giovedì 7 gennaio 2016

Basta non sapere

Questi contatti settimanali con alcuni ex allievi gli danno forse l'illusione di avere fermato il tempo al periodo aureo della propria vita, quando insegnava latino e greco al liceo classico Carducci. Era il riveritissimo professor Aurelio Locci, stimato dai colleghi e amato dagli alunni perché da loro sapeva ottenere il massimo senza avere l'aria di usare imposizione: con la dolcezza, la tolleranza, il buon umore. Le sue grammatiche e le sue sintassi frequentemente viravano su improvvise facezie, sicché questo suo spirito allegro alleggeriva il peso delle cose dotte da digerire. Ha lasciato l'insegnamento da quindici mesi, nonostante non abbia ancora cinquant'anni, ma il momento del pensionamento gli era parso economicamente favorevole e ha fatto questa scelta. Gli sarebbe pesata molto la perdita del contatto con i giovani ma, grazie a una circostanza fortuita, questo rapporto diretto con gli ex allievi è rimasto. Erano passate appena tre settimane dalla sua uscita dall'insegnamento quando un pomeriggio, mentre era seduto in una saletta del Caffè Centrale, il locale più alla moda della cittadina, erano entrati quattro dei suoi studenti. Calorose strette di mano, grande soddisfazione da parte di tutti per l'incontro. I ragazzi si erano seduti al tavolino, Locci aveva offerto la consumazione, avevano chiacchierato, scherzato. Alla fine il professore aveva fatto una proposta: se voi e qualche altro vostro compagno avete voglia di incontrarmi, tenete presente che io a quest'ora sono sempre qui. Era un venerdì. Da allora tutti i venerdì, tra le sei e mezza e le sette e mezza di sera, due o tre tavolini del Caffè Centrale sono occupati dal professor Locci e da un gruppo di suoi ex allievi.
Naturalmente non parlano né di latino né di greco. A Locci piace filosofeggiare, ma lo fa con la sua solita arguzia, sa trovare sempre argomenti che tengono vivo l'interesse nel suo uditorio e così non c'è mai un venerdì vuoto, a volte i ragazzi sono cinque o sei, a volte una dozzina. Aperitivo per tutti, ovviamente offerto dal professore, e piacevole scandaglio di un argomento scelto a caso nell'ambito filosofico o del costume corrente, con grande soddisfazione sua e dei giovani. Il tema che Locci sta affrontando oggi è quello della conoscenza: non tanto la conoscenza delle cose scientifiche o comunque quelle che si apprendono con lo studio dei libri (va bene il latino e il greco che loro hanno affrontato fin qui e ancora stanno affrontando), ma la conoscenza degli eventi che riguardano lo stesso individuo e che possono essere avversi e procurargli contrarietà, dolore, angoscia a seconda della loro intensità e gravità. Meglio non sapere nulla, sostiene il professore.
Passa ad un esempio prendendo spunto da una notizia comparsa su un giornale. Un uomo improvvisamente dichiara di essere figlio illegittimo di John Kennedy, l'ormai mitico presidente degli Stati Uniti assassinato a Dallas, e della stella del cinema, altrettanto mitica, per la sua bellezza, Marilyn Monroe. «Ora» sostiene Locci, «questa notizia non porta nessuna conseguenza di qualche peso. Perché? Ma perchè sono morti Kennedy, la Monroe e Jacqueline che del presidente era moglie all'epoca in cui sarebbe nato questo figlio illegittimo. La notizia oggi può essere curiosa, suscitare un certo interesse nel pubblico che ha il ruolo di osservatore, ma non si ripercuote drammaticamente su nessuno perché i diretti interessati non ci sono più. Se invece la notizia avesse fatto la sua irruzione nei mezzi di informazione quando Kennedy era presidente, con gli occhi di tutto il mondo puntati su di lui, la risonanza sarebbe stata enorme. Cioè voglio dire che minore è il clamore che circonda un qualsiasi evento, maggiore è il suo svilimento: se è circondato dal silenzio è come se non esistesse. Ora trasferiamo, come ipotesi, la notizia di un figlio illegittimo su una coppia di semplici cittadini. In questa normalità cosa succede?»
I ragazzi sono attenti, incuriositi dalla strana tesi nella quale si è avventurato Locci. Riprende: «Succede che i rapporti tra marito e moglie si sconvolgono come investiti da un tempestoso fortunale. L'uomo indicato come padre, ammettendo che lo sia davvero, vede con sgomento svelato all'improvviso il suo segreto, sente tramutare la propria immagine di rettitudine in quella di abietto traditore e la moglie si infuria, piange, si dispera, assiste al crollo del mito che aveva creato intorno alla figura leale, onesta, esemplare del suo uomo. Sono entrambi tormentati dall'angoscia, non dormono la notte, litigano quasi in continuazione, basta una delle piccole normali contrarietà quotidiane perchè lei rovesci su di lui, a ripetizione quasi continua, la grande colpa di cui si è macchiato, incoronandola con le spine dei più cattivi epiteti, delle più penetranti offese. E se l'accusa è falsa, se l'uomo non è padre di nessun illegittimo, se non ha mai avuto alcuna relazione con la donna indicata, non meno sconvolgente sarà l'ambascia del suo animo perché dovrà far fronte a questa caterva di accuse infondate e di velenose invettive senza riuscire a convincere la moglie, diventata feroce parte avversa, della calunniosa menzogna».
Una domanda. «Professore, perché dice che è meglio non sapere niente? Come è possibile?»
«Vi ho fatto l'esempio di Kennedy, della Monroe e di Jacqueline: l'annuncio di una presunta illegittima paternità dell'ex presidente non suscita più nulla perchè loro non ci sono più e non succede nient'altro, non cade il mondo, il presunto figlio rimane tale e tutto si mette a tacere. Esattamente questo succederebbe se i nostri due comunissimi cittadini, viventi, non dessero segno di avere recepito la notizia. Dovrebbero assolutamente ignorarla, "non saperla", "non averla mai appresa": in altre parole "basta non sapere" per annullare il problema. Cosa certamente non facile perché si tratta di comandare ai propri sentimenti, soffocare gli istinti, riuscire a mantenere saldi gli equilibri esistenti tra gli interessati. Di fronte a questa apparente insensibilità dei protagonisti chiamati in causa, i commenti, le reazioni esterne si smorzano, non hanno materiale da ardere, tutto finisce».
Il professore tace e tacciono anche i giovani. Sono perplessi, non sembrano molto convinti di questo asserto. Poi uno prova ad obiettare: «Soffocare dentro di sé, o meglio annullare questa conoscenza che se palesata creerebbe disagio o dolore non può causare, alla fine, un più grave trauma psicologico?»
«L'opposizione totale, il rifiuto di questo sconvolgimento comporta senza dubbio uno sforzo che richiede animo molto saldo, ma il premio è grande: si tratta di far proseguire, immutata, la situazione di pace che esisteva un attimo prima dell'avvenuto contatto con la conoscenza dell'evento perturbatore».
«E se io alla fine dell'anno scolastico sarò bocciato, dovrò allegramente far conto di essere stato promosso?»
«No: dovrai semplicemente prendere la bocciatura come una fortunata possibilità di ripercorrere il cammino dell'anno passato con un maggiore impegno».
«Questa è rassegnazione».
«No, la rassegnazione è passiva, io sto parlando di un modo attivo di affrontare l'evento negativo, come se fosse una buona occasione, da vivere felicemente».
Un ragazzo con gli occhiali e il volto macchiato dalle efelidi solleva una mano.
«Dimmi Merlotti».
«E se la mia ragazza mi pianta per andare con un altro?»
«Benissimo, ti libera dall'impegno di dover convivere con una fedifraga. Sarai così più lieto di prima per la libertà e lo scampato pericolo>>.
Gli amici ridono. «Fortunato tu», commenta uno, ma lui ribatte:
«E se io continuo ad amarla?»
«Ma come?» si sorprende Locci, «Non sai proprio comandare ai tuoi istinti? Grave!» Aggiunge: «Vedi, il problema è questo: bisogna sempre regolare le proprie azioni non sulla passione, ma sulla ragione, sapersi mettere al di sopra degli accidenti che può provocare la vita e, anche questo è importante, al di sopra delle opinioni della gente. In altre parole, si deve saper conservare la tranquillità dello spirito sia quando la fortuna è favorevole, sia quando è avversa».

Arriva il titolare del Caffè, si rivolge a Locci: «Professore, la cercano al telefono». Locci lo guarda meravigliato, mormora: «Ma chi può essere che mi cerca qui?»
«È un condomino del palazzo dove abita lei».
«Un condomino? È mai possibile che mi telefoni mentre sono al Caffè Centrale?» Si alza visibilmente preoccupato e si avvia alla cabina. I giovani lo seguono e lo vedono poi, oltre i vetri, mentre sta parlando. A un tratto si porta la mano libera alla testa con un gesto rapido, poi se la tiene sulla fronte. E' un segno evidente di grande preoccupazione. La telefonata continua ancora per un paio di minuti poi il professore riattacca, esce, si dirige a grandi passi al tavolo. Si lascia cadere sulla sedia. E' pallido, sembra che faccia fatica a respirare, si passa ancora la mano alla fronte, come aveva fatto in cabina.
«Dio, cosa càpita!» mormora.
I ragazzi lo guardano allibiti, si chiedono che cosa sarà successo. Il professor Locci emette un lungo sospiro, poi dice tutto d'un fiato, sforzandosi di vincere l'afflizione: «La mia domestica, che era sola in casa, è uscita lasciando aperto un rubinetto in bagno, la casa si è allagata e l'acqua scende al piano di sotto. Dio mio, adesso devo correre, come farò?» Si guarda intorno con occhio smarrito, forse cerca il cameriere per pagare. Uno dei ragazzi, lo tranquillizza:
«Professore, al cameriere pensiamo noi, corra, corra».
Si alza: «Grazie, grazie», vorrebbe stringere le mani, ma non sa da che parte incominciare, anche perché si avvede che la mano destra gli trema. Fa un cenno di saluto, per tutti. «Ciao, ciao, vado, vado». Esce un po' barcollando.


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