sabato 19 dicembre 2015

Derubare se stessi

Aspettammo la notte buona. Una notte di marzo, un sabato. Il sabato era la giornata migliore per l'afflusso alla discoteca: venivano giovani da tutti i paesi della zona, anche da cinquanta chilometri di distanza; il vasto piazzale del parcheggio era gremito già dalle dieci di sera e poi le macchine che ancora sopraggiungevano si accodavano ai lati della strada. Tanta gente dentro e tanti soldi in cassa. Una notte buona anche perché era molto buia e pioveva a dirotto: l'acqua veniva a scrosci e il vento ci faceva da complice confondendo i nostri rumori con i suoi gemiti. Era stata difficile la scelta dell'ora: le quattro e mezzo. Non si poteva andare prima perché la discoteca aveva chiuso alle tre e bisognava dar tempo a Bernardino di addormentarsi; e non si poteva andare più tardi per non essere sorpresi dai primi chiarori dell'alba. Bernardino era il padrone della discoteca: padrone, gestore, dirigeva e stava alla cassa, faceva tutto lui e alla fine i soldi se li portava in casa. Li chiudeva in un cassetto della scrivania dello studio, al primo piano, sul retro della casa, mentre lui dormiva con la moglie, giù, al pianterreno, sul davanti. Era una cosa facile, sarebbe andata sicuramente a gonfie vele.
L'idea l'aveva avuta Cosimo; gli era venuta un giorno che era salito allo studio per farsi pagare un lavoro fatto all'impianto elettrico della discoteca.
«Bernardino tiene i soldi nel cassetto di centro della scrivania» mi aveva detto poi, con occhi lucidi di cupidigia, «divisi in pacchetti legati con elastici: pacchetti da centomila, da cinquantamila, da diecimila. Tanti. Ma come mai non mi è venuto in mente prima: già tante volte sono andato là a farmi pagare e ho sempre visto la medesima scena». La descrizione era efficace: mi pareva di vedere tutti questi pacchetti allineati dentro al cassetto, con i colori diversi.
«Come si fa ad arrivarci?» gli avevo chiesto io deglutendo per l'emozione. Aveva fatto un gesto secco con la mano a significare che era una cosa da niente.
«A casa ho tanti grimaldelli da aprire le porte del paradiso. Non dobbiamo avere paura di una finestra e di un cassetto». E poi aveva spiegato che bisognava scegliere una notte buia, magari di pioggia, e l'ora giusta.
Quella notte dunque venne ed era riempita di frastuoni da un temporale che sembrava studiato apposta per noi. La villa di Bernardino era a cento metri dalla discoteca ed entrambe erano isolate, vicino a una strada di scarso traffico, e circondate dalla campagna. Per arrivarci dovevamo attraversare i campi. E così facemmo. Raggiungemmo la cascina più prossima e lì rubammo una lunga scala che era sotto un porticato. Ce la caricammo in spalla prendendola alle due estremità, lui davanti e io dietro. Era tanto buio che non riuscivo a distinguere Cosimo, sentivo solo il frusciare dei suoi passi sull'erba e capivo quando stava varcando un fosso o risalendo una proda dal movimento che faceva la scala sulla mia spalla. La pioggia veniva a raffiche e, a tratti, me la sentivo andar giù per il collo, dietro la nuca; rabbrividivo, ma pensavo ai soldi di Bernardino, nel cassetto della scrivania, divisi in tanti pacchetti.
A pochi passi dalla villa ci fermammo ad ascoltare. Da una grondaia, probabilmente otturata, l'acqua cadeva a terra con un fracasso disordinato; gli alberi, tutt'attorno, sembravano bestie smaniose e sbuffanti. Posammo la scala e ci accostammo per gli ultimi accordi. Cosimo sarebbe andato su per primo per alzare il chiavistello delle imposte e il catenaccio della finestra a vetri; poi, una volta entrato lui, sarei salito anch'io a fargli luce con la lampada a pila mentre forzava la serratura della scrivania. Mi sentivo i panni fradici sulle spalle, chissà cosa avrebbe detto mia moglie l'indomani mattina scoprendo che i miei abiti erano inzuppati; immaginavo già i suoi commenti: «Hai giocato a carte tutta la notte in mezzo alla strada?» Adesso l'importante era andare avanti e salire nello studio di Bernardino.
Facemmo tutto come avevamo progettato, con calma, cercando di non fare rumore. Le imposte si aprirono in pochi secondi e cigolarono lievemente; la finestra resistette più a lungo ai ferri, infine si aprì anch'essa. Cosimo fece schioccare due dita per segnalarmi che entrava, e infatti sentii la scala alleggerirsi del suo peso. Allora andai su anch'io. Come fui dentro riaccostai con cautela gli scuri e accesi la lampadina tascabile. La scrivania era in un angolo dello studio, volta verso il centro, con la sedia contro il muro. Cosimo sedette e incominciò a lavorare con un grimaldello, la cui punta terminava a becco. Muoveva la mano con una delicatezza che mi pareva impossibile in lui, grande e massiccio; sembrava che stesse operando su qualcosa di vivo e che dai suoi gesti dipendesse la vita o la morte. Io mi figuravo che il cassetto si aprisse e nel cassetto ci fossero i pacchetti dei soldi allineati. Pensavo ai soldi, ma pensavo anche a Bernardino, mi voltavo ogni tanto a fissare il buio dalla parte della porta. Se fosse entrato all'improvviso non avremmo fatto in tempo a guadagnare la scala tutti e due, uno sarebbe rimasto bloccato. Allora tenevo d'occhio oltre alla porta anche la finestra; il cassetto, la porta e la finestra e ancora il cassetto, la porta e la finestra.
«Ma fai luce a modo» sibilò Cosimo correggendomi la posizione della mano per centrare la luce sul buco della serratura. Lavorò ancora per qualche minuto poi, finalmente, si udì uno scatto e il cassetto si aprì. Vedemmo delle carte bianche e gialle, che sembravano fatture, ma subito le scostammo, le buttammo a terra per fare largo e vederci chiaro. E infatti sotto le carte c'erano i soldi, proprio come Cosimo li aveva descritti: pacchetti da centomila, da cinquantamila, da diecimila, da mille. Li vidi solo per un momento tanto fu svelto Cosimo a piantarci le mani sopra e a infilarseli in tasca. Feci appena in tempo ad agguantare un paio di pacchetti da cinquantamila.
«Poi si faranno i conti» disse Cosimo, e intanto continuava a rimuovere carte per vedere se sotto si nascondessero altri pacchetti. «Non c'è più niente» disse, «vieni che andiamo».
«Ancora un momento» dissi e allungavo la mano in fondo al cassetto. Non mi sapevo rassegnare a scendere senza avere in tasca anch'io almeno un paio di pacchetti da centomila come aveva Cosimo. Non che avessi paura di irregolarità nella divisione, ma mi sembrava di essere da meno a non riuscire ad agguantare quanto aveva beccato lui.
Un pacchetto lo sentii, in fondo, a destra, legato con un elastico, come quello dei soldi.
«Non fare il fesso» disse ancora Cosimo, mentre già stava presso la finestra, «vieni, io scappo».
«Vai, vai» dissi, «ti seguo subito». Scavalcò il davanzale e io, adagio, quasi volessi assaporare la scoperta di altri denari, tirai fuori il pacchetto. Non potei fare a meno di dare in una imprecazione: non erano soldi, erano fogli di lettere, piegati in quattro e tenuti insieme dall'elastico. La calligrafia era grande, pesante, mi sembrava di averla già vista. Alzai il braccio e ricacciai giù, nel cassetto, con rabbia, il plico. Ma intanto lessi: "...perché lui va ad Abano, ai fanghi". Era una riga della prima lettera del pacchetto. Anch'io ero stato ad Abano, ai fanghi, nel mese di ottobre. "Chi sarà che è andato ai fanghi come me?" pensai e sfilai il foglio da sotto l'elastico per leggere più oltre: "e così potremo vederci comodamente a casa mia, senza tante paure" continuava lo scritto. "Dovrai solo stare attento che non ti vedano quelli della Ca' Bianca". Ma la Ca' Bianca era attigua a casa mia. "Per Dio" pensai, "cosa dice questa lettera?"; e mi figurai Bernardino che avanzava furtivamente verso casa mia, attento che non lo vedessero quelli della Ca' Bianca.
Mi tremavano le mani. La lampadina mi cadde dentro al cassetto, abbagliò di luce il plico, ingigantì le parole della lettera che stava in cima: "...a venerdì notte. Ti bacio tanto, tua Ilde". Sentii una vampata di calore salirmi al viso e le gambe vacillarmi. Sedetti sulla sedia. Ilde era mia moglie. Si chiamava Clotilde, e nessuno l'aveva mai chiamata Ilde, eppure ero sicuro che era lei, perché lo capivo dalla calligrafia e poi dalle altre cose, i fanghi di Abano e la Ca' Bianca. Sentii venire dai campi un fischio sottile, lungo, delicato. Era Cosimo che mi aspettava. Certo era arrabbiato perché tardavo e rischiavo di farmi sorprendere. Ma non mi importava niente di correre pericolo. Non avevo più paura di Bernardino. Guardavo la porta e mi pareva che se fosse entrato in quel momento l'avrei affrontato a voce alta, mostrandogli il pacchetto delle lettere. Con le mani sempre più tremanti tirai via l'elastico, aprii i fogli, incominciai a scorrerli fugacemente e con orgasmo.
Era proprio la Clotilde quella che scriveva, non ci potevano essere dubbi, era un anno che aveva una relazione con Bernardino. Gli scriveva le lettere quando non si potevano mettere d'accordo a voce, o anche solo per dirgli che gli voleva tanto bene e che senza di lui non sapeva come fare. Non c'erano le buste, quindi non sapevo dove gliele indirizzava, certo non a casa dove avrebbe potuto vederle sua moglie. Comunque, in una maniera o nell'altra gliele faceva avere e gli diceva tutte quelle smancerie che a me erano anni che non diceva più. Mi sentivo le gambe vuote, sempre più vuote. Pensavo a tutto quel tempo che avevo trascorso a fianco di Clotilde mentre lei amava il proprietario della discoteca. Pensavo alla sua perversità e alla mia ingenuità, alla mia pace perduta. Avrei voluto non essere mai venuto a rubare, non avere trovato il plico delle lettere, non avere distrutto con le mie mani la mia fiducia. Non avevo derubato lui, avevo derubato me. Ma ormai era fatta, non c'erano più rimedi. Dovevo per forza portare in me quel tormento.
Mi infilai in tasca il plico delle lettere, spensi la lampadina, mi avviai alla finestra, scavalcai il davanzale e incominciai a scendere. Mi incamminai lentamente per i campi, sotto la pioggia sferzante, senza paura. Non mi importava niente se Cosimo, ormai lontano, aveva in tasca i pacchetti da centomila e ne faceva sparire una parte per derubarmi nella spartizione. Sentivo nella tasca il grosso pacco delle lettere e pensavo a quelle. Era un furto doloroso, ma prima o poi, in un modo o nell'altro, dovevo pur conoscere la realtà, era mia, mi perveniva, dovevo accettarla anche se mi costava tutto quello che avevo dentro al petto: un'angoscia che mi pareva si identificasse con la notte che mi stava intorno e le rabbiose folate del vento, gli schianti della pioggia, l'arruffato lamento degli alberi.

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