Questi contatti
settimanali con alcuni ex allievi gli danno forse l'illusione di
avere fermato il tempo al periodo aureo della propria vita, quando
insegnava latino e greco al liceo classico Carducci. Era il
riveritissimo professor Aurelio Locci, stimato dai colleghi e amato
dagli alunni perché da loro sapeva ottenere il massimo senza avere
l'aria di usare imposizione: con la dolcezza, la tolleranza, il buon
umore. Le sue grammatiche e le sue sintassi frequentemente viravano
su improvvise facezie, sicché questo suo spirito allegro alleggeriva
il peso delle cose dotte da digerire. Ha lasciato l'insegnamento da
quindici mesi, nonostante non abbia ancora cinquant'anni, ma il
momento del pensionamento gli era parso economicamente favorevole e
ha fatto questa scelta. Gli sarebbe pesata molto la perdita del
contatto con i giovani ma, grazie a una circostanza fortuita, questo
rapporto diretto con gli ex allievi è rimasto. Erano passate appena
tre settimane dalla sua uscita dall'insegnamento quando un
pomeriggio, mentre era seduto in una saletta del Caffè Centrale, il
locale più alla moda della cittadina, erano entrati quattro dei suoi
studenti. Calorose strette di mano, grande soddisfazione da parte di
tutti per l'incontro. I ragazzi si erano seduti al tavolino, Locci
aveva offerto la consumazione, avevano chiacchierato, scherzato. Alla
fine il professore aveva fatto una proposta: se voi e qualche altro
vostro compagno avete voglia di incontrarmi, tenete presente che io
a quest'ora sono sempre qui. Era un venerdì. Da allora tutti i
venerdì, tra le sei e mezza e le sette e mezza di sera, due o tre
tavolini del Caffè Centrale sono occupati dal professor Locci e da
un gruppo di suoi ex allievi.
Naturalmente non parlano
né di latino né di greco. A Locci piace filosofeggiare, ma lo fa
con la sua solita arguzia, sa trovare sempre argomenti che tengono
vivo l'interesse nel suo uditorio e così non c'è mai un venerdì
vuoto, a volte i ragazzi sono cinque o sei, a volte una dozzina.
Aperitivo per tutti, ovviamente offerto dal professore, e piacevole
scandaglio di un argomento scelto a caso nell'ambito filosofico o del
costume corrente, con grande soddisfazione sua e dei giovani. Il tema
che Locci sta affrontando oggi è quello della conoscenza: non tanto
la conoscenza delle cose scientifiche o comunque quelle che si
apprendono con lo studio dei libri (va bene il latino e il greco che
loro hanno affrontato fin qui e ancora stanno affrontando), ma la
conoscenza degli eventi che riguardano lo stesso individuo e che
possono essere avversi e procurargli contrarietà, dolore, angoscia
a seconda della loro intensità e gravità. Meglio non sapere nulla,
sostiene il professore.
Passa ad un esempio
prendendo spunto da una notizia comparsa su un giornale. Un uomo
improvvisamente dichiara di essere figlio illegittimo di John
Kennedy, l'ormai mitico presidente degli Stati Uniti assassinato a
Dallas, e della stella del cinema, altrettanto mitica, per la sua
bellezza, Marilyn Monroe. «Ora» sostiene Locci, «questa notizia
non porta nessuna conseguenza di qualche peso. Perché? Ma perchè
sono morti Kennedy, la Monroe e Jacqueline che del presidente era
moglie all'epoca in cui sarebbe nato questo figlio illegittimo. La
notizia oggi può essere curiosa, suscitare un certo interesse nel
pubblico che ha il ruolo di osservatore, ma non si ripercuote
drammaticamente su nessuno perché i diretti interessati non ci
sono più. Se invece la notizia avesse fatto la sua irruzione nei mezzi di
informazione quando Kennedy era presidente, con gli occhi di tutto il
mondo puntati su di lui, la risonanza sarebbe stata enorme. Cioè
voglio dire che minore è il clamore che circonda un qualsiasi
evento, maggiore è il suo svilimento: se è circondato dal silenzio
è come se non esistesse. Ora trasferiamo, come ipotesi, la notizia
di un figlio illegittimo su una coppia di semplici cittadini. In
questa normalità cosa succede?»
I ragazzi sono attenti,
incuriositi dalla strana tesi nella quale si è avventurato Locci.
Riprende: «Succede che i rapporti tra marito e moglie si sconvolgono
come investiti da un tempestoso fortunale. L'uomo indicato come
padre, ammettendo che lo sia davvero, vede con sgomento svelato
all'improvviso il suo segreto, sente tramutare la propria immagine di
rettitudine in quella di abietto traditore e la moglie si infuria,
piange, si dispera, assiste al crollo del mito che aveva creato
intorno alla figura leale, onesta, esemplare del suo uomo. Sono
entrambi tormentati dall'angoscia, non dormono la notte, litigano
quasi in continuazione, basta una delle piccole normali contrarietà
quotidiane perchè lei rovesci su di lui, a ripetizione quasi
continua, la grande colpa di cui si è macchiato, incoronandola con
le spine dei più cattivi epiteti, delle più penetranti offese. E se
l'accusa è falsa, se l'uomo non è padre di nessun illegittimo, se
non ha mai avuto alcuna relazione con la donna indicata, non meno
sconvolgente sarà l'ambascia del suo animo perché dovrà far fronte
a questa caterva di accuse infondate e di velenose invettive senza
riuscire a convincere la moglie, diventata feroce parte avversa,
della calunniosa menzogna».
Una domanda. «Professore,
perché dice che è meglio non sapere niente? Come è possibile?»
«Vi ho fatto l'esempio
di Kennedy, della Monroe e di Jacqueline: l'annuncio di una presunta
illegittima paternità dell'ex presidente non suscita più nulla
perchè loro non ci sono più e non succede nient'altro, non cade il
mondo, il presunto figlio rimane tale e tutto si mette a tacere.
Esattamente questo succederebbe se i nostri due comunissimi
cittadini, viventi, non dessero segno di avere recepito la notizia.
Dovrebbero assolutamente ignorarla, "non saperla", "non
averla mai appresa": in altre parole "basta non sapere"
per annullare il problema. Cosa certamente non facile perché si
tratta di comandare ai propri sentimenti, soffocare gli istinti,
riuscire a mantenere saldi gli equilibri esistenti tra gli
interessati. Di fronte a questa apparente insensibilità dei
protagonisti chiamati in causa, i commenti, le reazioni esterne si
smorzano, non hanno materiale da ardere, tutto finisce».
Il professore tace e
tacciono anche i giovani. Sono perplessi, non sembrano molto convinti
di questo asserto. Poi uno prova ad obiettare: «Soffocare dentro di
sé, o meglio annullare questa conoscenza che se palesata creerebbe
disagio o dolore non può causare, alla fine, un più grave trauma
psicologico?»
«L'opposizione totale,
il rifiuto di questo sconvolgimento comporta senza dubbio uno sforzo
che richiede animo molto saldo, ma il premio è grande: si tratta di
far proseguire, immutata, la situazione di pace che esisteva un
attimo prima dell'avvenuto contatto con la conoscenza dell'evento
perturbatore».
«E se io alla fine
dell'anno scolastico sarò bocciato, dovrò allegramente far conto di
essere stato promosso?»
«No: dovrai
semplicemente prendere la bocciatura come una fortunata possibilità
di ripercorrere il cammino dell'anno passato con un maggiore
impegno».
«Questa è
rassegnazione».
«No, la rassegnazione è
passiva, io sto parlando di un modo attivo di affrontare l'evento
negativo, come se fosse una buona occasione, da vivere felicemente».
Un ragazzo con gli
occhiali e il volto macchiato dalle efelidi solleva una mano.
«Dimmi Merlotti».
«E se la mia ragazza mi
pianta per andare con un altro?»
«Benissimo, ti libera
dall'impegno di dover convivere con una fedifraga. Sarai così più
lieto di prima per la libertà e lo scampato pericolo>>.
Gli amici ridono.
«Fortunato tu», commenta uno, ma lui ribatte:
«E se io continuo ad
amarla?»
«Ma come?» si sorprende
Locci, «Non sai proprio comandare ai tuoi istinti? Grave!»
Aggiunge: «Vedi, il problema è questo: bisogna sempre regolare le
proprie azioni non sulla passione, ma sulla ragione, sapersi mettere
al di sopra degli accidenti che può provocare la vita e, anche
questo è importante, al di sopra delle opinioni della gente. In
altre parole, si deve saper conservare la tranquillità dello spirito
sia quando la fortuna è favorevole, sia quando è avversa».
Arriva il titolare del
Caffè, si rivolge a Locci: «Professore, la cercano al telefono».
Locci lo guarda meravigliato, mormora: «Ma chi può essere che mi
cerca qui?»
«È un condomino del
palazzo dove abita lei».
«Un condomino? È mai
possibile che mi telefoni mentre sono al Caffè Centrale?» Si alza
visibilmente preoccupato e si avvia alla cabina. I giovani lo seguono
e lo vedono poi, oltre i vetri, mentre sta parlando. A un tratto si
porta la mano libera alla testa con un gesto rapido, poi se la tiene
sulla fronte. E' un segno evidente di grande preoccupazione. La
telefonata continua ancora per un paio di minuti poi il professore
riattacca, esce, si dirige a grandi passi al tavolo. Si lascia cadere
sulla sedia. E' pallido, sembra che faccia fatica a respirare, si
passa ancora la mano alla fronte, come aveva fatto in cabina.
«Dio, cosa càpita!»
mormora.
I ragazzi lo guardano
allibiti, si chiedono che cosa sarà successo. Il professor Locci
emette un lungo sospiro, poi dice tutto d'un fiato, sforzandosi di
vincere l'afflizione: «La mia domestica, che era sola in casa, è
uscita lasciando aperto un rubinetto in bagno, la casa si è allagata
e l'acqua scende al piano di sotto. Dio mio, adesso devo correre,
come farò?» Si guarda intorno con occhio smarrito, forse cerca il
cameriere per pagare. Uno dei ragazzi, lo tranquillizza:
«Professore, al
cameriere pensiamo noi, corra, corra».
Si alza: «Grazie,
grazie», vorrebbe stringere le mani, ma non sa da che parte
incominciare, anche perché si avvede che la mano destra gli trema.
Fa un cenno di saluto, per tutti. «Ciao, ciao, vado, vado». Esce un
po' barcollando.
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