martedì 29 dicembre 2015

Belgàsem ben Alì

In quei tempi ero soldato e mi trovavo a El A., in Cirenaica, a causa della guerra. Ero sempre solo. Vivevo su un furgone rimorchio sul quale era installata una stazione radiotrasmittente che era mio compito mantenere in funzione. Ero accampato a circa un chilometro dal comando. In quei paraggi c’erano alcune zeribe arabe e molti ragazzi; per far passare il tempo incominciai a parlare qualche volta con gli arabetti. Tra loro c’era anche Belgàsem ben Alì; era il più intelligente di tutti e anche il più simpatico, nonostante la sua bruttezza veramente eccezionale e le sue continue richieste di sigarette.
Un giorno gli proposi di rimanere con me a lavorare. Mi avrebbe tenuto in ordine il furgone, mi sarebbe andato a prendere da mangiare alle cucine del comando e io gli avrei dato cinque sigarette al giorno e parte della mia razione di rancio. Belgàsem accettò: volle immediatamente un anticipo di dieci sigarette e si mise ad abballinare la mia cuccetta. Poi mi andò a prendere il rancio, si trovò un barattolo per metterci la sua parte e mangiò con me.
Passarono così i giorni. Belgàsem veniva al carro di buon mattino e se ne andava solamente quando era buio. Faceva ogni cosa con cura senza che io dovessi ricordargliela. Quando non aveva niente da fare, ci mettevamo a chiacchierare. Parlavamo molto io e Belgàsem, lui specialmente era molto loquace. A volte, nel suo italiano un po’ stentato, mi parlava della sua famiglia. Diceva che suo padre aveva due mogli nella zeriba, una, vecchia, che era sua madre, e l’altra giovane, arrivata da poco.
Oppure mi parlava dei funerali musulmani, dei pianti che la gente andava a fare dietro compenso nella casa del morto, e delle tombe dei santoni, che chiamava marabùt. Quando Belgàsem toccava l’argomento dei marabùt diventava triste e si commuoveva fin quasi al pianto; ciononostante ne parlava spesso. Mi spiegava che le tombe dei santoni si distinguevano dalle altre per una piccola bandiera piantata sul cumulo di sabbia, fatta con uno straccio bianco e uno stecco, e mi raccontava dell’usanza di portarvi dei cibi in determinate ricorrenze. Io ne ridevo: gli dicevo che era una cosa stupida portare da mangiare nei cimiteri, perché i cibi sarebbero stati mangiati dai cani e non dal marabùt.. Ma Belgàsem replicava che nei cani potevano esserci le anime dei santoni.
Spesso voleva che gli parlassi delle città italiane. Teneva sempre tra le mani una vecchia cartolina che gli avevo regalata e che raffigurava un veduta notturna di una piazza di Roma illuminata a giorno. «Parlami delle luci – diceva – parlami delle luci». «Guarda la cartolina – gli rispondevo – lì c’è tutto». Ma lui non si accontentava. Voleva che gli raccontassi tante altre cose sulle luci delle strade e mi stava ad ascoltare abbandonando a se stesso il grosso labbro inferiore, che gli ricadeva penzoloni.
Dopo circa due mesi che Belgàsem era con me, ricevetti l’ordine di partire per l’interno, nell’oasi di G. Quando Belgàsem lo seppe, si accoccolò a terra e si mise a piangere. Poi si alzò risoluto e disse che sarebbe venuto con me. Gli feci osservare che era una cosa impossibile perché lui doveva rimanere nella zeriba assieme ai suoi genitori; ma non volle sentire ragioni. Mi indicò il pavimento del carro e disse che avrebbe dormito lì; poi corse a casa ad avvertire i suoi e tornò poco dopo ansimante e felice con il permesso di partire.
Il carro sobbalzò per quasi tre giorni sulla pista del deserto e finalmente arrivammo a G. Era una piccola oasi con un migliaio di palme, alcune sorgenti d’acqua e un fortino. Il mio carro venne trainato a circa quattro chilometri dal presidio, in pieno deserto. Lì mi accampai, stesi il cavo di collegamento con il fortino, alzai l’antenna e incominciai il servizio.
I giorni passavano monotoni, esasperanti. Faceva un caldo enorme in quel furgone e, a volte, quando s’alzava il ghibli, pareva quasi di non poter respirare. Ogni settimana veniva l’autobotte a rifornirci d’acqua e due volte al giorno Belgàsem andava al fortino a prendere il rancio. Era sempre del solito umore, Belgàsem. Quella vita, più che annoiarlo, lo divertiva. Quando parlava della sua zeriba non dimostrava affatto di sentirne nostalgia. Io gli chiedevo se non gli sembrasse strano stare là in mezzo, ma lui rispondeva sempre di no. Mi ripeteva: «Parlami delle luci» e mentre mi ascoltava teneva in mano la vecchia cartolina. Quando veniva la sera ci mettevamo a fumare seduti contro una ruota del carro e guardavamo in direzione dell’oasi, ma non si vedeva niente perché c’erano davanti alte dune. A notte, prima di addormentarci, continuavamo a parlare fino a tardi. Erano quasi sempre i soliti discorsi che facevamo: Belgàsem, appena poteva, parlava delle bandierine, delle tombe del marabùt e del cibo che veniva portato ai morti. Una sera mi disse che gli sarebbe piaciuto diventare un santone per avere da mangiare anche dopo morto.
Un giorno – erano quasi tre mesi che eravamo a G. – mi telefonarono dal fortino avvertendomi di prepararmi per la partenza perché una grossa colonna inglese stava puntando sul presidio e bisognava ritirarsi. Aggiunsero che quanto prima sarebbero venuti con un autocarro per agganciare il rimorchio e portarlo via. Allora ritirai il cavo telefonico, smontai l’antenna ed aspettai. Venne la notte, poi tornò il giorno senza che nessuno fosse venuto a rimorchiarmi.
Verso mezzogiorno, come al solito, mandai Belgàsem a prendere il rancio. Ritornò molto tardi; aveva i gamellini pieni di una strana e insolita pappa bianca e, nella bisaccia, delle gallette di un formato più piccolo del consueto. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, Belgàsem disse: «Nel fortino ci sono gli inglesi; ho detto che avevo fame e mi hanno dato da mangiare».
Mi misi a sedere di peso e pensai che ormai era finita. Belgàsem mangiando disse che la roba era buona e che sarebbe tornato a prenderne anche il giorno dopo. Io non parlavo; lo guardavo, era sereno e calmo come sempre. Pensavo che mi avrebbero fatto prigioniero, che non l’avrei più visto, che non gli avrei mai più parlato delle luci. Avevo una gran voglia di piangere. L’indomani Balgàsem ritornò al fortino e ancora riportò il rancio. Questo si ripeté per una settimana; io tiravo avanti così, senza decidermi a costituirmi. Poi, un mattino, quando mi alzai, trovai il ragazzo sveglio: al suo fianco, nel carro, c’erano una cassetta di scatolette di carne e una stagna d’acqua. Senza guardarmi in viso, Belgàsem disse: «Questa notte sono andato a rubare questa roba per il viaggio perché ho voglia di ritornare a casa a vedere le bandierine sulle tombe dei marabùt; adesso possiamo andar via».
Io non seppi dir nulla; mi legai alle spalle la stagna e la cassetta e partimmo in direzione nord. Avevamo davanti a noi quasi trecento chilometri di deserto. Camminammo per giorni e giorni. I piedi affondavano nella sabbia e l’acqua diventava bollente sulle spalle. Di notte ci gettavamo sfiniti a terra, mangiavamo un po’ di carne e dormivamo qualche ora; poi, ancor prima che s’alzasse il sole, riprendevamo il cammino. Belgàsem non diceva mai d’essere stanco. Ogni tanto rompeva i lunghi silenzi pregandomi di parlare delle città e delle luci che le illuminavano di notte. Io parlavo, parlavo e guardavo davanti a me, verso il nord. Ormai dovevano restare ancora poche ore di cammino, poi avremmo raggiunto la strada litoranea e saremmo stati salvi.
Ma all’improvviso Belgàsem disse che si sentiva male e si fermò. Io lo guardai in faccia e mi accorsi che sulla pelle aveva delle piccole eruzioni rosse. Gli posai una mano sulla fronte e sentii che scottava. Allora, per la prima volta da quand’ero in guerra, mi prese la paura; una paura violenta che mi faceva tremare le gambe. Cercai di dire a me stesso e a lui che non era niente, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quei punti rossi che Belgàsem aveva sulla faccia. Pensavo: adesso mi muore qui in mezzo e io non posso far niente per salvarlo, non posso far niente. Belgàsem si passò una mano davanti agli occhi e cadde di schianto sulla sabbia. Aveva perduto conoscenza. A tratti era percorso da brividi e batteva i denti. Io gli passavo un fazzoletto bagnato sulle labbra e gli facevo ombra con il mio corpo. Quando fu notte, col fresco, riprese i sensi. Aveva sempre la febbre altissima. Provai ad alzarlo, ma non si reggeva in piedi. Allora abbandonai l’acqua e le scatolette e lo caricai sulle mie spalle.
Continuai il cammino così. Ogni tanto mi fermavo per assestare il suo corpo rilassato e cascante, poi riprendevo a camminare. Sentivo che le mie forze a poco a poco se ne andavano, ma volevo assolutamente arrivare sulla strada.
Ci arrivammo all’alba; ero sfinito. Belgàsem vaneggiava, parlava in arabo e io non capivo che cosa dicesse. Passò un camion dei nostri che andava verso El A. Vi caricai il ragazzo e un’ora dopo eravamo alla sua zeriba. Andai al comando, trovai un medico e lo accompagnai da Belgàsem. Ma non c’era più niente da fare: si trattava di tifo esantematico. Il medico mi costrinse a venir via per evitare il contagio. Belgàsem morì nel pomeriggio.
Quando fu sera mi avvicinai, non visto, alla zeriba. Si udivano i pianti della gente che era andata a piangere dietro compenso. Mi sedetti sotto una palma e pensai alle luci delle nostre città; non ero capace di pensare ad altro.
Il giorno dopo fecero i funerali. Quando la gente lasciò il cimitero andai sulla tomba di Belgàsem e piantai nella sabbia una piccola bandiera fatta con uno stecco e uno straccio bianco. E per tutto il tempo che rimasi presso il comando di El A. portai, di notte, parte del mio rancio sulla sua tomba.
C’erano sempre dei cani nel cimitero e il rancio lo mangiavano loro. Ma nei cani poteva esserci l’anima di Belgàsem ben Alì.


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