La casa in fiamme.
L'incendio, divampato al pianterreno in un magazzino di vernici,
aveva già conquistato il secondo piano dello stabile. I pompieri
lavoravano senza sosta con gli idranti e con le lunghe scale per
salvare, attraverso le finestre, gli inquilini bloccati nelle stanze.
Urla laceranti di donne e pianti di bimbi s'innestavano via via nel
rombo dei motori delle pompe e nel crepitare del fuoco.
Dall'alto della sua scala
il pompiere Anderlini si affacciò a una finestra del quarto piano:
«Venga» gridò, «venga che la porto giù». Il vecchio, forse
ottuagenario, rimaneva immobile al centro della stanza, la camera da
pranzo. Avvolto dal fumo che mangiava i contorni di tutte le cose,
era in piedi a fianco del tavolo, con una mano posata sul piano,
l'altro braccio disteso lungo il fianco: sembrava in posa per una
fotografia dell'Ottocento, con i baffi lunghi, gli occhi fissi.
«Venga avanti, si appoggi al davanzale, così la carico su una
spalla e scendiamo» l'invitò ancora il pompiere. Il vecchio fece un
passo avanti: un passo incerto. «Sono un colonnello» disse con voce
stentorea, ma si interruppe scosso da un accesso di tosse per
l'asprezza dell'aria ormai irrespirabile. Poi riprese: «non ho
bisogno di essere portato a spalle, io» e decisamente avanzò fino
alla finestra facendo largo con una mano perchè il pompiere si
scansasse. Si mise di sbieco, sollevò una gamba per farla arrivare
al davanzale, ma stentava a riuscirci e il pompiere allungò una mano
per aiutarlo a sollevarla. Con molta fatica la manovra approdò:
seduto sul davanzale il colonnello riuscì a tirar su anche l'altra
gamba e si girò verso l'esterno. Dondolava la testa in segno
positivo, per dire con orgoglio che ce l'aveva fatta, era già pronto
per la discesa. Posò un piede sul primo gradino, poi l'altro sul
secondo, sempre sorretto dalle mani del pompiere. A metà discesa
ebbe un moto di liberazione per togliersi di torno le braccia
soccorritrici. «So scendere da solo» disse. Gli tremavano le mani e
i piedi, tuttavia scendeva, ora preceduto dal pompiere che stava
pronto per afferrarlo. Due minuti ancora e poi era a terra, annerito
dal fumo, con gli occhi sbarrati, scintillanti. «Ero negli alpini,
io: un colonnello degli alpini», disse.
L'albero di cuccagna.
C'era la fiera nel villaggio collinare. La piazza era gremita di
bancarelle e dietro la chiesa, nel campo di calcio, si alzava un alto
palo alla cui sommità erano attaccati, a grappolo, i più svariati
oggetti: dal salame al copertone di bicicletta, dal fiasco di vino al
barattolo di conserva. Era l'albero di cuccagna: i premi appesi
sarebbero andati a chi li avesse raggiunti per primo dopo essersi
arrampicato lungo la superficie liscia e insaponata. La gara, aperta
a tutti, si sarebbe svolta nel pomeriggio. La gente faceva
pronostici: «Vincerà Domenico, il garzone del fornaio». «No,
vincerà Luigino, il figlio di Battista». Nel gruppo s'alzò una
voce: «Ve lo dico io chi vincerà: il pompiere Anderlini che oggi
deve venire dalla città a trovare la famiglia qui in villeggiatura,
più agile di un pompiere non c'è nessuno».
Nel pomeriggio la folla
si accalcò intorno al palo e la gara ebbe inizio, ma nessuno
riusciva ad andare oltre la metà della salita. Le risate nascevano
dalla folla a ondate, ogniqualvolta il concorrente di turno
all'assalto della cuccagna scivolava perdendo la quota conquistata a
costo di tanta fatica. A un tratto un giovane gridò: «Sta arrivando
il pompiere». Tutti si voltarono verso la strada e videro Anderlini
che veniva avanti lentamente assieme alla moglie e alla bambina;
vestiva in borghese, un abito grigio con camicia bianca e scarpe di
camoscio, e guardava incuriosito verso il palo. Uno gridò: «Vieni
giù Michele, che adesso il pompiere ti fa vedere come si fa ad
arrivare in cima». Il pompiere si voltò di scatto a guardare
quello che aveva parlato. Gli puntò addosso due occhi fissi e freddi
e così glieli tenne a lungo. Tutta la gente tacque e guardò il
pompiere che continuava a fissare l'altro. Sembrava che stesse per
partire un gesto d'ira, un gesto violento. Infine disse, lentamente:
«Continuate pure a giocare» e si avviò per tornare indietro,
assieme alla moglie e alla bimba, a passeggiare sulla strada.
Un'ora dopo alla cuccagna
arrivò Luigino, il figlio del contadino Battista.
Un paio di pantaloni.
Quando il giovane Luigino ebbe finito di scaricare le bottiglie di
vino dal motocarro, nel cortile del padrone, fece un fischio e chiamò
Mafalda, la donna di servizio, perché dicesse alla signora che lui
aveva ultimato e se ne tornava in campagna. Invece di Mafalda venne
sul balcone la vecchia signora, moglie dell'avvocato proprietario del
podere del quale il padre di Luigino era affittuario. «Che bravo
ragazzo, sei», disse guardando le bottiglie allineate a terra
davanti alla porta della cantina. Aggiunse: «Ma come mai sei così
mal conciato?» e gli indicò i pantaloni che avevano, in una gamba,
uno strappo sopra il ginocchio. Luigino tirò su le spalle: «Non
importa» disse, «mica devo andare a ballare, per lavorare vado bene
anche così». La signora gli fece segno di aspettare e rientrò
nella stanza. Riapparve poco dopo con un involto che buttò giù, sul
motocarro. «È un regalo per te» disse. Luigino ringraziò e andò
in sella a mettere in moto.
Appena fu due strade più
in là accostò al marciapiedi e aprì il fagotto: moriva dalla
voglia di vedere cosa conteneva. C'era un paio di pantaloni color
marrone, usati, lo si vedeva bene: erano pantaloni del padrone,
Luigino ricordava di averglieli visti una volta che era venuto in
campagna a vedere vendemmiare. Avevano delle macchie qua e là e
dietro erano lisi. Con un gesto brusco, iroso, li gettò nel cassone
del motocarro. In fondo alla strada c'era una chiesa e su un gradino
della porta stava seduto un mendicante. Fermò il motocarro, afferrò
i pantaloni e andò ad offrirglieli: «Le vuole queste braghe?» Il
vecchio si alzò, prese in mano i pantaloni, li rigirò e incominciò
a ringraziare: «Dio la benedica, Dio la benedica». Luigino stava
già andandosene col suo motore rombante.
Una cicca lunga. La
chiesa, illuminata a giorno anche all'esterno con grossi riflettori,
s'andava affollando di fedeli per la cerimonia notturna in onore del
patrono della città. Davanti alla porta il mendicante era contento:
la gente era generosa e lui aveva i pantaloni nuovi, color marrone,
che gli aveva regalato un bravo giovane tre giorni prima. Il
mendicante stendeva la mano e pronunciava in continuità parole di
benedizione, guardando in faccia i fedeli.
Un uomo alto, coi baffi
biondi, quando fu sulla soglia della chiesa si tolse di bocca la
sigaretta, ancora lunga per metà, e la buttò a terra. Il mendicante
non potè evitare di seguire con l'occhio la parabola dell'oggetto
bianco che cadeva e sbagliò il ritornello di ringraziamento che
stava pronunciando. Subito si riprese; tuttavia continuò a pensare
alla cicca, alla lunga cicca: era lì, a tre passi, vicino al muro,
ancora accesa. Ma non poteva chinarsi: lui chiedeva la carità, non
andava a raccattare gli avanzi degli altri come fanno i cani. Pensava
alla cicca e intanto si ergeva sempre più sul busto e con la mano
libera si apriva la giacca perchè si vedessero i pantaloni belli,
color marrone. Mendicava l'elemosina, ma era pulito, ben curato, non
era uno che facesse schifo, lui; la gente doveva ben notarle queste
cose.
Improvvisamente le luci
si spensero, tutte, sia dentro che fuori della chiesa. Era una delle
solite interruzioni di corrente, a volte duravano pochi minuti,
qualche volta anche mezz'ora. Dalla folla si alzò come una preghiera
un coro di esclamazioni. Sulla porta della chiesa giungeva tenue,
rossastro, il chiarore delle candele, ma non riusciva a varcare la
soglia e a forzare il buio della notte. Meno di due minuti dopo la
luce tornò e i riflettori furono di nuovo incandescenti. Il
mendicante riprese a stendere la mano; con l'altra toccava, in una
tasca, la cicca, la lunga cicca dell'uomo coi baffi biondi. "Meno
male che è venuta a mancare la corrente" pensò. Infatti, ad
un'estremità del sagrato, a lato della gente che ancora entrava alla
spicciolata in chiesa, aveva scorto il vecchio Tonino che avanzava a
testa bassa, com'era sua abitudine, perché così vedeva le cicche da
puntare col bastoncino chiodato.
Un raccolto bagnato.
Il cielo si oscurò rapidamente, poi, ad uno strappo di tuono,
incominciò a piovere. La gente si mise a correre per andare al
coperto. Tonino era proprio di fronte a un balcone, attraversò la
strada e ci andò al riparo. Un momento dopo arrivarono due giovani e
anch'essi si fermarono, si asciugarono la faccia, si pettinarono.
«Ehilà, Tonino» lo salutò uno dei due. L'altro fece una risata e
disse: «Tonino, adesso la pioggia ti bagna il raccolto delle
cicche». «Pazienza» disse Tonino, «aspetterò che si asciughino».
Il primo chiese: «E fino adesso ne hai raccolte molte?» «No, stavo
andando allo stadio: ieri c'è stata la partita, ci sarà da far
bene». «Sei proprio scalognato» disse il secondo giovane, «quanti
soldi perderai?» «Forse due mila lire». «Perché» chiese
l'altro, «il tabacco che raccogli lo vendi?» «Lo vendo ai vecchi
del ricovero». «E coi soldi che ci fai?» «Ci mangio».
La pioggia batteva forte
sul selciato. I giovani e il vecchio ora tacevano e ascoltavano quel
suono disteso sulla terra. Poi, all'improvviso come aveva
incominciato, smise di piovere. Uno dei giovani tolse dal portamonete
un po' di spiccioli e li allungò al vecchio. «Tieni» disse, «così
rimedi un po' alla pioggia». Il vecchio guardò le monete, poi
guardò il giovane. «Grazie» disse, «ma io vado a cicche, non vado
all'elemosina», e si avviò rasente al muro, per evitare le
pozzanghere.
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