Fu a metà dicembre che mi
venne l’idea d’andare a casa, per Natale. Sentivo Pollini, uno
dei nostri precettori, ripetere fino alla noia: «Colpa vostra,
brutti mocciosi, se non potrò trascorrere nemmeno il Natale in
famiglia». Pollini era maestro dell’Istituto del Buon Cuore dove
io ero ospite; insegnava ai più piccoli di giorno e di notte, a
turno con altri maestri, dormiva nella nostra camerata come
sorvegliante. Il turno della settimana di Natale sarebbe toccato a
lui. «Tutto l’anno con voi – andava ripetendo – e non mi
lasciate passare tra i miei nemmeno la festa più bella».
Dentro era buono, ma aveva una
scorza dura, parole aspre e la sensibilità di una grattugia. Lo
dimostravano, se non altro, quei suoi richiami alla famiglia fatti a
noi che famiglia non avevamo. Eravamo orfani, oppure figli di
genitori separati, senza più una casa che ci potesse accogliere. Io
avevo ancora mio padre, al paese. Mi aveva portato lui nell’ospizio
un mese dopo che era morta mia madre, quando avevo sette anni. «Qui
– mi aveva detto – potranno avere cura di te più di quanto possa
fare io da solo». Non l’avevo più rivisto da allora ed
erano passati tre anni.
La direzione dell’istituto
mi aveva trovato un lavoro. La mattina andavo a scuola, in un’aula
dello stesso nostro edificio, e al pomeriggio, dopo che avevo
riportato in camera il mio gamellino, uscivo e andavo da un meccanico
a fare il garzone apprendista. Il sabato sera il padrone mi dava
ventiquattro lire e io, tornato all’ospizio, prima ancora di salire
in camerata, passavo per l’ufficio del direttore e posavo le
ventiquattro lire sul suo tavolo. Facevo così io e facevano così
gli altri che come me uscivano per il lavoro.
L’ospizio era triste:
soffitti alti, a volta, muri scuri di sporcizia, brande di legno che
scricchiolavano, rancio che sapeva sempre di cipolla e a me la
cipolla non piaceva. Tristezza dentro e tristezza fuori. Quando in
camera ci affacciavamo alle finestre per un bisogno istintivo di
guardare oltre quelle nostre povere cose, vedevamo, al di là del
vicolo, proprio di fronte, una fabbrica in abbandono. La sua facciata
era scura, tetra, senza vita: le finestre non avevano imposte ed
erano chiuse da reti metalliche, l’intonaco cadeva a larghi squarci
nelle cui irregolarità noi ragazzi immaginavamo le più strane
figure.
Sicché di sera, all’ora
del silenzio, il maestro Pollini continuava a brontolare pensando al
Natale che il turno di servizio gli avrebbe rovinato. Anche di
giorno, in officina, sentivo parlare del Natale. Il meccanico diceva:
«Mia figlia, per le feste, viene su con il bambino. Farà quindici
ore di viaggio massacrante, ma una volta all’anno lo si può fare».
Pensavo al viaggio che avrei fatto io se fossi andato al mio paese:
un’ora e mezzo di trenino, non di più. Ma io non potevo andare a
casa: per ottenere questo permesso occorreva che alla direzione
dell’ospizio giungesse la richiesta di un nostro familiare o di un
parente.
Mio padre non si rammentava di
me, eppure ero convinto che mi avrebbe rivisto volontieri. Lo
ricordavo con nitidezza quando, verso sera, tornava dal lavoro in
bicicletta e io lo aspettavo in cortile: appena imboccava la
stradella di casa mi faceva un gesto con il braccio alzato e gridava
il mio nome. Adesso che non c’era più la mamma la nostra famiglia
era formata da lui e da me, ma fin che stavamo divisi la famiglia non
poteva esistere. Mi sarebbe proprio piaciuto unirmi con mio padre, a
Natale, raccontargli del mio lavoro, della vita di noi ragazzi
all’ospizio, di quello che mi sembrava di vedere nelle chiazze del
muro della fabbrica in abbandono che era davanti alle nostre
finestre.
A forza di pensarci decisi di
andare, a Natale, da mio padre. Non dissi niente a nessuno. Natale
cadeva di sabato e il mio padrone mi aveva annunciato che mi avrebbe
pagato il venerdì, venti lire, perché mancava un giorno di lavoro.
Sarei partito la sera della vigilia, c’era un treno alle sei e
venti, arrivava in paese poco prima delle otto. E così feci,
infatti. Era una sera fredda, il cielo sereno, a terra uno strato di
ghiaccio. Sotto la mantellina nera della divisa stavo rannicchiato in
un angolo dello scompartimento. La gente – operai, bracccianti,
donne di servizio – parlavano dei regali, di quello che avrebbero
mangiato l’indomani, della messa di mezzanotte.
Dalla stazione a casa c’erano
dieci minuti di strada. Il ghiaccio scriccchiolava sotto le scarpe, a
volte scivolavo, pensavo a quello che avrebbe detto mio padre
vedendomi. La luce della cucina, a pianterreno, era accesa, bussai.
Venne ad aprirmi un giovanotto: «Cosa vuoi ?» mi chiese. «Cerco
mio padre, Antonio, il muratore». «Ma non sta più qui, abita
nella casa rossa, di fianco alla chiesa». Tornai indietro. Mi
dispiaceva che non abitasse più in quella casa: lì ero nato, avrei
voluto rivedere la cucina, la camera da letto, l’angolo vicino alla
finestra dove stava mia madre a cucire.
Arrivai alla casa rossa, il
portone era chiuso, allora mi misi a chiamare: «Babbo, babbo», ma
nessuna finestra si apriva. Chiamai: «Antonio, Antonio» e dopo un
po’ mio padre si affacciò. Il suo viso era buio contro la luce, ma
riconoscevo la voce. «Chi è?» chiese. «Sono io, Luciano».
«Vengo, vengo» e richiuse in fretta. Un minuto dopo il portone si
aprì, mio padre mi abbracciò, mi sospinse su per le scale,
entrammo in cucina. «Come mai, come mai – mi chiedeva – hai
pensato di farmi questa improvvisata? E come stai, ti trovi bene?
Come sei cresciuto!».
Continuava a parlare, senza
aspettare una mia parola di risposta. D’altra parte io non
rispondevo. Fissavo stupito la donna che stava seduta alla tavola
davanti al piatto fumante e che pure mi stava guardando. Era bionda,
giovane, piuttosto grassa. «È mia moglie – disse poi mio padre
dopo un attimo di esitazione. – Adesso siediti a tavola, mangia con
noi, avrai fame». Incominciai a mangiare e intanto mio padre
continuava a parlare, diceva che lavorava in un palazzo di sei piani,
il più alto che fosse mai stato costruito in paese, diceva che non
aveva mai avuto occasione di venire in città, diceva che aveva
proprio desiderio di vedermi.
E intanto la donna mi
guardava, si sforzava di sorridermi. «Stanotte – disse poi mio
padre – tu dormirai lì» e indicò l’ottomana che era dietro la
schiena di sua moglie. «Peccato – riprese a dire – che domani
non si possa stare insieme: abbiamo già combinato d’andare a casa
dai suoi di lei – e accennò con la testa allla donna. – Ma tu
non ti devi preoccupare, puoi stare qui con i Gheduzzi, sono nostri
vicini di casa, hanno dei ragazzi anche loro, potete giocare
insieme».
La donna bionda ora rideva,
sembrava che ridesse contenta perché mio padre aveva finalmente
detto che loro l’indomani dovevano andarsene e io sarei rimasto dai
Gheduzzi. Parlai senza pensare a quello che dicevo, istintivamente,
dissi: «Ma io domattina devo riprendere il treno, non ho detto
niente all’ospizio, certo mi aspettano e mi cercano». «Allora –
disse la donna – lo sveglieremo alle sette». «Come vuoi tu,
Luciano» disse mio padre.
Dopo cena la donna trasformò
l’ottomana in letto. Ci si stava bene. Ma io pensavo ai miei
compagni di camerata che certo si chiedevano dove potevo essere
andato, pensavo al maestro Pollini che imprecava contro di me perché
gli rovinavo ancora di più la sera della vigilia. Avrei voluto
dormire in fretta e poi sentirmi svegliare per prendere il treno.
L’indomani anche all’ospizio sarebbe stato Natale.