sabato 26 settembre 2015

L'ineluttabile

Simone aveva bottega da fabbro ferraio alla periferia della città, sulla strada della collina. Era uno stanzone nero con una gran porta e nessuna finestra in una catapecchia bassa e lunga che era la sua casa; attigue alla bottega c'erano tre stanze nelle quali abitavano lui, la moglie e la figlia, Lidia. La casa era proprio brutta, cadente; costituita dal solo piano terreno, aveva il tetto molto spiovente, che arrivava a meno di tre metri da terra; facendo un salto col braccio teso in alto si poteva toccare la grondaia che era qua e là slabbrata, arrugginita, bucata: quando pioveva sembrava un colabrodo. Dietro la casa si stendeva un lenzuolo d'orto, lungo e largo una ventina di passi, dove Lidia e sua madre coltivavano l'insalata, i ravanelli, le patate e altro del genere. Su quest'orto si affacciavano le uniche finestre della casa, tre, una per ogni stanza dell'abitazione.
Io lavoravo con Simone già da sei anni: ero entrato nella sua bottega a quattordici anni, nel 1940, come garzone, per imparare l'arte della mascalcia perché in quei tempi di cavalli da ferrare ce n'erano ancora e io sentivo una vocazione per quel mestiere. Casa e orto erano circondati solo da prati, le villette della prima periferia distavano quasi un chilometro. Venivano da noi i barocciai e i contadini che portavano la verdura e la frutta al mercato ogni mattina all'alba con i carretti e poi, sulla strada del ritorno, una volta ogni due o tre mesi, si fermavano a far ferrare il cavallo. Nella fetta d'aia che separava la casa dalla strada c'erano sempre barocci e cavalli in attesa. Io tiravo il mantice per far diventare roventi i ferri da adattare e inchiodare agli zoccoli e tenevo strette le zampe dei cavalli mentre Simone ferrava. Il fumo e l'odore acre che s'alzava dall'unghia intaccata dal fuoco mi stordivano, ma mi piacevano anche.
Lidia era una ragazzina magra e pallida, con i capelli biondi, alta più di me sebbene avesse un anno di meno. Non poteva sopportare l'odore degli zoccoli strinati e io, per farla arrabbiare, se la vedevo in giro intorno alla casa in quei momenti, la chiamavo come se suo padre avesse bisogno; lei, quando s'accorgeva dello scherzo, mi dava uno scappellotto approfittando del fatto che le mie mani erano occupate a trattenere la zampa del cavallo, ma io ridevo contento. Sua madre era una donna nera di vestiti e di espressione, triste e chiusa in sé, altissima e un po' curva. Cercava sempre che sua figlia restasse lontana dalla bottega, nella parte della abitazione. Se la vedeva scherzare con me la chiamava con una voce secca e brusca. Io ci restavo male.
Col passare del tempo il lavoro era calato: certi barocciai avevano venduto il cavallo e comperato il camion; i contadini portavano le verdure dalla campagna con i motofurgoni o i camioncini. La guerra era finita e c'era un grande fervore di lavoro. I palazzi e le ville delle periferia avanzavano verso di noi a vista d'occhio. Quasi ogni settimana s'apriva nella zona un cantiere nuovo. I campi ormai si facevano radi. Passavamo giornate intere senza ferrare un cavallo e stavamo seduti, Simone ed io, davanti alla porta della bottega a guardare i palazzi in costruzione che sembravano dapprima grandi scheletri e che via via si andavano mettendo addosso carne e pelle. «Ma guarda che roba» diceva Simone, «sono proprio diventati tutti matti con questa mania di costruire». E se vedeva scavare le fondamenta di un fabbricato nuovo, per tutta la giornata rimaneva immusonito e mormorava, di tanto in tanto, che così non si andava più avanti. La Lidia era un po' meno magra, più colorita, sempre bionda; si era fatta ancora più bella. Se cercavo di farla venire vicino alla bottega era per dirle qualcosa che le potesse fare piacere, non per farle annusare l'odore delle unghie bruciate.
Sua madre una sera era morta d'improvviso. Per tutto il giorno successivo io ero rimasto in casa di Simone per aiutarlo nei preparativi del funerale e per vegliare la defunta. Avevo anche confortato Lidia e lei si era stretta a me per piangere contro il mio petto. Eravamo soli, ai piedi della bara. I sussulti dei suoi singhiozzi mi si ripercuotevano dentro come se fossi io a piangere convulsamente; e l'odore buono, caldo, che veniva su da lei mi inondava di tenerezza. Le passai le braccia intorno alla schiena e la strinsi forte. Anche lei mi strinse: piangeva più rumorosamente, ma sentivo che le faceva piacere essere con me. Mi sfregò la guancia rorida di pianto contro la mia e mi chiamò per nome con un tono che non le avevo mai sentito: era come se fosse la prima volta che pronunciava il mio nome.
Adesso eravamo sui vent'anni, Lidia e io. Le ville e i palazzi nuovi avevano già raggiunto la casa e non c'erano più cavalli da ferrare. Passavamo lunghe giornate in ozio, Simone e io, oppure forgiavamo dei cancelli per le palazzine in costruzione: un lavoro insulso, senza vita, nemmeno da paragonare con la mascalcia, con il cavallo - lo si capiva bene - che partecipava all'operazione; e con l'odore inebriante dell'unghia bruciata. Ma del resto di quelle commissioni ne avevamo poche. Sarei andato a lavorare da un'altra parte, se fossi stato capace di staccarmi da Lidia. Ci trovavamo di nascosto dietro la casa, ogni giorno verso sera, quando suo padre andava per una mezz'ora a bere un quartino in un negozio di vini aperto lì vicino in una casa nuova. Di nascosto, perché non voleva che lei venisse in bottega quando c'ero io e non voleva che parlasse di fitto con me. Mi faceva capire che Lidia era sua figlia e come padre intendeva farne quello che voleva. Doveva sposare un uomo importante; uno, almeno, che avesse dei soldi. Diceva tutte queste cose come se non fossero rivolte a me e invece lo si capiva lontano un miglio che erano dette per le mie orecchie. E mi diceva anche che io non ero niente, uno senza istruzione, con un mestiere che non rendeva più il becco di un quattrino. Ciononostante Lidia e io ci incontravamo tutte le sere sull'imbrunire e ci abbracciavamo nascostamente nell'orto o in cucina. Ci volevamo un bene che ci sembrava fosse come una pasta tenera che si plasmasse sui nostri corpi.
Anche dietro la casa, al confine con l'orto, c'era un cantiere per la costruzione di un palazzo. Gli operai non finivano mai di fare le fondamenta perché ogni giorno gli scavi si estendevano sempre più: avevano ormai circondato la casa su tre lati affacciandosi alla strada. La catapecchia di Simone sembrava presa in trappola, senza possibilità di scampo, e certo sarebbe sembrata ancora più piccola quando i muri del palazzo si fossero innalzati tutt'intorno. Simone era invelenito. «È roba mia e loro sono matti a costruire tutti questi palazzi. Vorrebbero anche questa terra, dicono che mi offrono quello che voglio, ma è mia e non gliela do neanche per tutto l'oro del mondo».
Ora non ci potevamo più incontrare, io e Lidia, perché c'erano sempre operai a pochi metri di distanza con occhi indiscreti e su di noi campeggiava un'enorme gru che passava minacciosamente sulle nostre teste con grossi carichi di mattoni che penzolavano dalle grandi fauci. Ci rifugiavamo in cucina, appena Simone si assentava per qualche minuto. Pure di fronte alla bottega, sull'altro lato della strada, stavano costruendo e anche più in là, verso la collina. Tutta la zona che circondava la casa era ormai un solo cantiere, fragoroso, sempre animato da rombi di motori, da autocarri che andavano e venivano, da gru altissime che giravano intorno le loro lunghe braccia tese. Di cavalli non c'era più traccia e trascorrevamo giorni senza che dovessimo dare un colpo di mantice. Nemmeno cancelli dovevamo più fabbricare, perché gli impresari li facevano venire già fatti dalle officine che li costruivano in serie, di varie misure. Gli uomini del grande palazzo non lasciavano quasi passare mese senza tornare a chiedere di comperare la terra dell'orto e della casa. «No, no» diceva Simone, «via non ci vado, non so cosa farmene dei vostri soldi: per mangiare mi basta quel poco che ho messo da parte ferrando cavalli. Voglio restare nella mia casa. Sono io il padrone e faccio come mi pare». E quando quelli se ne erano andati picchiava grosse martellate sull'incudine, per sfogare la rabbia. Poi andava a bere e io abbandonavo la bottega per correre in cucina da Lidia.
Fu qui che ci sorprese un pomeriggio. Appena entrato nel negozio di vini era subito uscito e trovando vuota la bottega era venuto in cucina. Lei e io eravamo abbracciati in un angolo, tra il camino e la parete di fondo. Ci stavamo baciando e sul momento non ci accorgemmo di lui che era entrato adagio, senza far rumore. Rimase un momento a guardarci poi lanciò un urlo: «Disgraziati» gridò, «ma cosa fate?» Era nel mezzo della cucina con una mano in alto, minacciosa, stagliata contro la luce della porta che era rimasta aperta dietro le sue spalle. Io mi affiancai a Lidia e le passai un braccio intorno a una spalla. «Noi ci vogliamo bene» dissi. Lui abbassò il pugno e lo picchiò sulla tavola: «No, no, non voglio» gridò. Io rimasi fermo, attaccato a lei che come me stava immobile con gli occhi arditamente fissi al padre. Dal cantiere giungevano rombi di motori e voci sguaiate di uomini; la gru passava sul tetto della casa con un ronzio incombente.
Aspettavamo che accadesse qualcos'altro, che lui dicesse ancora una parola per poter reagire e dirgli che proprio eravamo fermamente decisi a stare uniti. Improvvisamente alle spalle di Simone, nel vano della porta aperta, si presentò un uomo. «Si può?» chiese, e intanto venne dentro. Simone si voltò a guardarlo con occhio acceso e interrogativo. «Scusi» disse l'uomo, «vengo per un avviso». Tolse da una borsa di pelle un foglio e lo presentò a Simone. «Che roba è?» chiese lui. «Un invito: è la giunta comunale che in considerazione dell'impulso assunto dalla città in questa zona la invita ad abbattere questa casa o a ristrutturarla, per esigenze di carattere pubblico». Simone abbassò gli occhi al foglio, poi si guardò intorno a cercare una sedia. Si sedette con lentezza. «E se io non faccio niente?» chiese. «In questo caso si inizierebbe l'azione per l'esproprio» rispose l'uomo.

Simone non si mosse; taceva e guardava il foglio, ma senza leggere, perché i suoi occhi erano immobili su un punto qualsiasi. Poi si voltò a guardare noi che stavamo ancora stretti e abbracciati, quindi guardò il messo. Riabbassò la testa. Aveva un braccio abbandonato sul tavolo con la mano aperta, sembravano il braccio e la mano di un morto tanto erano immobili. «Va bene» disse poi con voce debole, senza alzare gli occhi, «farò come volete». L'uomo salutò e uscì. Rimanemmo a lungo in silenzio. Infine Simone sollevò lo sguardo a noi: «Bisognerà che andiate a cercare quelli del palazzo che mi chiedevano la terra e la casa» disse, con appena un filo di voce.

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