domenica 17 gennaio 2016

La camera di fondo

Le finestre dell'alloggio si affacciavano sulla piazza verde di alberi e chiassosa delle grida dei bimbi. La prima camera, d'angolo, aveva anche un balcone sulla via che sfociava nella piazza. Dall'altra estremità, invece, la camera di fondo dava in un cortile interno. In casa la chiamavano la camera del nonno. Andreino se lo ricordava bene suo nonno: alto e magro, con i baffi spioventi, la testa calva e lucida. Stava tutto il giorno seduto nella poltrona d'angolo, vicino alla finestra dalla quale pioveva una luce opaca che non riusciva a togliere dalla penombra le sagome scure degli armadi e del letto. Con la coperta sulle ginocchia per tener calde le gambe che non lo reggevano più, stava col busto tutto spostato verso la finestra per non lasciarsi sfuggire nemmeno un raggio della poca luce. I vetri erano quasi sempre chiusi perché suo nonno temeva il freddo, anche d'estate. Erano aperti, qualche ora del giorno, in luglio e in agosto. Allora scendevano dalla stretta tromba formata dai quattro muri del cortile le voci delle donne che parlavano da finestra a finestra e gli odori: uno strano, nauseabondo miscuglio di odore di cucina e di gabinetto.
Andreino, da ragazzo, andava a trovarlo, a volte, suo nonno, ma si stancava subito: la poca luce era opprimente, gli faceva venir voglia di piangere e, se la finestra era aperta, si sentiva un nodo allo stomaco per i miasmi;. Suo nonno lo accarezzava sulla testa, gli chiedeva notizie del resto della casa: cosa faceva suo padre, di là, in sartoria; se c'erano dei clienti; cosa succedeva nel giardino. Ma lui, Andreino, non resisteva a lungo; dava qualche risposta e poi scappava. Tornando nelle altre stanze gli sembrava di rinascere; c'era luce, c'era aria buona. Suo padre era sempre in piedi vicino al tavolo intento a disegnare modelli sulle stoffe o a tagliarle; intorno e nella camera accanto c'erano, sedute e chine sugli abiti in lavorazione, quattro o cinque donne, tra sarte e apprendiste.
Adesso era lui, Andreino, che tagliava, ma intorno aveva meno aiutanti perché i tempi erano cambiati e il pubblico preferiva comperare gli abiti fatti. C'era Linda, sua moglie, che era stata una lavorante di suo padre, e c'erano due ragazzine; nella camera del nonno c'era suo padre. Suo padre era malato di arteriosclerosi; apparentemente stava bene ma talvolta, all'improvviso, usciva con discorsi strani o addirittura con delle minacce a chi gli stava vicino. Per diversi mesi aveva trascorso le sue giornate seduto nel salotto, ma erano accaduti spiacevoli incidenti: più di una volta aveva attaccato discorso con i clienti venuti per la prova e poi, senza motivo, li aveva ingiuriati. Due di questi clienti non erano più tornati, evidentemente offesi. Andreino si era visto costretto a relegare suo padre nella camera di fondo.
Per la casa girava il bambino, Pippo, figlio suo e di Linda. Aveva cinque anni ed era indemoniato. Percorreva le stanze ululando, in sella a una piccola bicicletta con ruotine laterali. Qua e là faceva bruschi arresti, si impossessava di un oggetto e ripartiva. Andreino lo doveva inseguire per togliergli di mano le forbici o la manica di una giacca. Pippo a volte andava a trovare il nonno, in camera sua, ma spesso ne tornava piangendo perché il vecchio improvvisamente lo trattava male o lo impauriva; preferiva andare dall'altro capo della casa, nella camera che aveva il balcone sulla via. Nella buona stagione, su questo balcone, si intratteneva a lungo a parlare con Dirce, una bambina maggiore di un anno che abitava nella stessa casa e giocava sul balcone attiguo. Sotto, per la strada, c'era il via vai del traffico, il tram, le automobili, i pedoni.
La bimba chiacchierava molto: spesso indicava un passante, quasi sempre una donna, e improvvisava su questa persona una storia, inventata naturalmente, ma raccontata con tanta verosimiglianza da far rimanere Pippo incantato e alla fine sembrava che anche lei la credesse vera. Poi l'attenzione del bimbo cadeva, quasi sempre per il passaggio di qualche automobile o motocicletta più rumorose del solito: lui si accodava al volo a quel rombo per continuarlo con un'imitazione prodotta dalle labbra, che riusciva a fare vibrare con violenza mentre il viso gli diventava paonazzo. Il suono via via saliva di intensità fin che lei, stanca e infastidita, non gridava a sua volta per farlo tacere. Guidati sempre da Dirce i due bambini si avventuravano anche in altri discorsi: progetti fantastici per quando sarebbero stati grandi. Erano, quei loro incontri attraverso i rispettivi balconi, i soli che potevano avere perché entrambi raramente scendevano nel giardino della piazza: i genitori di Pippo non avevano mai tempo, presi com'erano dal lavoro, e Dirce aveva soltanto la madre che si guadagnava la vita confezionando abitini per bambole.
Andreino si alzava presto al mattino per portare avanti il lavoro. Era difficile far quadrare il bilancio: le commissioni non affluivano con regolarità. A volte gli sarebbero servite altre due lavoranti, in altri periodi gli erano di troppo anche le due che aveva. E il guadagno non compensava a sufficienza la fatica e i sacrifici. Pensava che sarebbe potuto entrare in uno stabilimento per la confezione in serie degli abiti: essendo sarto provetto probabilmente gli avrebbero affidato mansioni direttive in qualche reparto. Avrebbe potuto guadagnare bene. Ne parlava anche con la moglie e insieme fantasticavano su questo progetto, ma mai si decideva a interessarsi davvero della cosa, trattenuto forse istintivamente dal timore di un insuccesso. Quando, raramente, andava nella camera di suo padre e si sentiva avvolgere da quella penombra cupa e triste o investire dall'ondata nauseante degli odori, si riproponeva con fermezza di tentare di cambiar vita per andare in un'altra casa, per togliere suo padre da quella camera di fondo dov'era costretto a restare relegato. Ma poi, appena era uscito, la fermezza del proposito svaniva, allontanata dalle occupazioni del momento e dall'attenzione che il lavoro richiedeva, così il progetto si faceva vago.
Il bambino continuava a scorrazzare avanti e indietro per l'appartamento, gridava, faceva con le labbra l'imitazione di un motore. «Stai buono» gli diceva ogni tanto il padre, ma senza convinzione. Andreino pensava a questo suo figlio con grandi speranze. Chissà cosa avrebbe fatto nella vita, forse cose importanti, non per nulla parlava sempre di automobili e di moto, come se avesse già la tecnica nell'animo. Pensava che sarebbe forse diventato direttore di qualche fabbrica, avrebbe avuto una villa, una vita facile. Avrebbero cambiato casa, allora, fra venti, venticinque anni. Andreino pensava a se stesso: ora aveva trentotto anni, avrebbe potuto trascorrere una buona vecchiaia, con le comodità e le soddisfazioni che prima la vita gli aveva sempre negato. Pippo veniva, andava con la piccola bicicletta, scansando con abilità gli spigoli dei mobili. Ora tornava dalla camera che dava sulla strada; si fermò davanti al tavolo sul quale suo padre stava tagliando e si rivolse a lui: «Sai, babbo, che cosa faremo io e Dirce quando saremo grandi?» «Che cosa farete?» «Fabbricheremo tanti vestiti per le bambole, qui, in questa casa, perché quella di Dirce è troppo piccola». «E io e la mamma?» chiese con tono apprensivo suo padre. «Voi andrete nella camera di fondo, dove c'è il nonno».
Il bambino stava già nuovamente correndo. Andreino si sentì invadere da un senso di angoscia, capiva che c'era sopra di sé qualcosa di ineluttabile, sentiva che i suoi progetti erano tutti assurdi: il lavoro in una fabbrica di confezioni, il figlio personaggio importante dell'industria, la villa, la vita facile. Gli sembrò di sentire l'odore stomachevole che veniva dal cortile sul quale si affacciavano le finestre della cucina, quelle dei gabinetti e anche la finestra della camera di fondo del suo alloggio. Gli parve di essere di nuovo fanciullo, vicino a suo nonno che stava tutto proteso verso la finestra per godere la poca luce del cortile. Il ricordo delle immagini si mischiava al ricordo degli odori e su tutto pesava un senso di fatalità. Andreino si sforzava di distrarsi, ma non ci riusciva.




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