venerdì 11 settembre 2015

Autunno

Ottobre. Nel livido cielo si è aperto un varco d'azzurro. Non piove più. Le foglie rosse dei tigli stillano l'ultima pioggia. Le gocce cadono su altre foglie a terra. I vialetti del parco hanno per tappeto le foglie gialle, rosso-cupo, color ruggine, larghe, strette, a triangolo, affusolate.
Gian Piero cammina sul tappeto morbido che geme, intriso d'acqua, sotto i suoi piedi. È già il secondo giro che fa intorno alla villa, lentamente, tenendo le mani in tasca, a tratti fischiettando, a tratti incantandosi a guardare i colori che gli sono intorno. Ha sedici anni, porta un maglione rosso con un arabesco giallo sul petto. È il primo giorno che l'indossa; era tanto che lo desiderava. Sua madre diceva: «Te lo farò io, quest'estate, in campagna». L'estate è ormai passata e la mamma ieri ha finito il maglione. Gian Piero lo sente caldo intorno al busto; gli rende molto piacevole il contrasto dell'aria umida e fresca sul viso.
Tra pochi giorni ritornerà in città, riprenderà le scuole, la seconda liceo. Lo studio è noioso, ma in città c'è una consolazione, Martina. Gli ha scritto una lettera ieri l'altro; la stringe nella mano sinistra, in tasca. Gian Piero conosce a memoria quelle parole, eppure ha ancora il desiderio di rileggerle. Accelera un po' il passo, raggiunge la parte posteriore della villa; nelle stanze, su questo lato, non c'è nessuno, può fermarsi liberamente, leggere con tranquillità. Scrive Martina: "Il mio amore è dolce come è dolce l'autunno, carico dei suoi colori e della sua tenerezza. Prendi in mano una foglia caduta da un albero, guarda i suoi riflessi, senti come è morbida, vellutata, tenera, è un gioiello di poesia. Io sento il mio amore come questa foglia, con la sola differenza della mia inesauribile vitalità".
Gian Piero rimette in tasca la lettera, si china, raccoglie una foglia, l'accarezza con mano leggera. Alza lo sguardo intorno: cento e mille foglie sono sugli alberi, tenere e morbide e colorate, un bosco di poesia. Ricomincia a piovere. Un tordo, dalla sommità di un faggio, saluta la pioggia con un canto melodioso.


Ottobre. Che giornata stupenda! Il caldo di settembre ha tracimato in questi primi giorni ottobrini e anche il cielo continua a mantenersi limpido, d'un azzurro che ravviva i colori della campagna. La natura sembra essere in tripudio come se volesse fare corona a questa festa che oggi c'è nel giardino. Sotto i faggi, i tigli, gl'ippocastani che delimitano il prato dietro la villa c'è una distesa di tavolini apparecchiati, quattro posti ogni tavolo, e sotto l'ombrello della secolare sofora s'allunga il tavolo delle vivande, delle bevande, con pile di piatti, file di bicchieri, vasi di fiori; e allineati davanti al tavolo ci sono sei camerieri in giacca bianca e guanti bianchi, in attesa. I tavoli sono vuoti. C'è silenzio e in questo silenzio vivono i canti e i controcanti degli uccelli.
Quando, un mese fa, l'ing. Gian Piero Bertini e la moglie Martina hanno deciso di fare il pranzo qui, nel giardino della loro villa, non osavano sperare di avere una giornata come questa, praticamente estiva: paventavano la pioggia, s'auguravano soltanto tempo mite. A decidere, comunque, non erano stati soltanto loro, ma anche Enrica e Lorenzo, entrambi appassionati di questa che loro chiamano la casa di campagna e nella quale vengono a trascorrere ogni momento libero. Enrica è la loro figlia e Lorenzo il genero. Si stanno sposando adesso, nella chiesa del paese tutta addobbata di fiori. Tra poco arriveranno, seguiti dai genitori, dai parenti e da un centinaio di invitati. Enrica ha ventiquattro anni, è laureata in medicina, mentre Lorenzo, procuratore, sta per diventare avvocato. Per questa figlia unica Gian Piero e Martina hanno sempre fatto quanto potevano e lei, da parte sua, li ha sempre ripagati con amore. Una figlia perfetta; anche il genero sembra un ragazzo molto per bene. Tutto lascia sperare che il matrimonio sia felice. La festa di oggi vuole essere l'avvio di questa felicità.
Ecco che arrivano. Ci sono clacson che strombazzano là in strada. Le prime auto varcano il cancello, parcheggiano nello spiazzo antistante l'ingresso; le altre, e sono decine, si fermano fuori, lungo la via. Ora il parco si sta animando di voci e di colori. C'è un grande movimento nel prato, molti si accingono a prendere posto ai tavoli, i camerieri entrano in casa, vanno in cucina dove i cuochi stanno preparando le portate, escono con piatti fumanti che posano sulla tavola. Oltre la distesa dei tavolini, sotto una quercia, c'è un palco e sul palco ci sono sei suonatori. Fino a qualche minuto fa non si vedevano, erano in giro per il parco, adesso si stanno sistemando davanti ai loro strumenti. Gli invitati cominciano a muoversi dai loro tavolini verso il tavolo lungo per prendere i piatti e scegliere cibi e vini. C'è ressa davanti ai sei camerieri che sono indaffarati a servire gli ospiti. Poi, a poco a poco, tutti vanno ai loro posti, l'impegno di ognuno è soprattutto rivolto al pranzo, c'è quindi un relativo silenzio del quale l'orchestra non abusa limitandosi a suonare in sordina musiche vivaci ma non chiassose.
Più tardi ci sono i brindisi, i clamori dell'allegria generale.
«Tutti gli uccelli del parco devono essere fuggiti spaventati» dice Gian Piero a Martina. Sono a un tavolo con i consuoceri. Finora con loro hanno conversato, discorsi di circostanza; adesso vorrebbero potersi distrarre, si girano a guardare l'orchestra, per non dover continuare a parlare. Sono fianco a fianco, il braccio sinistro di lui sfiora il destro di lei; si prendono per mano, una stretta silenziosa, e si guardano. Una domanda muta: cambierà la loro vita? Tra poco Enrica e Lorenzo partiranno per il viaggio di nozze e al ritorno andranno, in città, nel loro appartamento che da pochi giorni è pronto. Certo qualcosa cambierà per loro. Come vorrebbero essere soli, almeno un momento: forse si abbraccerebbero in silenzio.


Ottobre. Piove: un'acquerugiola sottile e lenta, ma per tre giorni è piovuto a dirotto. Al cancello della villa si ferma un'auto, il clacson suona. Corre ad aprire un giovanotto stempiato con una giacca a righine blu e grigie.
«Bentornato, ingegnere». L'ing. Gian Piero Bertini risponde al saluto con la mano e innesta la marcia, la macchina percorre qualche decina di metri, poi si ferma davanti al portone. È la fine della settimana e l'ingegnere è tornato per rimanere fino a lunedì. In città ha la sua azienda che dirige personalmente, qui oltre alla villa ha il podere con il contadino; nella villa si è trattenuta ancora sua moglie.
L'ingegnere scende dall'auto, si guarda intorno, ha il viso accigliato.
«Ma Bartolomeo» dice al giovanotto stempiato, «c'è bisogno che te lo dica io di pulire il parco? I piedi affondano nelle foglie fradice».
«Scusi tanto ingegnere, ma non si fa in tempo a pulire che subito si sporca di nuovo: le foglie cadono in continuità e piove sempre». L'ingegnere si sofferma sulla soglia, chiede:
«Novità?»
«Con la pioggia di questi giorni è entrata acqua nelle soffitte, ci sono delle tegole rotte, bisognerà far ripassare tutto il tetto».
«Ah» esclama con una smorfia di disappunto l'ingegnere. Poi chiede: «E in campagna?» Il domestico fa un gesto negativo:
«Tonio dice che con tutta quest'acqua l'uva non si può raccogliere e marcisce». L'ingegnere si gira con gesto brusco, innervosito, entra, sale.
Ora riprende a piovere più forte. A un angolo della villa una grondaia ha un foro, l'acqua cade sul marciapiedi, rumorosamente, alzando alti schizzi. L'ingegnere si affaccia a una finestra del primo piano. Indossa una veste da camera nocciola con bavero marrone. Si appoggia con i gomiti al davanzale e guarda gli alberi, i vialetti del parco, il cielo; le nubi sono basse, sembrano quasi toccare le vette degli alberi. Certo se la sofora fosse rimasta intatta, alta com'era, quasi trenta metri, adesso la cima si perderebbe nella nuvolaglia. Ma la sofora è dimezzata: dieci anni fa, d'agosto, durante un temporale notturno, un fulmine l'ha troncata; e ancora adesso la pianta termina con una punta smozzicata: una ferita ancora aperta, che nessuno è mai salito a curare con un taglio netto. Così la sofora, che era un'immagine di eleganza maestosa e dava al parco il tocco della imponenza, ora lo svilisce e immiserisce.
L'ingegnere resta un po' a guardare; si stringe nelle spalle, ha freddo: Chiama:
«Martina, vieni a vedere». Martina gli si affianca. «Guarda che tristezza» dice lui: «siamo già in inverno, ormai, e non ne va bene una. In azienda le vendite sono ferme per la stagione, qui il tetto fa acqua, bisogna mettersi nelle mani dei muratori, l'uva non si può vendemmiare, il parco è sepolto dalle foglie. E Gilda ha telefonato?».
«No, sono quindici giorni che non si fa sentire». Lui scuote la testa, in un gesto di avvilimento. Gilda è la nipote, ha sedici anni e vive con il padre, l'avvocato Lorenzo. La madre, Enrica, da quando si è separata dal marito, otto anni fa, si è trasferita in una città del sud dove lavora in un laboratorio di analisi. La bambina all'inizio della separazione trascorreva un po' di tempo con la madre e un po' con il padre, poi ha optato per lui. Dai nonni andava abbastanza spesso, sia in città, sia in campagna durante i fine settimana, ma negli ultimi tempi queste visite si sono rarefatte. Anche Enrica viene sempre più di rado; laggiù convive con un collega che i genitori non hanno mai conosciuto.
L'acqua che cade dalla grondaia scroscia sul marciapiedi, intorno al suo rumore c'è la punteggiatura sonora delle gocce sulle foglie degli alberi vicini. Un branco di corvi neri solca lo spazio grigio di cielo, tra il tetto e le cime dei faggi, gracchiando. L'ingegnere solleva il busto, si porta una mano alla schiena come per alleviare una sofferenza, invita la moglie a rientrare, chiude la finestra.
«Di questi giorni» dice, «sembra che non debba mai più venire il sole».


Ottobre. Il vento scuote gli alberi del parco, le foglie si staccano, volano, vanno a cadere lontano, quelle che sono a terra s'alzano o si rincorrono in mulinelli. In cielo vagano grosse nubi bianche, sembrano montagne di neve. È freddo. Bartolomeo, iI domestico, varca il cancello, lo richiude, si incammina con passo svelto verso la villa. Nella mano sinistra stringe un pacchetto, con la destra cerca di tenersi serrata la giacca davanti al petto. Sulla testa quasi calva ha un berretto a visiera. Sale al primo piano.
L'ingegnere è nella camera di soggiorno, seduto in poltrona, di spalle alla porta; a lato ha una stufetta elettrica accesa, sulle ginocchia una coperta. Gli è davanti la finestra oltre la quale gli alberi scuotono le loro cime ancora frondose disperdendo le foglie che fuggono rapide. Sono foglie rosse, gialle, strette, larghe, allungate: il bianco delle nubi le fa risaltare. Il domestico entra.
«Ingegnere» dice, «il farmacista mi ha voluto aggiungere un'altra specialità, un prodotto nuovo che assicura ottimo».
«Martina» chiama il vecchio voltandosi verso l'uscio della camera accanto, «vieni un po' a vedere queste medicine».
Martina entra, ha uno scialletto sulle spalle, è pallida, con la pelle rugosa, ma è ancora alta e ritta. Si avvicina al domestico, prende il pacchetto, lo apre. Dentro ci sono due tubetti e due scatole rotonde metalliche. Prende in mano uno dei tubetti.
«Questo non era nella ricetta», osserva.
«Appunto» dice l'ingegnere, «gliel'ha dato il farmacista assicurandogli che è buonissimo». Martina legge:
«Conteril B2, contro lombaggini, artriti, reumatismi».
«Bene» dice l'ingegnere, «lo proverò, vedremo se è più efficace degli altri. Stasera, quando andiamo a letto, mi frizionerai la schiena; questo vento lo sento nelle ossa. L'importante, ad ogni modo» continua l'ingegnere, «è che il farmacista non sia mai sprovvisto di Pertramina, che è la migliore di tutte queste pomate. Dopo un buon massaggio mi sentirei di andare anche in giro per il parco, nel vento freddo e sotto la pioggia».

L'ingegnere tace un momento, guarda gli alberi che si flettono; ode, fuori, un assiolo che ripete il suo grido: chiù, chiù, chiù. Ha un momento di esitazione, poi chiama la moglie:
«Martina, sarà bene che la frizione con la nuova pomata me la faccia subito».




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