Ottobre. Nel livido cielo si è
aperto un varco d'azzurro. Non piove più. Le foglie rosse dei tigli
stillano l'ultima pioggia. Le gocce cadono su altre foglie a terra. I
vialetti del parco hanno per tappeto le foglie gialle, rosso-cupo,
color ruggine, larghe, strette, a triangolo, affusolate.
Gian Piero cammina sul tappeto
morbido che geme, intriso d'acqua, sotto i suoi piedi. È già il
secondo giro che fa intorno alla villa, lentamente, tenendo le mani
in tasca, a tratti fischiettando, a tratti incantandosi a guardare i
colori che gli sono intorno. Ha sedici anni, porta un maglione rosso
con un arabesco giallo sul petto. È il primo giorno che l'indossa;
era tanto che lo desiderava. Sua madre diceva: «Te lo farò io,
quest'estate, in campagna». L'estate è ormai passata e la mamma
ieri ha finito il maglione. Gian Piero lo sente caldo intorno al
busto; gli rende molto piacevole il contrasto dell'aria umida e
fresca sul viso.
Tra pochi giorni ritornerà in
città, riprenderà le scuole, la seconda liceo. Lo studio è noioso,
ma in città c'è una consolazione, Martina. Gli ha scritto una
lettera ieri l'altro; la stringe nella mano sinistra, in tasca. Gian
Piero conosce a memoria quelle parole, eppure ha ancora il desiderio
di rileggerle. Accelera un po' il passo, raggiunge la parte
posteriore della villa; nelle stanze, su questo lato, non c'è
nessuno, può fermarsi liberamente, leggere con tranquillità. Scrive
Martina: "Il mio amore è dolce come è dolce l'autunno, carico
dei suoi colori e della sua tenerezza. Prendi in mano una foglia
caduta da un albero, guarda i suoi riflessi, senti come è morbida,
vellutata, tenera, è un gioiello di poesia. Io sento il mio amore
come questa foglia, con la sola differenza della mia inesauribile
vitalità".
Gian Piero rimette in tasca la
lettera, si china, raccoglie una foglia, l'accarezza con mano
leggera. Alza lo sguardo intorno: cento e mille foglie sono sugli
alberi, tenere e morbide e colorate, un bosco di poesia. Ricomincia a
piovere. Un tordo, dalla sommità di un faggio, saluta la pioggia con
un canto melodioso.
Ottobre. Che giornata
stupenda! Il caldo di settembre ha tracimato in questi primi giorni
ottobrini e anche il cielo continua a mantenersi limpido, d'un
azzurro che ravviva i colori della campagna. La natura sembra essere
in tripudio come se volesse fare corona a questa festa che oggi c'è
nel giardino. Sotto i faggi, i tigli, gl'ippocastani che delimitano
il prato dietro la villa c'è una distesa di tavolini apparecchiati,
quattro posti ogni tavolo, e sotto l'ombrello della secolare sofora
s'allunga il tavolo delle vivande, delle bevande, con pile di piatti,
file di bicchieri, vasi di fiori; e allineati davanti al tavolo ci
sono sei camerieri in giacca bianca e guanti bianchi, in attesa. I
tavoli sono vuoti. C'è silenzio e in questo silenzio vivono i canti
e i controcanti degli uccelli.
Quando, un mese fa, l'ing.
Gian Piero Bertini e la moglie Martina hanno deciso di fare il pranzo
qui, nel giardino della loro villa, non osavano sperare di avere una
giornata come questa, praticamente estiva: paventavano la pioggia,
s'auguravano soltanto tempo mite. A decidere, comunque, non erano
stati soltanto loro, ma anche Enrica e Lorenzo, entrambi appassionati
di questa che loro chiamano la casa di campagna e nella quale vengono
a trascorrere ogni momento libero. Enrica è la loro figlia e Lorenzo
il genero. Si stanno sposando adesso, nella chiesa del paese tutta
addobbata di fiori. Tra poco arriveranno, seguiti dai genitori, dai
parenti e da un centinaio di invitati. Enrica ha ventiquattro anni, è
laureata in medicina, mentre Lorenzo, procuratore, sta per diventare
avvocato. Per questa figlia unica Gian Piero e Martina hanno sempre
fatto quanto potevano e lei, da parte sua, li ha sempre ripagati con
amore. Una figlia perfetta; anche il genero sembra un ragazzo molto
per bene. Tutto lascia sperare che il matrimonio sia felice. La festa
di oggi vuole essere l'avvio di questa felicità.
Ecco che arrivano. Ci sono
clacson che strombazzano là in strada. Le prime auto varcano il
cancello, parcheggiano nello spiazzo antistante l'ingresso; le altre,
e sono decine, si fermano fuori, lungo la via. Ora il parco si sta
animando di voci e di colori. C'è un grande movimento nel prato,
molti si accingono a prendere posto ai tavoli, i camerieri entrano in
casa, vanno in cucina dove i cuochi stanno preparando le portate,
escono con piatti fumanti che posano sulla tavola. Oltre la distesa
dei tavolini, sotto una quercia, c'è un palco e sul palco ci sono
sei suonatori. Fino a qualche minuto fa non si vedevano, erano in
giro per il parco, adesso si stanno sistemando davanti ai loro
strumenti. Gli invitati cominciano a muoversi dai loro tavolini verso
il tavolo lungo per prendere i piatti e scegliere cibi e vini. C'è
ressa davanti ai sei camerieri che sono indaffarati a servire gli
ospiti. Poi, a poco a poco, tutti vanno ai loro posti, l'impegno di
ognuno è soprattutto rivolto al pranzo, c'è quindi un relativo
silenzio del quale l'orchestra non abusa limitandosi a suonare in
sordina musiche vivaci ma non chiassose.
Più tardi ci sono i
brindisi, i clamori dell'allegria generale.
«Tutti gli uccelli del parco
devono essere fuggiti spaventati» dice Gian Piero a Martina. Sono a
un tavolo con i consuoceri. Finora con loro hanno conversato,
discorsi di circostanza; adesso vorrebbero potersi distrarre, si
girano a guardare l'orchestra, per non dover continuare a parlare.
Sono fianco a fianco, il braccio sinistro di lui sfiora il destro di
lei; si prendono per mano, una stretta silenziosa, e si guardano. Una
domanda muta: cambierà la loro vita? Tra poco Enrica e Lorenzo
partiranno per il viaggio di nozze e al ritorno andranno, in città,
nel loro appartamento che da pochi giorni è pronto. Certo qualcosa
cambierà per loro. Come vorrebbero essere soli, almeno un momento:
forse si abbraccerebbero in silenzio.
Ottobre. Piove:
un'acquerugiola sottile e lenta, ma per tre giorni è piovuto a
dirotto. Al cancello della villa si ferma un'auto, il clacson suona.
Corre ad aprire un giovanotto stempiato con una giacca a righine blu
e grigie.
«Bentornato, ingegnere».
L'ing. Gian Piero Bertini risponde al saluto con la mano e innesta la
marcia, la macchina percorre qualche decina di metri, poi si ferma
davanti al portone. È la fine della settimana e l'ingegnere è
tornato per rimanere fino a lunedì. In città ha la sua azienda che
dirige personalmente, qui oltre alla villa ha il podere con il
contadino; nella villa si è trattenuta ancora sua moglie.
L'ingegnere scende dall'auto,
si guarda intorno, ha il viso accigliato.
«Ma Bartolomeo» dice al
giovanotto stempiato, «c'è bisogno che te lo dica io di pulire il
parco? I piedi affondano nelle foglie fradice».
«Scusi tanto ingegnere, ma
non si fa in tempo a pulire che subito si sporca di nuovo: le foglie
cadono in continuità e piove sempre». L'ingegnere si sofferma sulla
soglia, chiede:
«Novità?»
«Con la pioggia di questi
giorni è entrata acqua nelle soffitte, ci sono delle tegole rotte,
bisognerà far ripassare tutto il tetto».
«Ah» esclama con una smorfia
di disappunto l'ingegnere. Poi chiede: «E in campagna?» Il
domestico fa un gesto negativo:
«Tonio dice che con tutta
quest'acqua l'uva non si può raccogliere e marcisce». L'ingegnere
si gira con gesto brusco, innervosito, entra, sale.
Ora riprende a piovere più
forte. A un angolo della villa una grondaia ha un foro, l'acqua cade
sul marciapiedi, rumorosamente, alzando alti schizzi. L'ingegnere si
affaccia a una finestra del primo piano. Indossa una veste da camera
nocciola con bavero marrone. Si appoggia con i gomiti al davanzale e
guarda gli alberi, i vialetti del parco, il cielo; le nubi sono
basse, sembrano quasi toccare le vette degli alberi. Certo se la
sofora fosse rimasta intatta, alta com'era, quasi trenta metri,
adesso la cima si perderebbe nella nuvolaglia. Ma la sofora è
dimezzata: dieci anni fa, d'agosto, durante un temporale notturno, un
fulmine l'ha troncata; e ancora adesso la pianta termina con una
punta smozzicata: una ferita ancora aperta, che nessuno è mai salito
a curare con un taglio netto. Così la sofora, che era un'immagine di
eleganza maestosa e dava al parco il tocco della imponenza, ora lo
svilisce e immiserisce.
L'ingegnere resta un po' a
guardare; si stringe nelle spalle, ha freddo: Chiama:
«Martina, vieni a vedere».
Martina gli si affianca. «Guarda che tristezza» dice lui: «siamo
già in inverno, ormai, e non ne va bene una. In azienda le vendite
sono ferme per la stagione, qui il tetto fa acqua, bisogna mettersi
nelle mani dei muratori, l'uva non si può vendemmiare, il parco è
sepolto dalle foglie. E Gilda ha telefonato?».
«No, sono quindici giorni che
non si fa sentire». Lui scuote la testa, in un gesto di avvilimento.
Gilda è la nipote, ha sedici anni e vive con il padre, l'avvocato
Lorenzo. La madre, Enrica, da quando si è separata dal marito, otto
anni fa, si è trasferita in una città del sud dove lavora in un
laboratorio di analisi. La bambina all'inizio della separazione
trascorreva un po' di tempo con la madre e un po' con il padre, poi
ha optato per lui. Dai nonni andava abbastanza spesso, sia in città,
sia in campagna durante i fine settimana, ma negli ultimi tempi
queste visite si sono rarefatte. Anche Enrica viene sempre più di
rado; laggiù convive con un collega che i genitori non hanno mai
conosciuto.
L'acqua che cade dalla
grondaia scroscia sul marciapiedi, intorno al suo rumore c'è la
punteggiatura sonora delle gocce sulle foglie degli alberi vicini. Un
branco di corvi neri solca lo spazio grigio di cielo, tra il tetto e
le cime dei faggi, gracchiando. L'ingegnere solleva il busto, si
porta una mano alla schiena come per alleviare una sofferenza, invita
la moglie a rientrare, chiude la finestra.
«Di questi giorni» dice,
«sembra che non debba mai più venire il sole».
Ottobre. Il vento scuote gli
alberi del parco, le foglie si staccano, volano, vanno a cadere
lontano, quelle che sono a terra s'alzano o si rincorrono in
mulinelli. In cielo vagano grosse nubi bianche, sembrano montagne di
neve. È freddo. Bartolomeo, iI domestico, varca il cancello, lo
richiude, si incammina con passo svelto verso la villa. Nella mano
sinistra stringe un pacchetto, con la destra cerca di tenersi serrata
la giacca davanti al petto. Sulla testa quasi calva ha un berretto a
visiera. Sale al primo piano.
L'ingegnere è nella camera di
soggiorno, seduto in poltrona, di spalle alla porta; a lato ha una
stufetta elettrica accesa, sulle ginocchia una coperta. Gli è
davanti la finestra oltre la quale gli alberi scuotono le loro cime
ancora frondose disperdendo le foglie che fuggono rapide. Sono foglie
rosse, gialle, strette, larghe, allungate: il bianco delle nubi le fa
risaltare. Il domestico entra.
«Ingegnere» dice, «il
farmacista mi ha voluto aggiungere un'altra specialità, un prodotto
nuovo che assicura ottimo».
«Martina» chiama il vecchio
voltandosi verso l'uscio della camera accanto, «vieni un po' a
vedere queste medicine».
Martina entra, ha uno
scialletto sulle spalle, è pallida, con la pelle rugosa, ma è
ancora alta e ritta. Si avvicina al domestico, prende il pacchetto,
lo apre. Dentro ci sono due tubetti e due scatole rotonde metalliche.
Prende in mano uno dei tubetti.
«Questo non era nella
ricetta», osserva.
«Appunto» dice l'ingegnere,
«gliel'ha dato il farmacista assicurandogli che è buonissimo».
Martina legge:
«Conteril B2, contro
lombaggini, artriti, reumatismi».
«Bene» dice l'ingegnere, «lo
proverò, vedremo se è più efficace degli altri. Stasera, quando
andiamo a letto, mi frizionerai la schiena; questo vento lo sento
nelle ossa. L'importante, ad ogni modo» continua l'ingegnere, «è
che il farmacista non sia mai sprovvisto di Pertramina, che è la
migliore di tutte queste pomate. Dopo un buon massaggio mi sentirei
di andare anche in giro per il parco, nel vento freddo e sotto la
pioggia».
L'ingegnere tace un momento,
guarda gli alberi che si flettono; ode, fuori, un assiolo che ripete
il suo grido: chiù, chiù, chiù. Ha un momento di esitazione, poi
chiama la moglie:
«Martina, sarà bene
che la frizione con la nuova pomata me la faccia subito».
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