Di questa vita Mario Rapuzzi non ne
può più. La notte sempre in questo dormitorio, in mezzo a tanti
altri disgraziati come lui; di giorno a pulire vetri ai semafori, in
giro per la collina a chiedere di fare il giardiniere, e anche nei
negozi a stendere la mano. Spesso, sia di giorno che di notte, a
pensare al suo sogno: una portineria, da custodire: scale da pulire,
alloggio e stipendio assicurati, quello sarebbe vivere. Ma come si
può fare ad uscire da questo gorgo in cui è caduto? Dopo la solita
giornata inconcludente, la minestrina del dormitorio, dove si deve
entrare entro le nove, ora in cui chiude e anche un minuto dopo non
si entra. Poi, al mattino, alzarsi alle sei e mezzo perché alle
sette, dopo la distribuzione del caffelatte, tutti devono uscire.
Pensa e ripensa, gli viene un’idea:
attirare su di sé l’attenzione e impietosire le autorità;
possibile che non dicano: “Vuole andare portinaio in un palazzo?”
L’indomani mette in pratica la sua idea. Sono le nove di sera e la
branda di Rapuzzi è vuota, lui è sul ponte di corso Regina e
passeggia. Farà finta di volersi annegare. Ma bisogna aspettare che
cali il traffico: salterà sul parapetto quando una macchina è in
arrivo e chi guida ha il tempo per fermarsi e saltar giù per
impedirgli di buttarsi. In una strada senza movimento, si siede sul
gradino d’una porta. È l’ora in cui di solito prende sonno e si
addormenta. Alle undici lo sveglia bruscamente pestandogli un piede
uno che deve entrare nel portone. Come orario va proprio bene, così
può fare quello che ha in mente.
Di nuovo sul ponte, il marciapiedi è
deserto, il movimento di auto è diradato. Ecco, ne sta arrivando
una. Rapuzzi prende le misure, quando la macchina gli è vicina salta
sul muretto, ma non succede niente, il conducente non se n’è
accorto. Lui scende, aspetta. Ne arriva un’altra e Rapuzzi ripete
la manovra. Stavolta funziona a meraviglia: stridore di freni, l’uomo
scende, lo agguanta, lo tira giù. Rapuzzi grida che vuole morire,
vuole morire.
Venti minuti dopo è in questura, ci
sono intorno a lui tre funzionari, lo fanno parlare. «Da quando mi
sono rotto un braccio – dice inventandosi un infortunio – riesco
a fare solo lavori leggeri, che non trovo. Mi hanno sfrattato, non ho
casa, sono alla fame. Se potessi fare il custode in una portineria».
I tre si scambiano qualche parola, poi uno va nella stanza accanto,
si sente che parla. Sta dicendo che è un caso pietoso e bisogna
intervenire. Meno male, pensa Rapuzzi, qualcosa succederà. Il
funzionario ritorna, dice: «Stia tranquillo, cerchiamo di fare
qualcosa per lei». Di là squilla il telefono. Il funzionario
corre, parla: «Ma le dico che stava per suicidarsi». Silenzio, per
alcuni minuti. Rapuzzi sta pensando che forse è arrivato il gran momento: il suo sogno si avvera. Ancora due minuti poi il funzionario
ritorna: «Sono riuscito, ma che fatica. A quest’ora, apposta per
lei, aprono il dormitorio. Potrà dormire in un buon letto».
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