domenica 12 aprile 2015

L'attrice nuda

A Saint Vincent ero dovuto andare di corsa una sera di luglio, nella seconda metà dei Sessanta. Al Casinò c’era la cerimonia di consegna delle Grolle d’oro e delle Targhe del cinema. I premiati erano attori e registi e all’ultimo momento il giornale aveva deciso di intervistare una certa diva che chiamo Stella. «Intervistala per telefono» mi aveva detto il redattore capo. Avevo tentato ma inutilmente. «No» era stata la risposta secca, «per telefono niente, venga qui. Mi trova in hotel». Corsa folle con l’autista più veloce e finalmente arrivo in albergo. «Sì, l’aspetta, può salire».

Stella mi apre offrendomi uno smagliante sorriso. È un’attrice molto nota e apprezzata, ma io non ho visto alcuno dei suoi film; tuttavia durante il viaggio mi sono documentato leggendo articoli d’archivio. La trovo bella, anche se già avviata alla maturità. Non riesco a capire come è agghindata. C’è nel suo abbigliamento, d’un bianco candido, una certa eleganza, ma lo si deve considerare abbigliamento? Cos’è, un peplo greco, una galabia araba, un capo di grande firma italiana o un telo di asciugamano indossato in maniera tanto abile da lasciare libere le braccia – di una pelle abbronzata nella corretta misura – e, a sorpresa, un attimo sì e un attimo no, le gambe, anch’esse della giusta tonalità di colore?

Le faccio i complimenti per la bravura come attrice e per la bellezza; ma mi accorgo che s’è messa a parlare anche lei e quando taccio per darle la precedenza capisco che dice frasi insensate, la voce è roca, le parole strascicate: chiarissimo, è ubriaca. Parla e agita le braccia con l’evidente convinzione che quelle gesticolazioni facciano meglio comprendere le difficili descrizioni. Guardo l’orologio e mi siedo su una poltroncina ai piedi del letto, sconsolato. Entro pochi minuti dovrei attaccarmi al telefono per dettare l’intervista, a braccio, non avendo il tempo per scriverla. In un ultimo tentativo provo a porre attenzione alle sue parole ma il senso è proprio indecifrabile. Stella parla di film, cita registi, scene, recita frasi di qualche copione, declama versi con enfasi, alterna sorrisi a risate. Ha una dentatura stupenda che può quasi suscitare il sospetto che non sia vera; comunque è una donna bella, senza dubbio. «Ma Stella», la interrompo con fare confidenziale, come se ci conoscessimo da tempo, toccandole anche un braccio per farla tacere e ascoltare, «Stella, dobbiamo fare l’intervista, io debbo telefonarla, se vuole leggerla domani sul giornale dobbiamo farla adesso». Lei esita, poi esclama: «La mia intervista è qui, scriva, scriva» e intanto alza le braccia e il peplo, o la galabia o l’asciugamano che sia, scivola ai suoi piedi e lei rimane nuda. E in silenzio, come in attesa.

Mi stringo le mani in un gesto di scoramento, di rovina. Il pericolo di mancare il servizio mi angoscia, non ne ho mai mancato uno e questa sciagurata adesso mi nega il materiale per il testo, dovrò crearlo dal nulla. Non c’è proprio un minuto da perdere, bisogna scendere nella hall, cercare un telefono e incominciare, comunque, a dettare. «Buona notte» le grido e agito una mano per rafforzare il saluto, farle capire che me ne vado; ma lei è ancora con le braccia alzate e mi fissa con uno sguardo vuoto.

Mi precipito giù, telefono improvvisando e alla fine lo stenografo mi rassicura: «Di stretta misura, ma ce l’abbiamo fatta». Meno male, anche questa volta è andata.

L’indomani l’intervista a Stella mi frutta i complimenti del direttore.

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