lunedì 31 dicembre 2012

Piccole grandi cose


Era titolare di due aziende, entrambe del settore alimentare, che aveva creato lui. Dopo la prima, la seconda, a distanza di un solo anno, e aveva dato ad ognuna una sua precisa fisionomia. La prima era specializzata nei precotti, la seconda nei cibi raffinati. Questo a partire da cinquanta anni fa, per trent'anni. Era un imprenditore di grande nome, Liponi, Eugenio Liponi, stimato e ammirato per la sua abilità e le sue trovate innovative che davano sempre nuove energie alle sue aziende; e a lui, naturalmente, grandi soddisfazioni.
 Poi, vent'anni fa, il crollo; non delle aziende, ma suo, fisico: la salute annientata da una paralisi che gli ha lasciato soltanto la lucidità mentale. Non aveva alle spalle una famiglia in grado di sostituirlo nella sua attività, né aveva preparato dei dipendenti idonei a reggere quegli impegni. La sola via d'uscita è stata la cessione a una azienda concorrente che è subentrata mantenendo il nome, Liponi. Ma adesso, superati gli ottanta, Liponi è qui, infermo, nella sua camera, in poltrona, con la coperta sulle ginocchia, assistito da tre infermieri che si alternano nelle 24 ore. Sua moglie, che ha dieci anni di meno, dorme in un'altra stanza, ma di giorno passa molto tempo vicino a lui. È una compagna preziosa, non solo per la parte affettiva, ma anche perché provvede lei al disbrigo di tutte le incombenze che concernono l'amministrazione dei beni e lo svolgimento della vita familiare. Appena può la signora Liponi è lì, vicino a lui, a fargli sentire la sua voce.
 Questo è  il mondo di Liponi, con  giornate  apparentemente tutte uguali. Ma  lui  sa, e lo sta scoprendo sempre più, che in questo grigiore di vita c'è un fermento di pensieri, di sentimenti, di umori che possono volgere al bene o al male. Un tempo, quando aveva le aziende in mano ed era operatore di azioni a grande portata, aveva occasione di intense soddisfazioni o anche, malauguratamente, di sgradite amarezze. Adesso trova che uguali piaceri o disappunti possono venirgli da piccoli motivi. I suoi rapporti con gli assistenti, ad esempio,  sono una base di lavoro della sua fantasia e l'intimità di vita con loro gli consente di conoscerli sempre meglio e di apprezzarli nelle diverse misure. Quindi, già il quotidiano contatto con gli operatori dell'assistenza può essere motivo di più o meno piacere. E i pochi rapporti che ancora ha con i vecchi amici possono dargli soddisfazioni profonde. Poi le sue speranze sorgono nel ristretto campo del suo vivere quotidiano e il loro esaudimento diventa già un'occasione di piccola o grande gioia. Piccole cose che vengono a dare gli stessi risultati che un tempo avevano dato le grandi cose. Piccole, ma importantissime, per  dare respiro alle grevi giornate del povero Liponi.

sabato 1 dicembre 2012

Grettezza

 
Madre e figlia Verzuaro hanno vent’anni di differenza ma paiono sorelle, entrambe sulla settantina; presumibilmente la prima ha ottant’anni e la seconda sessanta. Non si capisce mai quale sia la madre e quale la figlia. Vivono da una quarantina d’anni in un grande alloggio al primo piano, di loro proprietà. Hanno altri beni: cinque appartamenti nello stesso elegante palazzo in zona centrale e un podere in un paese della stessa provincia. Fanno vita ritirata. Con le loro rendite potrebbero trascorrere lunghi periodi in riviera o viaggiare. Ma non si muovono mai di casa. Vanno di rado anche al podere, perché è scomodo prendere la corriera, e poi si dovrebbe mangiar fuori e il viaggio sarebbe anche costoso. Fanno venire il contadino affittuario e lo trattengono a lungo per farsi raccontare dettagliatamente che lavori fa, cosa coltiva: vogliono accertarsi bene che la loro proprietà non abbia a deperire.
Se alle Verzuaro capita qualche volta di parlare con un coinquilino lungo le scale, portano il discorso sul costo della vita, che è sempre in aumento. Recentemente hanno sentito dire che alla prossima assemblea condominiale c’è chi vuole proporre l’imbiancatura delle scale. Per carità: si andrebbe incontro a una spesa enorme e le scale non ne hanno affatto bisogno. Quando sentono suonare il campanello, una va ad aprire e l’altra sta ritirata in una stanza. Può essere un inquilino che porta l’affitto e può darsi che chieda il rimborso di una riparazione di un rubinetto o un contributo per qualche altra spesa, e in questo caso bisogna che quella che riceve l’ospite possa riservarsi di parlarne alla congiunta. È la prima mossa per non sborsare denaro. La prossima volta andrà ad aprire l’altra e dirà che è sola in casa e che la congiunta si è dimenticata di accennarle alla pendenza.
La giornata delle Verzuaro incomincia presto, non appena c’è un filo di luce. Fanno le pulizie, con cura, camera per camera, tappeto per tappeto, con tanti piccoli colpetti di mano, leggeri, per non rovinare il tessuti: i tappeti sono delicati. A mezzogiorno si preparano da mangiare, un po’ di minestrina con due dadi, un angolo di gorgonzola, due foglie d’insalata e un crostino di pane. Quando finiscono il gorgonzola danno un colpo di telefono al salumiere, che è all’angolo, e se lo fanno portar su dal garzone. Un colpo solo davvero: si sono accordate che, fatto il numero, lasciano che il telefono del negozio dia un solo squillo, e chiudono. Questo, hanno spiegato al salumiere, per non fargli perdere tempo a parlare; ma in realtà è per risparmiare una telefonata, dato che il loro contratto è a contatore.
Il pomeriggio, dopo aver finito di pulire tutte le stanze, lo trascorrono in cucina a rileggere vecchie collezioni di riviste, tra cui anche la Domenica del Corriere, rilegate più di quarant’anni prima dal loro marito-padre. A sera mangiano un boccone in cucina, poi si trasferiscono in sala e si siedono vicino alla finestra a godersi la luce dell’insegna rossa del negozio di elettrodomestici che è sotto di loro. La luce entra con grande dovizia, accende coi suoi riflessi rossi tutte le cose, anche le loro facce, una piacevolezza; sembra che dia allegria e persino che porti dentro calore. Hanno il televisore, ma non l’accendono. Dicono: «Da fare? Le notizie sono solo brutte: di rincari, inquinamenti, politica corrotta, e il varietà, tutte cretinate. Così si risparmia anche corrente».
Il negozio spegne l’illuminazione alle undici. Allora le Verzuaro incominciano a svestirsi; anche oggi hanno goduto di tanta luce - d’inverno sino a tre ore per sera - senza spendere un soldo. E s’infilano nel letto, felici per il risparmio fatto. Se poi, in giornata, hanno anche evitato di pagare un rubinetto e si sono fatte portare il gorgonzola gratis, sono maggiormente contente. D’altra parte, se non facessero così, guai, con le spese che ci sono al giorno d’oggi.

sabato 3 novembre 2012

Modi d'esser vecchi


Novantadue anni! A giudicare dalla carta d’identità si direbbe che il cav. Raimondo Gallotta è vecchio, ma a vederlo questo termine lo si dimentica. È un uomo alto un metro e ottanta, diritto e magro, la pelle solcata da rughe finissime che non guastano l’armonia del volto, il capo coperto da una lanugine bianca. Basta che parli e che si muova perché chi gli sta vicino non pensi più all’età. Ha una voce vibrante, sicura, il gesto nervoso; l’unico movimento impacciato è quello che fa alzandosi dalla poltrona: deve spingersi su con le mani sui braccioli e lo fa con evidente fatica, poi, una volta in piedi, si sposta con passo franco e svelto.
Dirige la fabbrica di saponi e affini da lui fondata cinquanta anni fa. All’età di 82 anni decise di lasciare ogni attività, di andare in pensione. Convocò il figlio, Martino, che allora aveva 40 anni e i direttori dei reparti produzione e commerciale. La fabbrica allora dava lavoro a 38 dipendenti. Disse all’incirca: «Io mi ritiro, affido tutto a mio figlio. Mi riservo solo un piccolo ufficio per venirmi a sedere qui quando non ho voglia di andare in giro». Fu festeggiato, ebbe ogni possibile onore. Andò a fare un viaggetto all’estero. Al ritorno convocò il figlio e i direttori. Disse: «Sono stato a vedere altre fabbriche, in Francia e in Germania. Noi siamo piuttosto indietro, bisogna che ci svegliamo se vogliamo far fronte alla concorrenza».
Quello stesso giorno dette disposizioni importantissime: ordinò a una fabbrica tedesca due macchinari di alta automazione e il progetto di un nuovo capannone. Per qualche giorno ancora si recò nel suo ufficio ad ora avanzata, poi, nel giro di una settimana, riprese il suo solito orario, le otto meno un quarto, cioè prima che entrassero tutti i lavoratori. Da allora il titolare dell’azienda Gallotta è ufficialmente Martino, il figlio, ma in pratica chi comanda è lui, solo lui, il vecchio cavaliere Raimondo: c’è la sola differenza che il padre occupa un uffiicio che è poco più di uno sgabuzzino, mentre il figlio sta pomposamente seduto alla scrivania della sala più bella. Chi decide è sempre il vecchio, di testa sua, senza chiedere nulla a nessuno.

* * *

L’insegna, fuori, è ancora quella che fece fare suo nonno: di lamiera con la scritta «Mercerie», in grigio su fondo marrone. La vernice qua e là è saltata via e la ruggine ha preso il suo posto, la seconda “r” è quasi tutta scomparsa. Dentro, gli scaffali sono di legno nero, come il banco che offre, sul piano, la vista di molti forellini da tarlo e parecchi graffi. Le scatole di cartone, sugli scaffali, sono consunte; ognuna porta una targhetta scritta con calligrafia manuale in corsivo: «elastici», «bottoni», «filo di Scozia».
Dietro il banco c’è lui, Ottavio. Basso, un po’ pingue, gli occhi grandi, acquosi, i baffi che tendono al bianco. Ha 49 anni. «Ci deve essere un errore all’anagrafe – gli dice qualche volta Argia, sua moglie, con aria tra il serio e lo scherzoso – io direi che di anni ne hai di più». Sua moglie ne ha appena 38 e fa la sarta, in casa. È brava, anche per la tavola: quando lui rientra, la sera, gli fa trovare pronti manicaretti gustosi, sempre variati. Ma Ottavio è difficile, talvolta addirittura non tocca cibo; non sono rare le obiezioni come: «lo spezzatino mi può dare fitte al fegato», «no, stasera non mi vanno gli asparagi, la maionese ho paura che mi faccia male all’intestino», «che bello quell’arrosto di maiale, ma e se poi mi fa venire l’infarto?».
Spesso alla sera la moglie gli propone di andar fuori, al cinema o in visita ad amici. «Stiamo sempre qui isolati come se non conoscessimo nessuno e invece no, io ne ho tanti che vorrei frequentare» dice lei. Lui ne ha sempre una per non accontentarla: «Proprio stasera avevo già pensato d’andar a letto presto, andiamo poi un’altra volta». E l’indomani c’è un nuovo rinvio: per un acciacco improvviso o perché durante il giorno si è venduto poco. Questa degli affari è un’altra lamentela frequente: «tempi magri» oppure: «speriamo che le vendite vadano meglio».
Ormai la moglie non gli pone quasi più domande, ha capito che le cose proprio non cambiano. Anche a un figlio, vecchia aspirazione, non spera più. Tra l’alro, la sera, quello dell’andata a letto è un momento in cui l’atmosfera, fra le quattro pareti della stanza, è carica di un miscuglio di speranze e angosce, timori e rabbie. Ma possibile, pensa lei, che Ottavio non si ricordi mai che esiste anche il sesso? A rammentarglielo è facile sentirsi dire «stasera non ne ho voglia». Se si potesse sapere dove si può trovare questa voglia, Argia gliene raccoglierebbe tanta e gliela porterebbe su un piatto d’argento, anche a costo di comperarlo lei questo piatto, con un suo gruzzolo, risparmio di brava sarta.

lunedì 1 ottobre 2012

Domestiche


Lorenza, 22 anni, pugliese. È con la famiglia Lotti da otto giorni. Marito, moglie e i due figli di 20 e 18 anni ne sono entusiasti, non hanno mai avuto una cameriera così brava.  E Lorenza è al suo primo servizio. Prima, al paese lavorava in una fabbrica di conserva. Il suo fidanzato è venuto al nord e lei l’ha seguito. A volte ai Lotti sembra quasi impossibile che questa giovane non abbia mai servito in una famiglia: è impeccabile, persino come cuoca, e svelta, precisa e gentile. La signora Lotti non si stanca di elogiarla e di parlarne con le amiche. Ha chiesto di uscire alla sera, per stare un po’ col fidanzato. «Sa, dobbiamo sposarci presto, ma non si preoccupi, io continuerò a  lavorare qui, se non fissa, a ore».
Dodicesimo giorno. Il marito è fuori, i figli sono fuori e la signora deve uscire. «Mi raccomando, Lorenza, non aprire a nessuno e prendi nota se qualcuno telefona». «Signora, stia tranquilla, farò tutto per bene». La signora rientra  due ore dopo, va in camera sua  a riporre il denaro, apre una scatola dove aveva lasciato 72 euro e ne trova solo 22, è sparito il biglietto da cinquanta. Il cuore le batte in fretta. Perbacco, non c’è dubbio, la somma era quella e allora non può essere che stata lei a fare il prelievo. L’affronta, ma la ragazza nega, si proclama onestissima. La signora è un po’ titubante, poi la perquisisce e il biglietto da cinquanta è nel reggipetto. «Perdoni, perdoni – si mette a dire Lorenza – il diavolo mi ha tentata. Mi schiaffeggi, signora. È la prima volta, glielo giuro, non succederà più».
Adesso che la ragazza non c’è la signora ha saputo che prima di andare da lei era stata in una dozzina di posti, l’ultimo da un maresciallo dei carabinieri e aveva derubato anche lui. Le aveva affidato la busta dello stipendio perché la consegnasse a sua moglie e Lorenza prontamente aveva sfilato un biglietto da cento.  Erano seguiti i pianti e le invocazioni di perdono perché era «la prima volta» ed era stato il diavolo.

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 Elda, 41, piemontese. È magra, i capelli radi, i denti incisivi sporgenti, il collo grosso per una disfunzione tiroidea. È a  servizio nella stessa casa da tre anni, ogni anno da ottobre a giugno. I mesi di luglio, agosto e settembre va a casa, nell’alta valle Maira ad aiutare la madre a tagliare l’ultimo fieno, a mietere il frumento, a vangare il pezzetto di terra che ha avuto in eredità dal padre. Tutte le volte che torna a prendere servizio in casa della famiglia Salvietti passa la serata a fare esclamazioni di meraviglia sulla bellezza dell’alloggio e della comodità di avere in casa l’acqua corrente e poi la lucidatrice. Occorrono sempre alcuni giorni perché torni a familiarizzare con i suoi strumenti. Quando le spiegano qualcosa di nuovo da cucinare lei ascolta con occhi sbarrati e sguardo fisso per cercare di capire meglio. Non sempre capisce, fa errori grosssolani: ha fritto frittelle con la cera liquida da pavimenti e  ha lucidato il marmo dell’ingresso con olio d’oliva.  Tutti gli anni la signora Salvietti arriva all fine di giugno sbuffando:  dice che non ne può più di tenere in casa una mummia così e si promette di non riprenderla. Fa qualche telefonata alle agenzie  ma non si decide mai a dire sì a una proposta. Pensa che Elda è di una onestà cristallina e  sta sempre facendo qualcosa, non è mai a grattarsi le mani e scrive una cartolina: «Elda vieni, come al solito, ti aspetto».
    
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Poldina, 25 anni, veneta.  Arriva in casa del dott. Episcopo per prendere servizio come cameriera fissa, vestita in pantaloni e maglietta attilatissimi. Alla signora Episcopo non garba dal primo momento, ma alla suocera fa buona impressione. Il fatto è che Poldina, non appena si trova davanti alla madre del dottore, le fa molti complimenti: «Che bella signora, che sguardo dolce, e poi deve essere tanto buona…»  Quasi ogni sera Poldina esce per andare da suo cugino,  immigrato anche lui, oppure con gli amici di suo cugino. La signora Episcopo non sarebbe dell’avviso di concederle tanti permessi, ma la suocera dice di sì: «Poverina, è lontana dai suoi, lasciamo che tenga questi contatti». Da quando va lei a fare la spesa il conto mensile è aumentato. La signora Episcopo cerca di capire perché, e la suocera spiega: «È aumentato il costo della vita, lo dice anche il giornale».
Al pomeriggio Poldina entra in salotto dove  la madre del dottore lavora a maglia e chiede il permesso di sederle di fianco: «Mi sembra di essere vicino a mia madre». La signora sorride: «Vieni figliola». La ragazza incomincia a parlare del suo paese, di vicende belle e meno belle; ma poi gira il discorso, passa all’adulazione: «Dio che bei capelli, signora. E come è buona. Sua nuora  è brusca, invece…» La chiacchierata continua, perché  si mette a parlare anche l’anziana. Se entra la nuora tacciono. Per quattro mesi le cose vanno avanti così; o meglio: si infittiscono i colloqui tra le due, crescono le adulazioni della cameriera e cresce anche il totale della spesa mensile. 
Un giorno la moglie del dottore avvicina la suocera sola e le mostra un foglio: «Ho ricevuto informazioni dal paese di Poldina: dicono che è una poco di buono, è stata persino fermata dalla buoncostume».  «La storia della buoncostume la so – dice la suocera – non è stata lei, ma sua cognata. Poldina, poverina, è vittima di malelingue». La sera stessa il dottore, che si era  sempre tenuto al di fuori di ogni discussione, licenzia la ragazza sui due piedi, senza badare ai suoi pianti e al disaccordo della madre.
Qualche giorno dopo, quando nella casa e nel vicinato si diffonde le notizia del licenziamento, arrivano le prime notizie. Poldina tutte le sere aveva un fidanzato diverso, adescava fattorini e garzoni di negozio, comperava la merce più scadente e metteva in conto i prezzi della migliore. L’anziana signora Episcopo ascolta a occhi bassi e a un certo punto con le lacrime agli occhi dice: «Mi sembra impossibile, era una ragazza così buona, così affettuosa». Dovrebbe aggiungere che le aveva fatto un paio di prestiti, per un importo pari a uno stipendio; ma tace: le era simpatica e poi le voleva anche un po’ di bene.

domenica 16 settembre 2012

I supplenti



I giorni scorrono con lenta monotonia nella casa dei coniugi Lamberti. Sono entrambi sulla cinquantina, sposati da diciotto anni. Goffredo fa l'autista di piazza, Claudia la camiciaia. Non hanno figli e vivono soli in un alloggio di due camere e cucina che dà su una piazza con giardino. Un bel posto. Dovrebbe essere una coppia felice e così è ritenuta dai vicini, perché mai si sono sentiti litigare.

Abitano negli stessi settanta metri quadrati, eppure paiono distanti chilometri l'una dall'altro. Si sposarono dopo un fidanzamento di tre mesi. Erano entrambi soli e pensarono che insieme sarebbero stati bene. Fu un calcolo soprattutto economico: il mio guadagno più il tuo guadagno fanno il benessere e la tranquillità. In effetti economicamente stanno bene, mangiano bene, hanno un appartamento bene arredato, ma niente più. Nei primi tempi si dicevano parole affettuose, si raccontavano qualcosa di loro, delle loro impressioni su vari argomenti, poi, a poco a poco, i discorsi sono diminuiti, le parole si sono rarefatte, sono diventati come semplici conoscenti. Adesso parlano soltanto di cose pratiche, comunicazioni necessarie, riscaldamento, affitto, spesa.

Un giorno Claudia è tornata a casa con una piccola scimmia, una Uistitì argentata che sta quasi nel palmo della mano. Il marito l'ha accolta con indifferenza. La scimmietta si chiama Bigia e sta tutto il giorno addosso alla padrona, in grembo quando lavora, magari coperta dalla stoffa di una camicia, e su una spalla quando fa da mangiare. Di notte sta al fondo del letto sui piedi di lei. Sei mesi dopo l'arrivo di Bigia, Goffredo s'è portato a casa un barboncino, Moretto. Quando è libero dal servizio non fa che accarezzarlo, parlargli, giocare con lui. Tra una corsa e l’altra col taxi, quand'è l'ora, rincasa per portare Moretto a fare pipì. Il cane, a volte, non va d'accordo con Bigia perché lei vorrebbe salirgli sulla schiena e lui non vuole.

Moretto abbaia e ringhia. Per evitare questi scontri Goffredo, in sua assenza, lo tiene chiuso in camera da letto. Marito e moglie non dormono più assieme. Claudia ha messo un’ottomana nella camera da pranzo e dorme là. Per due motivi: perché soffre di insonnia e quando il marito torna dal servizio di notte la disturba, e per la reciproca tranquillità delle due bestiole. Si sdraia nel suo lettino e incomincia parlare a Bigia: le dice parole di tenerezza, una tenerezza che è già nella voce, nel tono, e lei risponde con piccoli versi, con squittii che sono altrettanto dolci. Dopo un po’ Bigia salta sul cuscino, solleva le lenzuola e s’infila sotto. Un gesto questo che per Bigia deve significare grande affetto.

Dopo un po’ il caldo consiglia alla scimmietta di tornar fuori: si va ad accoccolare in fondo ai piedi, chiusa nel giro della lunga coda. Nella camera accanto anche Goffredo parla al suo Moretto, che si stende sulle coperte, aderente al corpo del padrone. Con la zampa raspa fin che lui non gli ha allungato una mano da lambire. Il cane finisce per addormentarsi con la lingua sul palmo del padrone. Sempre così. I vicini dicono: «Proprio brava gente, quei coniugi Lamberti: vanno perfettamente d'accordo, mai che abbiano qualcosa da dire».

martedì 21 agosto 2012

Isolato

Roberto Canta ha 43 anni e fa il tornitore. Lavora una settimana dalle 6 alle 13, la settimana dopo dalle 13 alle 20. Ha un carattere brusco, specialmente quando fa il turno della mattina, perché si deve alzare presto; rincasa di umore cattivo, trova la minestra scondita, salata o troppo cotta. Maria, sua moglie, non dice niente; guarda di sottecchi il figlio, Angelo, che ha sedici anni, e lui le risponde con un’altra occhiata significativa. Sono anni ormai che le cose vanno così. Col passar del tempo tra il marito e la moglie è sorta come una barriera che li tiene distanti. Non si dicono mai una parola tenera, non le ricordano più, né lui né lei.
Eppure non è che Roberto abbia un’altra donna, no, si comporta così unicamente perché questo è il suo animo. Si arrabbia per stupidaggini. Forse tutto dipende dal fatto che ha poca voglia di lavorare e il lavoro quotidiano, fisso, metodico, gli pesa e lo esaspera; senza tuttavia che egli abbia la forza e il coraggio di ribellarsi a questa costrizione e di abbandonare la famiglia per non doverla mantenere e andare a fare magari il barbone. Probabilmente, se vincesse una grossa lotteria e non dovesse più alzarsi presto al mattino per andare davanti al tornio o tornare la sera tardi, sarebbe un uomo cordiale e simpatico.
Tratta male anche il figlio, che invece è pieno di buona volontà e studia giorno e notte. Anzi, studia troppo e l’affaticamento lo esaurisce, il medico gli ha consigliato di prendersi po’ di riposo. «Non posso – dice – devo concludere gli studi». Sente la necessità di rendersi indipendente per sfuggire all’atmosfera paterna. A volte, quando suo padre lo sgrida per motivi stupidi, Angelo si alza di scatto e va in camera sua e si mette a piangere. Questa facilità al pianto è uno dei sintomi dell’esaurimento che lo debilita. La madre, appena può, va a consolarlo. Si abbracciano, stretti, e anche lei piange; Angelo è decisamente di qua dalla barriera che divide i genitori: è con la madre. A volte, in casa, quando loro due sono soli, parlano a lungo, come amici o forse più che amici, come complici. Parlano del futuro, di quando lui sarà medico. La madre si commuove. «Roberto – dice – sei la mia consolazione, guai se non avessi te». In questi discorsi non nominano l’assente e anche nei progetti futuri il Padre-marito è come se non esistesse. Poi lui torna, con il passo pesante, le mani sporche, la voce dura. Madre e figlio si guardano furtivamente. Sono al di qua di una barriera, oltre c’è un altro mondo, c’è l’asperità, la difficoltà, la contrarietà, la vita no.

venerdì 27 luglio 2012

La tavolozza del bagnante


L’«artista» lo si riconosce anche quando sta annaspando nell’acqua tra gli altri venti bagnanti che dividono la prima striscia di mare dove non si tocca. Ha i baffi a spazzola, i capelli grigi, folti e lunghi, i cui ultimi riccioli gli si appoggiano sulle spalle. Sta poco sulla sdraio: è sempre in giro sotto uno dei tanti ombrelloni, a chiacchierare. «Non faccio per dire, ma ho al mio attivo 24 anni di tavolozza e il mio mestiere lo conosco bene». Trancia giudizi su tutti i pittori, dai primitivi in avanti, soffermandosi naturalmente sui contemporanei. «Una cosa abominevole» dice degli informali. «La pittura deve rispecchiare la verità, seppure rivista dall’animo del pittore che l’interpreta. Io, ad esempio…»
Ha portato qui in villeggiatura trenta tele e sul terrazzo della pensione che lo ospita ha improvvisato una specie di personale. «Non l’ho mica fatto per vendere – dice al suo interlocutore, e ormai, nei dieci giorni di permanenza al mare, l’ha già detto a 70 dei 150 bagnanti della sua spiaggia – ma semplicemente per far vedere come dipingo io». Affronta anche, e con molta disinvoltura, l’argomento prezzi: «Sa, io ho già una quotazione internazionale: diciotto punti», Poi fa dei calcoli strani da cui risulta che un suo quadro di medie proporzioni costa circa duecento euro. Si china per avvicinarsi all’orecchio di chi lo sta ad ascoltare: «Qui, però, nessun organismo internazionale mi può costringere a vendere a prezzo pieno. Se un amico, come potrebbe essere lei, ha piacere di avere un mio quadro, glielo cedo per molto meno, che so, la metà, quasi un regalo. Via, in fin dei conti siamo in vacanza,  tra amici, un favore lo si può ben fare». Si gira verso la collina che  è alle sue spalle: «Vede, io sto nella pensione che è in quella casa color nocciola: sul terrazzo ci sono i miei quadri. Se andrà a vederli mi farà un vero piacere. Ci terrei molto sentire il  suo giudizio sulla mia opera».
L’interlocutore promette vagamente, si alza per fare il bagno. Il pittore ne approfitta per andare sotto un altro ombrellone. «Guardate qua che spettacolo la natura, che tavolozza di colori! A proposito di colori, due settimane fa ho dipinto un quadro…»

lunedì 9 luglio 2012

Simpatia verbale


Tra le bagnanti, al primo colpo d’occhio, fa spicco la «rossa»:  alta almeno uno e ottantadue, bruna, pelle olivastra, un tipo. La chiamano «rossa» perché è sempre vestita di questo colore: costume  rosso, casacca di spugna rossa,  cappello di paglia rosso, sandali rossi. Ha quarant’anni e una figlia di dieci: il marito non c’è, viene il sabato sera e riparte il lunedì mattina. La «rossa» sta sempre parlando con qualcuno, non importa se uomo o donna: chiacchiera di tutto, con un linguaggio sempre appropriato, dimostrando buona cultura; ma soprattutto chiacchiera allegramente, senza alcuna ombra di alterigia, di snobismo, di sofisticazione. Certe mogli, sulle prime, si allarmano, vanno a incollarsi ai mariti per essere pronte alla difesa e all’aggressione, ma poi anche loro vengono conquistate dalla simpatia della  «rossa», si rendono conto che non ha alcuna intenzione minacciosa  come conquistatrice nei confronti degli uomini. È facile che ci sia intorno a lei un grappolo di persone, non un solo colloquiante e chi non è interessato a sentirla, se vede ressa, non si avvicina nemmeno perché sa già chi c’è lì.
È una donna che si attacca alla vita con l’esuberanza della parola. Si intuisce che vuole sfruttare pienamente la fioritura di questa  ultima sua floridezza per mettersi in mostra. Talvolta accenna ai suoi vent’anni facendo balenare immagini di splendore. Ma non c’è mai sfoggio, né rimpianto, nei suoi ricordi; c’è sempre una positiva pienezza di vita. Al pomeriggio la  «rossa» invita i suoi interlocutori ad avvicinarsi all’acqua, si siede sul materassino di gomma e allunga le gambe sulla sabbia, in modo che il moto dell’onda gliele lambisca. «Come si sta  bene,  così, al fresco» dice, poi continua a parlare di uno dei tanti argomenti. Le mani, con noncuranza, raccolgono l’acqua e la versano sulle cosce dove l’onda non arriva. Continua così per ore, fino a quando c’è qualcuno che la sta ad ascoltare, fino a quando sua figlia non si decide a reclamare per tornare a casa. «Non mi toglierei  mai da questo fresco» dice.
La  «rossa» in questa spiaggia rappresenta un caso singolare: non offre nessun appiglio alle altre donne per una critica.  Sembra impeccabile in tutto, nel linguaggio, nella scelta degli argomenti, nel comportamento. Anche l’aspetto non dà appiglio: la sua bellezza  non è di grande rilievo e i lineamenti sono regolari, così pure le donne istintivamente più severe, più propense alla gelosia e al sospetto, si sentono disarmate. Questa perfezione,  questa simpatia che circondano «la rossa» finiscono  per far nascere intorno a lei un’ombra  che attenua il suo favore. Ecco un piccolo rilievo, il primo: «Secondo me questi suoi  prolungati bagni alle gambe hanno il preciso scopo di combattere la cellulite».

venerdì 22 giugno 2012

L'intrufolone

Girolamo ha sessantacinque anni. È piccolo, segaligno, fortemente miope. Vive solo in un alloggetto di camera e cucina al terzo piano di una casa senza ascensore che ha cinque piani e quattro apppartamenti per piano. Gente modesta, in genere operai ma anche alcuni impiegati. Si mantiene con una piccola pensione che gli viene corrisposta per la sua passata attività in una fabbrica di dolci. Vedovo da dieci anni, ha sempre cercato di ravvivare la solitudine guardandosi attorno, praticamente partecipando alla vita della casa. Era andato ad abitare lì quando si era sposato, come prima tappa per passare poi in un alloggio più grande appena fosse nato un bimbo. Ma il figlio non è venuto e lui si trova ad essere uno dei più vecchi inquilini. Conosce quindi tutti molto bene e di tanti sa anche cose riservate. Ma è talmente addentro alla vita della comunità da desiderare di accrescere sempre più le sue conoscenze dei vari nuclei. In genere ci riesce perché a questo fine ha plasmato il suo comportamento di inquilino. Non appena sente qualcuno che fa le scale è pronto ad uscire con un pretesto per vedere chi è. Nella sua porta ha un pomello d’ottone che lui ha già lucidato migliaia di volte, appunto per avere vista libera.
Ai proprietari di alloggi che abitano altrove Girolamo offre i propri servigi: per andare alla posta a pagare bollette, riscuotere affitti, fare un acquisto in un negozio. Sono tutte occasioni per tenere i contatti con gli inquilini, e mantenersi aggiornato sulle novità. A taluni offre altri favori: per esempio scende a prendere le posta o il giornale nel casellario e glieli porta su. Tra una commissione e l’altra si ferma a parlare, chiede notizie dell’uno e dell’altro, riferisce ciò che ha sentito dire, aggiunge qualcosa di suo per godersi lo spettacolo delle facce meravigliate. Càpita così che qualche inquilino, causa sua, possa venire in discussione con qualche altro, ma lui è subito pronto ad intervenire per fare correzioni e ristabilire la pace. Quando il condominio deve prendere delle decisioni comuni di una certa importanza Girolamo va a dire le sua di alloggio in alloggio, fa propaganda e comizi come se si dovessero tenere elezioni. In queste fasi di grande attività si sente importante. Guarda chi sale e chi scende con occhietti che si vedono piccolissimi dietro le lenti spesse, ma che si intuiscono gioiosi.
Se qualcuno si oppone alla sua invadenza rifiutando i suoi servizi, lui non se ne offende, aggira l’ostacolo, torna alla carica sotto un’altra forma. Per coloro che si dimostrano decisamente ostili Girolamo usa diversa tattica: aspetta al varco i loro bambini e offre caramelle. I piccoli, ammaestrati dai genitori, le rifiutano, ma lui insiste, gliele scarta, gliele mette in bocca. Fra i casigliani si diffonde la voce che le caramelle di Girolamo sono stregate: c’è chi fa le scale di corsa per non incontrarlo; altri si affidano ciecamente a lui per non averlo come avversario. E Girolamo entra nelle loro case, parla, ascolta, esce, va in un altro alloggio a riferire quello che ha appena sentito, aggiunge qualcosa di suo, pensa che domani qualcuno litigherà e lui dovrà intervenire. Si sente un personaggio importante, ha la casa in pugno ed è felice.

venerdì 1 giugno 2012

Tramonto di un re

Lorenzo Borla, agricoltore, ha 74 anni. È sempre stato un uomo di una tempra eccezionale. Da ragazzo faceva il garzone presso un contadino. Ha imparato a coltivare la terra facendosi venire grossi calli nelle mani, alzandosi prima dell’alba, tornando dai campi quando già era buio. A diciotto anni, quando s’è trovato un gruzzoletto di risparmi in tasca, è andato al mercato delle bestie bovine e ha comperato un vitello, che ha rivenduto la settimana successiva guadagnandoci qualcosa. Da allora ha fatto il mercante di buoi. Aveva occhio: uno sguardo e di quella bestia aveva già capito se prometteva bene o no. A un certo punto s’è trovato con tre grossi poderi; e ancora si alzava presto alla mattina per andare sui mercati. Non ha mai accettato di indulgere alle comodità che gli offriva il denaro. La tavola è sempre stata parca per tutti, e i figli, due maschi, avevano tutto, ma solo l’indispensabile per la loro posizione di studenti, non una briciola di qualcosa che lui considerava superfluo.
È rimasto vedovo. I due figli, uno medico l’altro ingegnere, sono andati per la loro strada e Borla si è ritirato su uno dei tre poderi per condurlo direttamente con l’aiuto di braccianti. A settant’anni ha trovato una vedova di quaranta e se ne è innamorato. «La sposo», ha detto ai figli e loro l’hanno implorato di non farlo. Ma Borla, alto, di spalle larghe, imponente, con il grosso bastone da vaccaro, ha risposto che aveva già deciso e che in vita sua non è mai tornato su una decisione già presa. In effetti in casa era sempre stato un re, e non solo in casa: anche nell’ambiente dei mercati e nel settore economico in generale era visto con grande rispetto e considerazione. «Ti farai mettere i piedi in testa», hanno insistito i figli e lui li ha cacciati di casa. Il giorno dopo è andato da un notaio, ha intestato a ognuno dei due un podere e, dopo aver firmato l’atto, ha detto ai due di non farsi più vedere da lui.
Si è sposato. Il giorno delle nozze ha fatto un grande banchetto al quale hanno partecipato mercanti di bestiame di cinque paesi dei dintorni. Era sempre il Borla di un tempo, tenuto nella più grande considerazione, uno solo da ammirare. A tavola tutti ascoltavano quello che raccontava del suo mondo, e c’era tanto da imparare. La moglie, piccola e tonda, ascoltava incuriosita ma era evidente che di quegli argomenti capiva poco, sorrideva, contenta. Lui era ancora il re; alle sue spalle, posato al muro, era pronto il suo bastone da impugnare come uno scettro.
Sono passati quattro anni. La casa del terzo podere si sta trasformando. Gli operai rifanno i pavimenti delle stanze con legni e marmi pregiati; hanno rifatto l’unico bagno che c’era e ne hanno fatti altri due. La moglie di Borla va e viene, dà ordini, esamina alcuni tipi di tendaggi per scegliere quello della grande sala che si è creata abbattendo due muri. Si dà un gran daffare anche una ragazzina, Ginetta, figlia della sposa. Dice: «Di questa casa vogliamo fare una villa come da questa parti non ce ne sono. Non posso mica dare delle feste in una casa da villanacci come era questa». Borla sta seduto in cucina, guarda e tace: su queste cose non sa cosa dire, non se ne intende. È solo un po’ preoccupato: ha sentito parlare di una cosa che dovrà essere abbattuta. Pensa: abbattuta vuol dire tirata giù? Ma che cosa? Non sarà mica la stalla. Dio mio, ma cosa succede?
Si alza, prende il bastone, fa qualche passo. È sempre dritto di schiena, ma s’è ingrassato, di un grasso un po’ flaccido. Il suo sguardo sembra smorzato dalla tristezza. Un muratore viene a chiedergli: «Le mattonelle azzurre vanno con il bordo in alto?». Borla lo guarda stupito, come se quel linguaggio fosse di un altro mondo. Fa un gesto con la mano per dire che non sa niente. Esce dalla cucina, nel corridoio c’è un via vai di garzoni che portano scatole di mattonelle. Passa anche sua moglie. «E togliti di mezzo – gli dice – non vedi che intralci il passaggio?». Borla va fuori, si va a sedere su una panca di fianco alla stalla. Si sente stanco, non s’è mai sentito così stanco.

lunedì 23 aprile 2012

Filomena

Un inverno degli Anni Cinquanta, in Piemonte. Era un freddo polare, nelle campagne gelavano le viti e nel Po il ghiaccio avanzava dalle rive verso il centro e rendeva esigua la striscia dell'acqua che si vedeva correre. Mi ricordai di Filomena, una barbona della quale avevamo parlato sul giornale alla fine dell'estate perché viveva sotto un ponte circondata da un nugolo di cani. Quando l'avevo incontrata per l'articolo, sotto l'arcata asciutta del torrente all'ombra fresca in una giornata di afa, mi aveva decantato la sua vita, libera, senza diritti ma anche senza doveri. Diceva che era felice dalla mattina alla sera e la notte, sul suo materasso di foglie di granturco, faceva sogni stupendi. Aveva una cinquantina d'anni ma ne dimostrava venti di più. Non sapeva dov'era nata, ricordava di avere avuto una famiglia, ma di averla abbandonata da ragazzina, forse a dieci anni, «per andare a vedere il mondo». Così si era messa in strada ed era andata di casa in casa a chiedere un pezzo di pane. Veniva dal Sud, forse da un paese del napoletano, ma non ne era sicura. Il suo girovagare non aveva come mete delle città o dei paesi, ma dei ponti. Quando ne trovava uno giusto, con un’arcata sicura, con l'acqua abbastanza distante da evitare sorprese, vi si sistemava con le sue cose, che erano un paio di fagotti, un materasso di foglie e due tegami. Di giorno andava in giro a cercare da mangiare. E quando il ponte e i dintorni le erano venuti a noia, ripartiva per cercarne un altro, con case non troppo vicine e cespugli in prossimità per le necessità intime.
Aveva avuto dei compagni, vagabondi come lei, sempre più anziani. Ci litigava perché si ubriacavano e invece lei, mi aveva spiegato, nel bere era brava, si sapeva fermare al momento giusto. L'ultimo compagno era morto da due d'anni; un mattino di febbraio se l’era trovato a fianco, ghiacciato nel sacco in cui era infilato, e da allora non s'era più voluta associare a nessuno. Aveva scoperto i cani. Il primo era stato un fox terrier, sperduto, che aveva un collare con medaglia e nastrino colorato. L'aveva seguita per tutta la giornata e anche la sera, sotto il ponte, e si era accucciato ai suoi piedi per passare la notte. Dopo il fox terrier, che aveva chiamato Primo, intuendo che ne sarebbero venuti altri, aveva avuto in regalo una lupacchiotta incinta. Così la famiglia era cresciuta.
Una scoperta, questa dei cani, che l'aveva entusiasmata. In quel nostro incontro aveva quasi sempre parlato di loro. Di sé sembrava che ricordasse pochissimo, si limitava a ripetere che era contenta della vita, proprio della vita che faceva. La gente era generosa, non le faceva mancare niente, c'era anche chi ogni tanto le portava sporte di pane secco per i cani. Per lei, comunque, quelli che contavano erano loro: Primo, Linda, Gigetto, Rosso, Bislacco e via di seguito. Tutti avevano una storia, un carattere e un comportamento. Bisognava capirli, non farli ingelosire, non impermalirli. Tutti le volevano un gran bene, gareggiavano per dimostrarglielo con le loro leccate come baci, la difendevano dai molestatori, le facevano compagnia nelle sue passeggiate di casa in casa. Lei ai cani parlava e loro capivano. Quando doveva entrare in un'aia, li faceva aspettare sulla strada, per evitare che invadessero il territorio dei cani padroni o che mettessero paura alla gente. Non tutti la seguivano, almeno due restavano sotto il ponte, di guardia al “letto”, ai fagotti e ai tegami. Prima di partire assegnava i compiti: oggi restate a casa voi due, Primo e Gigetto, oppure, Rosso e Linda. E i prescelti a restare, mi spiegava, capivano subito: seduti assistevano alla partenza del gruppo poi si accucciavano. Quel giorno di cani ne aveva otto. Mi avevano accolto abbaiando ma poi lei li aveva zittiti per chiedermi chi ero e che cosa volevo. Mi aveva accettato, fatto scendere dalla riva, ricevuto in "casa" e loro mi avevano accolto scodinzolando, mi ero seduto a terra e i cani si erano pure accucciati, tutt'intorno, e stavano in silenzio come se ascoltassero.
Erano passati sei mesi da quell'incontro, ora il gelo mordeva ogni cosa in maniera terribile, chissà che ne era di Filomena, che fosse ancora sotto quel ponte? Ci andai di pomeriggio, c'era un sole pallido, la temperatura era di otto gradi sotto zero e la notte prima si era avuto addirittura meno 20,3. I cumuli di neve ai lati della strada sembravano cemento. Munito di bastone per non scivolare, sormontai l'argine di neve del bordo strada in direzione della carrareccia che fiancheggiava il fiume. C'era un sentiero di neve battuta e questo sentiero dopo qualche metro scendeva giù per l'argine, verso l'acqua che era una lastra di ghiaccio lucente. Quelle tracce stavano a significare che c'era stato un passaggio recente dalla strada alla base della prima arcata e infatti non appena incominciai ad avventurarmi, con cautela, sulla neve ghiacciata della ripida discesa, si sentì il primo abbaio, acuto, stridente, di un cane piccolo, subito seguito da un abbaiare corale. Poi, ad uno ad uno tutti i cani si presentarono fuori dall'arcata, sul sentiero che costeggiava la riva, abbaiando e guardandomi. Erano i suoi cani.
«Filomena» chiamai, «Filomena, Filomena». I cani si misero a fare un finimondo: il silenzio del fiume veniva invaso da un intreccio di abbai, latrati, gagnolii che già denunciava una varietà di taglie. Certo Filomena non poteva riconoscere la mia voce, forse nemmeno riusciva a sentirmi. E invece improvvisamente tutti i cani tacquero, evidentemente lei li aveva zittiti. Non feci in tempo a pronunciare di nuovo il suo nome che la sentii : «Chi è?».
«Filomena, sono quel giornalista che venne questa estate, ricorda? Posso scendere?». Dal buio dell'arcata arrivò il «sì». Affrontai la discesa lentamente, sotto gli sguardi fissi dei cani, tutti silenziosi. A mano a mano che mi avvicinavo qualcuno dimenava la coda, segno che m'aveva riconosciuto. Li contai, erano otto, come quel giorno, sicuramente gli stessi: due grossi, quattro mezzani e due piccoli. Entrai sotto l'arcata preceduto, circondato e seguito dai cani. Filomena distesa, affondata nel grande materasso di foglie, sotto un mucchio di coperte. Sollevò la testa incappucciata con un passamontagna che arrivava alle sopracciglia, tirò fuori una mano e l'agitò in segno di saluto. Come prime parole non seppi dirle altro che: «Ma come fa a resistere con questo freddo?».
Rise: «Lo dice lei che è freddo. Per me no: ci sono loro che mi scaldano». E aggiunse subito: «Però lei, venendo qui, mi ha disfatto il letto, adesso devono tutti tornare al loro posto. Dài Gigetto, su Bislacco, avanti Primo, su, saltate su». Uno per uno tutti presero il loro posto: tre cani sdraiati sul lato sinistro, tre sul lato destro, simmetricamente, i grossi uno per parte e altrettanto i mezzani; poi i due piccoli stesi proprio sopra il corpo della padrona. «Oh, bene» disse, «così va bene, stiamo caldi tutti, io e voi». Si voltò verso di me: «Come mai è venuto a trovarmi?».
«Passavo da queste parti e mi sono ricordato di lei». Mi guardai intorno, in un raggio di tre metri c'erano tutte le sue cose: alcuni mattoni posati a far nicchia per il focolare, un sacco pieno a metà quasi certamente di pane, due pentole, alcuni sacchetti di plastica gonfi di qualcosa, un fiasco vuoto e uno mezzo di vino rosso, un bicchiere, due piatti e una fila di ciotole.
«Ha mangiato, oggi?».
«Certo che ho mangiato, vuole che non abbia mangiato? Siamo stati a girare tre ore, dalle undici alle due, sono venuti con me solo i due grossi, gli altri li ho fatti restare qui sul letto, al caldo. È andata bene: ho raccolto un po' di soldi e tante cose, oggi ho persino fatta la pasta asciutta, per tutti e nove quanti siamo. Poi, mezz'ora fa, ho deciso di chiudere la mia giornata, di venire a letto. Per oggi basta, sa, non sono giorni da stare tanto in giro».
«I cani la tengono calda ma loro non sono coperti, tremeranno».
«Ma cosa dice, guardi qui, alla mia destra, vede quella coperta? Io stanotte, rimanendo distesa, la tiro su e la lancio sopra a tutti, così anche loro sono a letto davvero, come me».
«Filomena, ma non sarebbe meglio che andasse nel dormitorio pubblico? Quello almeno è riscaldato».
«Fossi matta! Io, andarmi a far comandare? Mai. Qui faccio quello che voglio, domattina dormo fin che mi pare. Non nevica, non piove e ho i miei cani. Le sembra che possa abbandonarli? Sarei una sciagurata. Sapesse come sono preziosi, buoni. Noi ci parliamo: loro capiscono tutto e io comprendo quello che dicono con le loro abbaiate. Creda, è una vita bella. Se uno la sa apprezzare me la invidia».
«Filomena, in macchina ho un paio di panettoni, li vado a prendere. Ma poi i cani tornneranno a guastare il letto, come facciamo?».
«Ci penso io: glielo dico e loro stanno buoni. Fermi, non muovetevi. Vada pure».
Risalii, tornai giù coi panettoni e tutti rimasero fermi e zitti: avevano proprio capito tutto, qualcuno dimenava anche la coda, perché tornavo, o forse per i panettoni.
«Filomena, mi ha fatto piacere rivederla, tanti auguri», e le infilai qualche banconota sotto la coperta.
«Ciao, ciao, torni quando vuole. Tanto, per adesso, non cambio ponte».

martedì 3 aprile 2012

La gioia del recupero



La lunga zimarra grigia lo fa ancora più magro, slanciato. Il volto scarno è dominato dagli occhi verdi che si muovono con una vivacità giovanile. Gli anni non sono più pochi, forse oltre i 70, ma lo slancio che è nell’anima e in ogni gesto del corpo è carico di una forza e di una vitalità che sono ancora ben lontani dall’età avanzata.
Angelo D.B. è un artigiano del legno, restauratore di mobili antichi. Passa i suoi giorni nel cortile di una vecchia casa dove ha la bottega. Il suo laboratorio è sempre pieno di pezzi da riparare, c’è libero soltanto un piccolo spazio intorno al bancone da lavoro. Quando la riparazione e la stagione lo consentono, lavora oltre la soglia della bottega, all’aria aperta. La cultura in fatto di stili se l’è conquistata a poco a poco, facendo dapprima il garzone, da ragazzino, e poi l’aiuto falegname e infine l’artigiano in proprio. Nello scaffale degli attrezzi ha dedicato un ripiano ai volumi dei mobili d’arte. Assieme alla conoscenza teorica ha approfondito, con maestria, quella pratica.
A volte gli portano da riparare mobili antichi in sfacelo, rosi dai tarli e dall’umidità, o privi addirittura di qualche parte integrante. Per lui ogni nuovo arrivo è sempre una festa, non perché pensi al guadagno che potrà venirgli dal restauro, ma per la gioia che esso gli procurerà. Le mani di Angelo, ossute e ruvide, incominciano a palpare il legno, i polpastrelli si soffermano sugli intarsi e sugli intagli, sui rilievi delle cornici: una perlustrazione che sembra dare all’artigiano un voluttuoso piacere; può ricordare anche un medico che palpa il malato. Poi Angelo incomincia a illustrare l’oggetto. Dice epoca, zona di origine, qualità dei legni, dice se il costruttore lavorò bene, benissimo o con trascuratezza. Descrive come devono essere ricostruite le parti andate in malora, e se il cliente non apprende con facilità, corre allo scaffale, ne toglie un libro, lo apre a una certa pagina, si serve di una fotografia per spiegare meglio. Parla con fervore del nuovo lavoro, si sente che già pregusta il piacere di ricreare quello che è andato perduto, di riportare nella giusta luce quello che il tempo ha imbruttito.
Fa tutto da solo, Angelo D.B. «I giovani d’oggi non sono adatti per questo mestiere – dice–. Vogliono l’officina, dove si fanno cose automatiche che lasciano libero il pensiero alla fantasia per pensare alle corse in motocicletta che faranno all’uscita dal lavoro. Qui, invece, la testa bisogna tenerla ai mobili, perché non si può lavorare soltanto di mano». È un artigiano all’antica, una razza che, purtroppo, si va estinguendo. Con la sua competenza in materia potrebbe vivere da signore facendo il commerciante, l’antiquario. A chi gli accenna una simile possibilità, risponde con un gesto secco della mano. «No, no – dice–. Non potrei, per comperare bene, dire che un mobile è brutto quando invece so che è bello e pregiato e non potrei, per vendere a tutti i costi, decantarne uno falso o mal fatto o scarsamente autentico». Gli piace starsene in pace nella sua bottega, mettere mano agli arnesi, modellarsi i pezzi da sostituire, via via sentire sotto le sue mani il mobile rivivere a nuova vita, salvarlo.

mercoledì 7 marzo 2012

Il potere delle farfalle



A Nellina quelli della pensione hanno affibbiato Il soprannome di «bertuccia». Basta questo per dire che non è bella. Per la sua età — diciotto tra due mesi — potrebbe essere più rotonda. Anche quando si mette in pantaloni il suo corpo non dice un gran che; un piccolo, delicato seno viene in aiuto di chi, guardandola, sta per scambiarla per un ragazzo. Nel viso, minuto, spiccano gli occhiali che sono troppo grandi e le labbra che sono troppo grosse e stanno invariabilmente dischiuse.
Nellina studia lingue. Ha degli esami da dare a ottobre, ma non guarda mai un libro. Partendo da Milano per la villeggiatura, sola, ha promesso solennemente a sua madre due cose: che avrebbe studiato e che avrebbe mangiato. Invece non studia e mangia come un passero. Gira per la pensione con aria svagata, sembra sempre che sia alla ricerca di qualcuno o di qualcosa e invece no.
C’è un giovanotto francese sui 25 anni che le gira intono. Lei si ferma spesso a parlare con lui, ma lo fa sempre con la solita aria stralunata; qualche volta, nonostante i suoi studi specifici, si trova in difficoltà a continuare il discorso e allora pianta in asso il francese e va altrove, magari a giocare con delle bambine di dieci anni. Una sera il francese e due ragazze sui vent’anni invitano Nellina a una festa da ballo. Tornano alle quattro del mattino. Nellina s’era dimenticata la luce accesa con la finestra aperta e trova la camera invasa dalle farfalle. Le fanno impressione, è quasi terrorizzata, non può certo mettersi a letto. Va a bussare a una porta credendo che sia la stanza della padrona della pensione per chiedere soccorso. «Signora Marini» chiama ripetutamente. «Non sono la signora Marini — risponde una grossa voce maschile, — lasciami dormire». Il francese nel corridoio parla a Nellina, le offre ospitalità. Lei risponde di no, che «non va bene». Il francese insiste, lei dice ancora no. Lui allora si chiude in camera. La ragazza entra nella stanza di una bimba di dieci anni, la sveglia: «Mi lasci venire a letto con te? da me ci sono le farfalle». La bimba, assonnata , va nella stanza dei genitori a riferire la richiesta di Nellina e loro si arrabbiano. «No, sono tutte storie, dille di no» e la madre si alza e va sulla porta, dice che è un'indecenza, che non si sveglia una bambina per una stupidaggine così.
Altri pensionanti s’affacciano, chiedono cosa è successo, dicono la loro. Nellina, piena di paura, prova a entrare nella sua camera, tremando. È proprio una cosa terrorizzante questo ronzio, un gran girare come se si avventassero su di lei tutte insieme, terribile, terribile e poi le viene in mente una favola della nonna dove c’erano dei mostri camuffati da fiorellini, questi sono mostri veri. No, no, non può dormire qui. Resiste ancora un momento per sentire se tacciono le voci: no, non smettono. Va sulla soglia, le porte sono tutte chiuse, c’è silenzio. Nellina si sente smarrita, è sola e alle spalle ha quel terribile ronzio, fa un passo avanti per allontanarsene, va verso la stanza del francese, bussa con delicatezza e la porta si apre immediatamente. «Ho deciso di accettare la tua ospitalità, — dice con voce flebile -- non posso dormire con le farfalle». Vieni, vieni, qui sarai al sicuro». La fa entrare, l’abbraccia, per darle subito protezione.

venerdì 17 febbraio 2012

Fama e amarezza


Basta dire Martelli e si sa già che è lui, Contardo, il grande prof. Contardo Martelli, clinico di fama già internazionale, con appena cinquant’anni. Il suo eccezionale intuito si manifesta soprattutto nei casi più oscuri. Già la sua prima occhiata al malato e le prime domande gli bastano a portarlo in direzione della giusta diagnosi. È un uomo attivissimo. La sua giornata incomincia sempre presto, spesso anche prima delle sei, con partenze in aereo per consulti in città, italiane o straniere. Viaggia sempre con un assistente che non gli serve per motivi inerenti alla scienza medica, ma per i rapporti prosaici che devono essere intrattenuti con i clienti o i loro parenti. Personalmente non parla mai di denaro, per questo c’è appunto il segretario. Ha già messo insieme una grande fortuna che spazia da una serie di palazzi in due città, che rendono una fortuna, e un castello in una magnifica collina, dove sarebbe piacevole trascorrere lunghi periodi. Ma il professore non ci va mai, sta in una villa con la moglie e i due figli.
La famiglia è un punto dolente per il grande clinico. Non la moglie, che gli vuole bene, è quieta, preferisce la vita appartata, tanto che difficilmente accetta uno degli inviti che talvolta le vengono proposti da circoli della migliore società. Sono i figli, due, di 23 e 25 anni, che offrono spesso pretesto per cronache e pettegolezzi. Sembrano nati apposta per le frivolezze. Nessuno dei due si è laureato e il padre ha dovuto subire questa amarezza. Non c’era verso di farli studiare, non servivano le restrizioni della libertà e le minacce più severe. Il più giovane s’è fermato alla terza liceo dopo avere inutilmente ripetuto l’anno, l’altro ha cambiato tre tipi di scuola per poi arenarsi in un istituto d’arte che a suo dire gli avrebbe fatto fruttare le sue qualità artistiche che gli hanno poi lasciato come testimonianza cinque quadretti di paesaggi appesi alle pareti di un salotto.
I due ragazzi hanno un gran daffare con le feste da ballo, con i viaggi, con i rally automobilistici e con i flirts. Cambiano ragazze e macchine con frequenza, sempre belle le une e sempre costosissime le altre. Il padre ha provato all’inizio a porre un controllo a questi eccessi, ma ha dovuto rassegnarsi e cedere. E allora si è votato totalmente alla sua professione, cercando di non sapere nulla di quello che combinano i ragazzi. Accetta anche le cariche e gli impegni che gli vengono offerti grazie alla sua posizione nell’ambito scientifico. Passa da un convegno a una conferenza, da un consulto in Italia a un altro in Germania. E deve anche tenersi aggiornato sulle pubblicazioni italiane e straniere che parlano delle nuove scoperte. Legge di notte rubando ore al sonno. Non chiede mai alla moglie notizie dei figli, se lei si arrischia a fargli un accenno a qualcosa che è successo, scuote la testa e alza una mano per fermarla. Non vuole sapere nulla nemmeno delle fuoriuscite di denaro, demanda anche questa incombenza alla moglie, che non sa mai dire di no.
Un giorno, mentre scrosciavano gli applausi di un pubblico che aveva ascoltato una sua conferenza, la mente gli è stata attraversata dal pensiero dei figli e li ha sentiti lontani, perduti; e in un lampo ha capito che era per colpa sua, per pagare il suo successo, la sua potenza: fosse uno dei tanti insignificanti medici di base forse avrebbe due ragazzi d’oro. Ora bisognava sorridere, ringraziare il generoso pubblico plaudente.

martedì 31 gennaio 2012

La venere delle follie


Al quinto piano una soffitta divisa da una tramezza di legno e cartone che separa la cucina dalla camera da letto. Quando piove fuori piove anche qui: una goccia sul tavolo, una goccia sul cuscino, una goccia sul fornello a gas. Teresa colloca pentolini nei vari punti per raccogliere l’acqua.
Ha già reclamato col proprietario di casa, ma lui le ha risposto che prima di reclamare deve pagare l’affitto regolarmente. In effetti è in debito di tre mesi. È facile dire «pagare», ma se i soldi non ci sono come si fa?
Teresa si guadagna da vivere dipingendo. Compone dei quadri ad olio – marine e paesaggi montani – che fornisce ad un negozio il quale li smercia a poco prezzo, una ventina di euro, con un filo di cornice. È evidente che a lei tocca una cifra misera. E d’altra parte la sua pittura, sempre i soliti tre o quattro soggetti, fa accapponare la pelle a chi se ne intende.
Anni fa, quando ci vedeva bene, Teresa riusciva a fare anche un quadro al giorno; adesso è quasi cieca, l’hanno operata due volte, senza successo. Vede poco e confuso, ciononostante prova lo stesso a dipingere, ma con risultati a volte disastrosi, il negoziante glieli respinge e li deve rifare.
Quando li accetta lo fa quasi sempre per misericordia. Sì e no riesce a piazzarne tre o quattro al mese. E non può fare altro perché si regge in piedi a fatica, a causa delle vene varicose. Ha passato gli ottanta da un po’. Piange spesso, e a lungo, nella sua solitudine.
Appeso al muro, tra le due finestrelle della soffitta, c’è un quadretto con due fotografie: una donna vestita da gran sera, con abito di pizzo fino ai piedi, e in un succinto costume da ballerina, con lunghe piume sul capo, a corona. Sopra, il titolo: «I trionfi di Resi». Resi era il suo diminutivo, il nome d’arte. Teresa è stata più di sessanta anni fa un’artista del varietà di grande nome. La chiamavano «La Venere delle follie», non perché ci fosse arte nelle sue esibizioni, ma perché sapeva far impazzire le platee per la sensualità che metteva nella voce delle sue canzoni e nelle mosse delle sue danze. Altra clamorosa variante del suo nome d’arte era «l’odalisca azzurra», per una interpretazione fatta con un vaporoso abito di quel colore. Gli impresari teatrali italiani e parigini se la contendevano a cifre sempre maggiori, i corteggiatori facevano pazzie per avere le sue grazie. Una sera, a Parigi, alla fine dello spettacolo, ricevette tre corbeilles di fiori ognuna delle quali era stata inviata da un principe.
Convisse per alcuni anni con un attore, poi altro tempo con un impresario, ma quest’ultimo stava con lei soprattutto per sfruttare la sua ricchezza, che a poco a poco andò estinguendosi, di pari passo con l’avanzare dei problemi nel lavoro e nella salute. La malattia agli occhi fu grave e decisiva per il tracollo. Già il primo intervento chirurgico non portò beneficio. Lei tornò sul palcoscenico, ma già era un’ombra della Venere autentica. I riflettori l'abbagliavano, ad ogni passo rischiava di cadere. Doveva proprio lasciare il teatro, che le aveva dato tanto. Anche l’impresario la lasciò: era venuto il tempo in cui avrebbe dovuto aiutarla e invece si dimostrò uomo malvagio.
Resi tornò Teresa. Si ricordò che prima di fare la ballerina era andata a scuola di pittura e riprese in mano i pennelli. Bene. Era abbastanza brava e incominciò a fare e a vendere, con discreto risultato. Ma la malattia degli occhi era di nuovo minacciosa, i medici ritentarono un nuovo intervento, con nessun risultato. Anzi, la malattia continuava ad avanzare come sempre. Povera Teresa. Si sente vicina alla fine, ma se trova la persona giusta che possa ascoltarla e capirla, si lascia ancora andare ai ricordi, le emozioni delle grandi serate, il fragore degli applausi, la commozione davanti alle grandi corbeilles. Ma non deve perdersi in questi ricordi: tra poco pioverà e bisogna preparare i tegamini per raccogliere le gocce che cadranno dal tetto.


sabato 14 gennaio 2012

Artigiana del pianto

Carmela Verzi è sui 45 anni ma ne dimostra di più. I capelli bianchi che spuntano con due ciuffi laterali sotto il fazzoletto nero, il sottomento gonfio e flaccido, gli occhi bordati di rosso per una congiuntivite cronica la fanno più che cinquantenne. Una di queste sue condizioni, gli occhi rossi, è un attrezzo del suo mestiere, in definitiva una fortuna. Abita nel «casone», una cadente costruzione nella parte più vecchia della città. La sua famiglia assomiglia a molte altre che abitano nello stesso stabile. Suo marito soffre di artrite, almeno così dice, perciò non lavora, passa le sue giornate all’osteria, torna la sera, sempre un po’ brillo, le chiede dei soldi per l’indomani e se lei non glieli dà si arrabbia, incomincia a menar calci alle gambe della tavola.
Mirco, l’unico figlio, di 22 anni, avrà lavorato sì e no due anni, a partire dall’epoca in cui ha finito le elementari. Fa l’idraulico, ma avrà già cambiato dieci padroni. Lavora una settimana, al massimo quindici giorni, poi non ci va più, dice che lo trattano male, che hanno esigenze assurde, impossibili. Il fatto è che i padroni pretendono che lavori e lui, invece, di lavorare non ne ha voglia. Anche se non è occupato, passa il suo tempo fuori di casa, non si sa dove, torna soltanto per mangiare, talvolta passa fuori anche la notte. Mirco ha la motoretta, avuta non si sa come, forse rubata, e ha il problema della benzina, quindi anche lui si rivolge a sua madre e se lei non ha niente da dargli si infuria, bestemmia, dice che così non si può più vivere.
Dunque è lei, Carmela, che deve sopportare tutto il peso della famiglia. Nel «casone» ci sono altre due situazioni analoghe e le donne hanno scelto la soluzione marciapiede. Lei no, non si abbassa a tanto: lei ha la fortuna della congiuntivite che le mantiene gli occhi rossi, è come se avesse pianto fino a quel momento. E allora, eccolo il suo mestiere. Ogni mattina, intorno alle nove, prende un tram o un autobus verso una determinata zona della città, che varia di volta in volta. Scende, si mette a camminare, si ferma, si appoggia a un muro, si copre il viso con una mano e incomincia a singhiozzare. A volte deve continuare parecchi minuti prima che qualcuno si fermi. Finalmente c’è chi le tocca un braccio, «Signora, signora, cosa le succede?». Lei lentamente si gira, abbassa la mano, con l’altra si asciuga, scopre i suoi occhi rossi, incomincia a parlare con voce ancora rotta da un ultimo singhiozzo. «Che sventura! – incomincia a dire con la voce a tratti spezzata da tumulti di pianto. — Mia figlia, che è vedova come me, è stata portata all’ospedale ieri mattina e io devo dar da mangiare ai suoi tre bambini, ma non so come fare e per giunta il padrone di casa ci sfratta. Dio che disgrazia».
La gente si commuove, le batte una mano sulla spalla, le allunga una monetina: perché non è il mutilato che tende il cappello, qui si tratta di un caso grave, ci sono di mezzo tre bambini, bisogna offrire una somma dignitosa. Qualche volta Carmela si vede mettere in mano uno o due euro, un giorno un signore le dato un biglietto da dieci. «Grazie, grazie», singhiozza lei e poi riprende il cammino, gli occhi divorati dal pianto, il dolore incorniciato nella veste nera. All’angolo della strada gira, cammina ancora un po’ poi, improvvisamente, si appoggia al muro, si copre il viso con una mano e scoppia a piangere. «Che sventura!», dice poi, non appena qualcuno le si accosta.
È un lavoro non facile, faticoso, anche perché Carmela vi si dedica, tra il mattino e il pomeriggio, almeno sei ore al giorno. E poi deve tenere ben conto delle zone della città, in modo da non tornare nelle stesse strade, se non dopo sei mesi. Ma Carmela lo fa con passione, ci si sente portata. La pare quasi di essere una attrice. La sua, ormai, è una missione.