, frontalmente, al vetro del finestrino di un tram diretto a un capolinea collinare. Istintivamente feci un gesto con la mano come per fermarlo e aprii la bocca ma non mi venne alcuna parola. L’amico mi guardò meravigliato e si girò per capire che cosa mi avesse colpito. «Volevo salutare uno» dissi e subito tagliai corto, dovevo andare alla macchina, inseguire il tram. Purtroppo avevo parcheggiato lontano. Ansante e sudato, col cuore in tumulto, mi misi al volante e puntai verso la collina seguendo un percorso più breve della linea tranviaria. Arrivai un paio di minuti prima del tram. Ne scesero in molti, ma lui no, evidentemente era smontato ad una fermata intermedia. Mi sedetti in macchina e rimasi a lungo a cuocermi nella delusione e nelle solite intricate supposizioni.

Due incontri, questi, nel giro di una ventina di giorni. L’inizio. Quante altre volte ho visto mio fratello nella mia città e quante volte, parlandogli al telefono, sono stato tentato di dirgli “Insomma, mi dici come mai vieni qui e non mi avverti, non mi vieni a trovare? Che cosa mi nascondi?” Ma mai il mio pensiero si è realizzato con delle parole. Ogni mancato intervento era per me una sconfitta, mi sentivo un incapace, un soggiogato e mi chiedevo anche perché non avevo il coraggio di prendere in pugno la situazione, di pretendere di sapere. A malincuore mi davo la risposta: inconsciamente temevo che qualsiasi motivo mi avesse prospettato avrebbe turbato il nostro annoso, quieto andamento di relazione fraterna a distanza. In certi momenti cercavo di scrutare nel mio intimo e allora la risposta m’appariva più chiara: mi sentivo in colpa per avere, tanti anni prima, lasciato la nostra casa e lui solo con la mamma e il babbo, che già erano malandati in salute, unicamente pensando al mio interesse. Nessuno di loro aveva mai fatto alcuna insinuazione a questo proposito, ma io, senza dirmelo apertamente, mi ero caricato di una dose di responsabilità. In questo periodo parlavamo al telefono delle piccole cose quotidiane fingendo normalità mentre tra noi gravava un peso enorme, almeno così io sentivo e pensavo: il peso di un mistero per me, e per lui di un segreto.
Vedevo, o meglio scorgevo, Mirco con frequenza variabile, in certi periodi una o due volte al mese, in altri anche cinque o sei, e nelle circostanze più strane; sempre, comunque, di sfuggita, non incontrandolo faccia a faccia, un’eventualità questa che in certi momenti mi auguravo e in altri temevo, pensando di trovarmi impreparato ad affrontare la situazione: dipendeva dal mio umore. Certo, mio fratello era diventato per me un pensiero fisso: aspiravo a risolverne l’enigma come si può aspirare a vincere il primo premio di una grande lotteria, con la convinzione che sia cosa impossibile. Questo chiodo mentale mi accompagnava fino a quando, la sera, posavo la testa sul cuscino. E lì le fantasiose astruserie sconfinavano dal ragionamento al sonno trasformandosi in sfilacciature, frantumi di sogni; al risveglio li ricordavo appena per qualche minuto e subito dopo si disperdevano diventando inafferrabili. Ma una notte il sogno fu così chiaro e intenso che alla fine mi svegliai con il cuore in tumulto per l’emozione. Capivo che questa volta non lo avrei dimenticato, tuttavia, per maggiore sicurezza, mi alzai, presi foglio e matita e scrissi qualche appunto sulla traccia di quello che avevo vissuto. Mi sarebbe anche servito come testimonianza se mi fossero sorti dubbi.
Ero in auto e procedevo su un controviale rasentando il marciapiedi, lentamente, perché cercavo un certo negozio. Sul sedile posteriore avevo il cane. Improvvisamente davanti a me un braccio si protende e una mano è aperta come segnale di stop. Blocco la macchina, alzo gli occhi e vedo lui, Mirco: alto, elegante. Mi guarda ed esclama il mio nome come se fosse sorpreso di vedermi lì. Il mio primo istinto è quello di dirgli che sono io che devo essere meravigliato di vedere lui nella mia città senza essere stato preavvertito. Ma sta aprendo lo sportello per salire e una valanga di sensazioni mi sommerge, la più intensa è il timore che Jolly, geloso dell’intimità della sua automobile, tenti di aggredirlo; e allora lo cerco alle mie spalle con la mano, afferro il collare, lo chiamo con voce rassicurante per tranquillizzarlo. Lo guardo, è calmo, come se conoscesse l’ospite o come se non fosse salito nessuno. Meno male, il problema cane è superato, adesso devo affrontare la piena dei miei sentimenti, dire a Mirco rabbia e amore, chiedergli perché, perché e ancora perché. Metto in fila le parole sforzandomi di essere calmo e intanto lo fisso: guarda davanti a sé, la strada, è come se fosse solo, come se non mi avesse nemmeno visto; eppure un momento fa ha pronunciato con vigore il mio nome. Lo sento freddo, distante, e allora tutto il mio dire si spegne, le parole muoiono soffocate in gola dal groppo che sale. Lo guardo in silenzio e incomincio a piangere, a dirotto. Nemmeno si volta e tace, continua a tacere. Jolly è allarmato per il mio singhiozzare, si mette a gemere e mi bacia dietro un orecchio; lo capisco, vuole farmi coraggio. Adesso Mirco pone la mano alla maniglia, apre lo sportello e scende, sempre in silenzio, senza dirmi nemmeno ciao. Io lo chiamo per fermarlo e intanto mi sveglio, in tempo per sentire la mia voce che pronuncia il suo nome.
Quel sogno non lo avrei dimenticato neanche senza gli appunti. Mi era rimasto talmente impresso che per molti giorni lo rivivevo di continuo, con la fantasia movimentavo la scena, immaginavo di essere riuscito a parlargli, gli chiedevo ragione di tutti quei perché che sognando avevo in animo di dire senza riuscire ad aprire bocca. Entravo tanto in quell’atmosfera dentro l’auto con noi due e Jolly che si struggeva per il mio pianto che a tratti mi pareva che l’evento fosse davvero accaduto. Allora prendevo in mano il foglio con gli appunti per convincermi che Mirco non era affatto salito sulla mia auto. Poi entrai in un periodo di relativa tranquillità: pensavo un po’ meno alla storia di mio fratello e quand’ero in giro per la strada il mio occhio non s’accaniva più a gettare occhiate panoramiche tutt’attorno per vedere se scoprivo la sua figura. L’ossessione si placava e me ne rendevo conto con sollievo. Ormai mi stavo assuefacendo all’idea che tra noi c’era questo qualcosa misterioso che lui faceva, o meglio tramava, e che io non dovevo conoscere. Mi rassegnavo; forse, pensavo, non merito di sapere perché non ne sono degno, probabilmente a causa del mio lontano abbandono della nostra famiglia.

Un giorno – di pomeriggio; era autunno e io, a piedi, mi ero fermato in un viale ad ammirare le foglie che il vento faceva danzare come per gioco a mezz’aria – lo vidi. Era a cavallo. Si direbbe, incredibile. E invece no, era proprio lui, su un cavallo morello. Un gruppetto di cinque cavalieri avanzava al passo sul sentiero tra il filare degli ippocastani e la siepe che delimita un piccolo parco giochi. È un percorso ogni tanto frequentato dai soci di un club di equitazione che è ai margini della città. Non lo sapevo, me lo disse un vecchio che pure si era fermato ed evidentemente si meravigliava di vedermi fissare la scena con gli occhi sbarrati. «Di tanto in tanto càpitano, vengono dall’Ippica del Ronchetto, e a volte qualche cavallo si spaventa per le automobili che passano come fulmini» aveva commentato. Ma io non ero stupito perché lì c’erano degli uomini a cavallo, ero come imbambolato perché uno di quegli uomini era lui, mio fratello. Anch’egli in tenuta da cavallerizzo come gli altri, che erano tre uomini e un’amazzone. Mirco era il più anziano, stava ritto impettito, con lo sguardo fisso, e montava con eleganza, in modo armonioso, almeno così mi pareva. Io e il vecchio eravamo dalla parte opposta del viale e tra noi e il gruppo sfrecciavano le macchine. Immobile, solo girando lentamente la testa per seguire il passaggio dei cavalli, non mi venne fatto di gridare il nome di Mirco, non ci pensai proprio. Era come se vedessi qualcuno o qualcosa di irraggiungibile, sebbene in qualche modo mi appartenesse o mi avesse appartenuto. Ormai i cavalieri si stavano allontanando e io continuavo a guardarli. In quel momento mi affiorò un vago ricordo: io, bambino, avevo sentito dire che Mirco andava a cavallo. Lui era un ragazzo, maggiore di me di otto anni; comunque non lo avevo mai visto cavalcare; e poi aveva smesso presto perché, mi pare, spaventato dalla brutta caduta di un suo compagno. Adesso mi chiedevo se poteva mai esserci qualche relazione tra quel breve lontanissimo rapporto di Mirco con le cavalcate e la sua presenza nella mia città, dopo decine e decine d’anni, a spasso col cavallo, come se fosse a cento metri da casa sua.
L’incontro sul viale di ippocastani mi annullò di colpo quella rassegnazione che avevo conquistato negli ultimi tempi: Mirco tornò al centro dei miei pensieri, ripresi a telefonargli con frequenza, sempre con la speranza di scoprire nelle sue parole qualcosa che lo tradisse, che mettesse allo scoperto il suo doppio, il Mirco segreto che veniva nascostamente nella mia città per cavalcare o per fare chissà quali altre astruse cose. Ma era sempre ben vigile, chiacchierava con la massima naturalezza e io sentivo che non avrei mai potuto chiedergli di svelarmi quello che mi nascondeva. Tra me e lui c’era un abisso che con quelle domande avrei dovuto superare d’un balzo. Dovevo per forza adattarmi alla mia sudditanza psicologica, alla mia inferiorità, alla sola speranza, se sperare era possibile, di vedere svelato l’enigma per una qualche circostanza fortunata. Dopo quel giorno andai ancora qualche volta, appena mi fu possibile, lungo quel viale, ma non incontrai più i cavalieri. Poi venne l’inverno.

Quello che era un modesto parco giochi lungo il viale degli ippocastani è irriconoscibile: le altalene, i tralicci a scacchiera, gli scivoli sono stati rinnovati e aumentati di numero, ma soprattutto oltre a questi è stato creato un parco vero con tante piante, aiuole, stradine. Tutto questo su una vasta area, una volta occupata da uno stabilimento per la riparazione delle carrozze ferroviarie che è stato eliminato. Ci sono anche dei laghetti e delle piazzuole di cemento sulle quali corrono i ragazzi coi pattini a rotelle. E le stradine per il passeggio sono fiancheggiate da molte panchine. Ai lati del viale, tra gli ippocastani e la siepe, c’è ancora il sentiero sul quale una volta vidi passare Mirco a cavallo insieme con altri quattro cavalieri. Qualche cavaliere passa ancora, di tanto in tanto, ma Mirco non l’ho più visto. E vengo spesso, quando la stagione lo permette; adesso che è estate sono qui quasi tutti i giorni. Vengo con l’autobus perché non ho più l’auto: mi scadeva la patente e quando sono andato alla visita medica mi hanno respinto, per la cataratta: avevo sbagliato a leggere una lettera in un cartello. Ma va bene anche l’autobus, tanto sono solo, Jolly non c’è più, era vecchio e se ne è andato. Di solito mi siedo su una panchina vicino alla siepe e di qui posso tenere d’occhio il sentiero degli ippocastani.
Ho fatto amicizia con altri vecchi e anche con dei ragazzi. Coi vecchi parliamo, ci raccontiamo delle nostre vicende, di quando eravamo giovani, in buona salute e facevamo la nostra vita. Mi è capitato di raccontare di mio fratello e dell’ultima volta che lo vidi, ormai tanto tempo fa, venire avanti in sella al cavallo. Se qualcuno vede dei cavalieri prima di me mi avverte subito perché possa controllare se c’è anche lui. Ma non c’è mai. Da molto non riesco nemmeno a parlare col telefono né con lui né con Ornella. Faccio il numero e mi dicono che non c’è nessun Mirco e nessuna Ornella. L’altro giorno una donna mi ha risposto sgarbata: «Ma la vuole smettere di fare questo numero, la vuol capire sì o no che da due anni qui c’è una lavanderia e non una abitazione?». Non so come mai mi rispondano così, quello era il numero di Mirco. Parlavamo del più e del meno, non mi diceva niente dei suoi viaggi fin qui, ma mi faceva piacere scambiare un po’ di parole con lui.
Vedo venire verso di me sui pattini un ragazzino alto, biondo, è Sandro, siamo diventati amici. Una volta era caduto proprio davanti alla mia panchina, sanguinava a un ginocchio e si era fermato a fasciarselo con il fazzoletto. Avevamo chiacchierato un bel po’ e da allora ogni tanto mi viene a salutare. Quando arriva le prime parole sono sempre per la stessa domanda: «E l’uomo a cavallo l’ha rivisto?»


Nessun commento:

Posta un commento

Dimmi la tua opinione: