giovedì 29 dicembre 2011

La gloria del fornaio


Di notte si alza alle tre, da solo, senza che nessuno lo chiami. Si lava, si veste in silenzio, per non svegliare  i genitori, poi esce per andare a lavorare. Fa il fornaio e rincasa a mezzogiorno, sempre così, da  due anni. Dopo il compimento del diciottesimo anno  il padrone lo ha messo in regola con il contratto e gli ha aumentata la paga. Giacomino dovrebbe essere contento, ma non lo dimostra. È un carattere molto chiuso, taciturno. Al forno lo chiamano «pesce rosso», appunto perché tace sempre e perché ha i capelli di  quel colore. Nel pomeriggio, invece di andare a divertirsi con gli amici fornai che come lui sono liberi dal  lavoro, si chiude in camera e non vuole che entri nessuno. Legge libri, tanti libri. Sua madre a volte rischia le sue proteste ed entra nella camera: «Giacomino, ma perché non vai un po’ fuori, a divertirti?». Giacomino scuote la testa: «No, no – dice con decisione,  – lasciami stare».

Talvolta la madre lo ha trovato a scrivere, ma non è mai riuscita  a vedere che cosa scrivesse perché Giacomino ha subito coperto i fogli e, lui assente, non è mai riuscita a trovarne uno. La sera, naturalmente, va  a letto presto per essere pronto alle tre ad alzarsi. È chiaro che il ragazzo avrebbe avuto attitudine allo studio, ma quando ebbe finita la quinta elementare il padre,  ferroviere con stipendio magro, preferì mandarlo a fare il fornaio visto anche che gli avevano offerto il posto. Adesso che s’è accorto di avere un figlio portato per i libri suo padre, talvolta, gli dice: «Perché non ti iscrivi a un corso per corrispondenza. Potresti riuscire in  qualcosa». Giacomino  fa un gesto  svagato, per dire di no, che è  tutto inutile. Chissà che cosa scrive Giacomino quando è chiuso in camera, sua madre e suo padre vorrebbero proprio saperlo.

 Un giorno Giacomino non rincasa. Il padre è in servizio, la madre telefona al forno. Il fornaio si  stupisce:  «Ma come, non è a casa? Qui non è venuto, credevo fosse ammalato». Il padre viene chiamato d’urgenza. I genitori sono angosciati, dove sarà andato Giacomino? Telefonano alla zia e ai nonni, ma loro non l’hanno visto. Vanno in camera per vedere se trovano un indizio. Sì,  la risposta alla loro domanda  è nel cassetto del comodino da notte: una lettera. «Carissimi genitori, vi chiedo perdono, ma così non posso andare  avanti. Io sono nato per fare il poeta. Parto in bicicletta per Milano in cerca di un editore che mi pubblichi le mie poesie. Ne ho tante, bellissime. Tornerò soltanto quando avrò raggiunto la gloria». Il padre e la madre si guardano smarriti.  Milano dista 200 chilometri e Giacomino avrà in tasca solo qualche euro, come farà? E poi, con la gloria, si mangia con la gloria? Guardano fra i suoi libri, c’è un quaderno pieno di esercitazioni poetiche. Ne leggono una intitolata «Anno vecchio»:  «Così, è svanito l’anno tra le stelle, / che non coprì la neve col suo manto / e un altro è giunto con un lieve canto / di ciaramelle... / E sulla luce della notte scende / un incorporeo velo di tristezza: / fuggito un anno di giovinezza,/ né alcun lo rende».

La mamma si siede sul letto, mormora:  «Dio mio, un figlio poeta» e si mette a piangere, silenziosamente.

venerdì 9 dicembre 2011

Natale in famiglia


Fu a metà dicembre che mi venne l’idea d’andare a casa, per Natale. Sentivo Pollini, uno dei nostri precettori, ripetere fino alla noia: «Colpa vostra, brutti mocciosi, se non potrò trascorrere nemmeno il Natale in famiglia». Pollini era maestro dell’Istituto del Buon Cuore dove io ero ospite; insegnava ai più piccoli di giorno e di notte, a turno con altri maestri, dormiva nella nostra camerata come sorvegliante. Il turno della settimana di Natale sarebbe toccato a lui. «Tutto l’anno con voi – andava ripetendo – e non mi lasciate passare tra i miei nemmeno la festa più bella».
Dentro era buono, ma aveva una scorza dura, parole aspre e la sensibilità di una grattugia. Lo dimostravano, se non altro, quei suoi richiami alla famiglia fatti a noi che famiglia non avevamo. Eravamo orfani, oppure figli di genitori separati, senza più una casa che ci potesse accogliere. Io avevo ancora mio padre, al paese. Mi aveva portato lui nell’ospizio un mese dopo che era morta mia madre, quando avevo sette anni. «Qui – mi aveva detto – potranno avere cura di te più di quanto possa fare io da solo». Non l’avevo più rivisto da allora ed erano passati tre anni.
La direzione dell’istituto mi aveva trovato un lavoro. La mattina andavo a scuola, in un’aula dello stesso nostro edificio, e al pomeriggio, dopo che avevo riportato in camera il mio gamellino, uscivo e andavo da un meccanico a fare il garzone apprendista. Il sabato sera il padrone mi dava ventiquattro lire e io, tornato all’ospizio, prima ancora di salire in camerata, passavo per l’ufficio del direttore e posavo le ventiquattro lire sul suo tavolo. Facevo così io e facevano così gli altri che come me uscivano per il lavoro.
L’ospizio era triste: soffitti alti, a volta, muri scuri di sporcizia, brande di legno che scricchiolavano, rancio che sapeva sempre di cipolla e a me la cipolla non piaceva. Tristezza dentro e tristezza fuori. Quando in camera ci affacciavamo alle finestre per un bisogno istintivo di guardare oltre quelle nostre povere cose, vedevamo, al di là del vicolo, proprio di fronte, una fabbrica in abbandono. La sua facciata era scura, tetra, senza vita: le finestre non avevano imposte ed erano chiuse da reti metalliche, l’intonaco cadeva a larghi squarci nelle cui irregolarità noi ragazzi immaginavamo le più strane figure.
Sicché di sera, all’ora del silenzio, il maestro Pollini continuava a brontolare pensando al Natale che il turno di servizio gli avrebbe rovinato. Anche di giorno, in officina, sentivo parlare del Natale. Il meccanico diceva: «Mia figlia, per le feste, viene su con il bambino. Farà quindici ore di viaggio massacrante, ma una volta all’anno lo si può fare». Pensavo al viaggio che avrei fatto io se fossi andato al mio paese: un’ora e mezzo di trenino, non di più. Ma io non potevo andare a casa: per ottenere questo permesso occorreva che alla direzione dell’ospizio giungesse la richiesta di un nostro familiare o di un parente.
Mio padre non si rammentava di me, eppure ero convinto che mi avrebbe rivisto volontieri. Lo ricordavo con nitidezza quando, verso sera, tornava dal lavoro in bicicletta e io lo aspettavo in cortile: appena imboccava la stradella di casa mi faceva un gesto con il braccio alzato e gridava il mio nome. Adesso che non c’era più la mamma la nostra famiglia era formata da lui e da me, ma fin che stavamo divisi la famiglia non poteva esistere. Mi sarebbe proprio piaciuto unirmi con mio padre, a Natale, raccontargli del mio lavoro, della vita di noi ragazzi all’ospizio, di quello che mi sembrava di vedere nelle chiazze del muro della fabbrica in abbandono che era davanti alle nostre finestre.
A forza di pensarci decisi di andare, a Natale, da mio padre. Non dissi niente a nessuno. Natale cadeva di sabato e il mio padrone mi aveva annunciato che mi avrebbe pagato il venerdì, venti lire, perché mancava un giorno di lavoro. Sarei partito la sera della vigilia, c’era un treno alle sei e venti, arrivava in paese poco prima delle otto. E così feci, infatti. Era una sera fredda, il cielo sereno, a terra uno strato di ghiaccio. Sotto la mantellina nera della divisa stavo rannicchiato in un angolo dello scompartimento. La gente – operai, bracccianti, donne di servizio – parlavano dei regali, di quello che avrebbero mangiato l’indomani, della messa di mezzanotte.
Dalla stazione a casa c’erano dieci minuti di strada. Il ghiaccio scriccchiolava sotto le scarpe, a volte scivolavo, pensavo a quello che avrebbe detto mio padre vedendomi. La luce della cucina, a pianterreno, era accesa, bussai. Venne ad aprirmi un giovanotto: «Cosa vuoi ?» mi chiese. «Cerco mio padre, Antonio, il muratore». «Ma non sta più qui, abita nella casa rossa, di fianco alla chiesa». Tornai indietro. Mi dispiaceva che non abitasse più in quella casa: lì ero nato, avrei voluto rivedere la cucina, la camera da letto, l’angolo vicino alla finestra dove stava mia madre a cucire.
Arrivai alla casa rossa, il portone era chiuso, allora mi misi a chiamare: «Babbo, babbo», ma nessuna finestra si apriva. Chiamai: «Antonio, Antonio» e dopo un po’ mio padre si affacciò. Il suo viso era buio contro la luce, ma riconoscevo la voce. «Chi è?» chiese. «Sono io, Luciano». «Vengo, vengo» e richiuse in fretta. Un minuto dopo il portone si aprì, mio padre mi abbracciò, mi sospinse su per le scale, entrammo in cucina. «Come mai, come mai – mi chiedeva – hai pensato di farmi questa improvvisata? E come stai, ti trovi bene? Come sei cresciuto!».
Continuava a parlare, senza aspettare una mia parola di risposta. D’altra parte io non rispondevo. Fissavo stupito la donna che stava seduta alla tavola davanti al piatto fumante e che pure mi stava guardando. Era bionda, giovane, piuttosto grassa. «È mia moglie – disse poi mio padre dopo un attimo di esitazione. – Adesso siediti a tavola, mangia con noi, avrai fame». Incominciai a mangiare e intanto mio padre continuava a parlare, diceva che lavorava in un palazzo di sei piani, il più alto che fosse mai stato costruito in paese, diceva che non aveva mai avuto occasione di venire in città, diceva che aveva proprio desiderio di vedermi.
E intanto la donna mi guardava, si sforzava di sorridermi. «Stanotte – disse poi mio padre – tu dormirai lì» e indicò l’ottomana che era dietro la schiena di sua moglie. «Peccato – riprese a dire – che domani non si possa stare insieme: abbiamo già combinato d’andare a casa dai suoi di lei – e accennò con la testa allla donna. – Ma tu non ti devi preoccupare, puoi stare qui con i Gheduzzi, sono nostri vicini di casa, hanno dei ragazzi anche loro, potete giocare insieme».
La donna bionda ora rideva, sembrava che ridesse contenta perché mio padre aveva finalmente detto che loro l’indomani dovevano andarsene e io sarei rimasto dai Gheduzzi. Parlai senza pensare a quello che dicevo, istintivamente, dissi: «Ma io domattina devo riprendere il treno, non ho detto niente all’ospizio, certo mi aspettano e mi cercano». «Allora – disse la donna – lo sveglieremo alle sette». «Come vuoi tu, Luciano» disse mio padre.
Dopo cena la donna trasformò l’ottomana in letto. Ci si stava bene. Ma io pensavo ai miei compagni di camerata che certo si chiedevano dove potevo essere andato, pensavo al maestro Pollini che imprecava contro di me perché gli rovinavo ancora di più la sera della vigilia. Avrei voluto dormire in fretta e poi sentirmi svegliare per prendere il treno. L’indomani anche all’ospizio sarebbe stato Natale.

domenica 4 dicembre 2011

Robivecchi in tonaca


Don Roberto non è mai puntuale. A volte la Messa delle sei e mezza incomincia alle sette, anche i Vespri non hanno sempre lo stesso orario.
La chiesa, dedicata a San Rocco, è piccola ma bella, del Settecento. Un tempo era annessa a un istituto di suore che fu distrutto da un bombardamento. La strada è quieta, finisce cinquanta metri più oltre, contro un palazzo patrizio del Seicento.
I fedeli di San Rocco sono per lo più anziane signore e qualche pensionato; non hanno fretta, ma qualche volta criticano il comportamento di Don Roberto.
I suoi ritardi pomeridiani, in genere, coincidono con una particolare circostanza: la sua macchina, una vecchia Panda, è carica di pezzi di antiquariato, chiesastici. Perché questo prete ha, di fatto, anche un altro mestiere: fa l’antiquario; o meglio il raccoglitore di cose antiche, da cedere agli antiquari con negozio. Persone che di solito attendono nel piazzaletto davanti alla chiesa prima del Vespro. E dopo il rito in chiesa c’è l’incontro con i mercanti; praticamente un’altra cerimonia, quella della trattativa sul prezzo.
I pezzi don Roberto li va cercare nelle campagne della provincia contattando i colleghi, che incominciano sempre a dire che non si può vendere, che il vescovo è severo, ma poi finiscono per cedere qualcosa. Così don Roberto arriva alla sua San Rocco sudato, col volto paonazzo, ma contento.
Prima di venire a San Rocco insegnava in seminario e, di sera, in una scuola di un ente assistenziale. Ma non era un bravo professore e più volte il rettore dell’istituto ecclesiastico aveva dovuto richiamarlo a un maggior senso di responsabilità. Di sera, dopo l’insegnamento, tardava molto a rientrare a casa dove la madre, ottantenne, che aveva per lui quasi una venerazione, lo attendeva con ansia, come se fosse uno scolaro. Andava a gironzolare per la città con qualche altro professore e faceva tardi passando da un caffè all’altro. Il vescovo l’aveva invitato nel suo ufficio e gli aveva parlato a lungo, poi, una settimana dopo, don Roberto aveva lasciato entrambi gli insegnamenti ed era passato alle cure della chiesina di San Rocco.
Qualcuno, molto in confidenza con lui, a volte gli chiede come mai ha scelto la carriera del sacerdozio. «Per accontentare mia madre», risponde don Roberto. «Lo sapevo che non ero molto tagliato, ma non potevo farle l’affronto di quel rifiuto, sarebbe morta».

mercoledì 9 novembre 2011

Intervallo festoso nella sventura


Ci vuole proprio una bella faccia tosta ad abbandonarla così, su due piedi, dopo quattro anni di fidanzamento, per poi sposare una che ha conosciuto da due mesi. Un delinquente, ecco che cos'è, uno sciagurato. Se Guido avesse avuto un poco di coscienza avrebbe calcolato che una donna di trent'anni non può, di punto in bianco, scegliersi un altro uomo come possibile marito. Praticamente la sua esistenza è rovinata. Ernesta non ce la fa a rimanere in ufficio, nel solito tran tran: per lei tutto è diverso dal solito; lei è in un mare di guai, con un pensiero fisso ossessionante. Ha bisogno di distrarsi, di cambiare aria, il mondo intorno a sé, come se le diversità potessero rendere diversa, più lieve, anche la sua sventura. Ci vogliono almeno dieci giorni di riposo, di lontananza, per vivere intimamente con se stessa e guardare dentro la sua anima per capire cosa fare, come affrontare il futuro e cercare le forze di recupero. Manda al capoufficio un certificato medico per dieci giorni di malattia. A sua madre dice: «Non ti occupare di me, vado in un posto solitario, in montagna, ti manderò l’indirizzo».
È autunno, una stagione morta, triste. Nell'albergo ci sono due coppie di vecchi, un medico sui quarant'anni e una ragazza malaticcia con la madre. l giorni passano lenti, esasperanti; ne sono trascorsi tre, lunghissimi. Dalle finestre della sala da pranzo si vedono le cime incappucciate di nebbia. Talvolta la nebbia scopre le cime e scende più bassa, anche fin giù, e allora tutto si trasforma in un mare lattiginoso, scompaiono le case e i boschi e tutto diventa ancora più triste. Poi case e boschi ricompaiono. Ogni giorno il gioco della nebbia si ripete, infine viene la sera e scende la malinconia. Un po’ di televisione e poi su, nella camera, a pensare, a piangere. «No, basta, io devo dimenticare, ce ne sono tanti di uomini, possibile che...».
D’improvviso, la quinta sera, si spalanca la porta mentre Ernesta è seduta allo specchio della toeletta. Entra di colpo il medico e si blocca: «Scusi, ho sbagliato porta», ma, invece di indietreggiare immediatamente, resta lì impalato a guardare la ragazza, anche lei immobile e stupita da questo fatto. Ma cerca di sorridere: «Non fa niente - mormora - non fa niente». Il medico lentamente si muove verso di lei, allunga le mani e l'abbraccia. Ernesta dice «Ma che maniera è...». Non fa in tempo a terminare la frase perché la sua bocca è coperta da quella di lui. Un bacio lungo, lunghissimo, al quale lei cerca inizialmente di ribellarsi, ma poi diventa partecipe. Alla fine il medico dice: «Bello, molto bello» e lei si mette a ridere. Lui va a chiudere la porta che era rimasta socchiusa, ritorna indietro e la ribacia. Ernesta si sente la testa confusa. Che strano fatto sta capitando. Però tutto sommato non le dispiace, è un diversivo che rompe la monotonia della montagna, dell’albergo, di queste serate. Quanto tempo è passato, due ore, tre ore? Bisogna che il dottore faccia piano ad uscire perché nessuno senta, ormai è piena notte e c’è un gran silenzio.
E così anche la sera dopo, tutte le sere dopo, ma sono poche, ormai sta scadendo il tempo di riposo che le era stato prescritto col certificato. Bisogna tornare in ufficio, riprendere la solita vita. Però questa solitudine, pensa Ernesta, l’ha rinfrancata, le è stata utile. E poi si può sempre tornare qui in montagna, per qualche week end. C’è un’aria così buona.

domenica 9 ottobre 2011

DUE LADRI D'UNA VOLTA


Flippet e Tugnon, due ladri di una volta. Flippet, Filippo S., aveva un po' meno di quarant'anni, era magro, piccolo, sposato e senza figli. Lavorava a giornata, come bracciante, un po' qui e un po' là, dove capitava. Se decideva di lavorare era impeccabile, ma non sempre era disponibile. A volte, anche se si era impegnato in un podere a lavorare tutta la settimana, un mattino mancava ed era inutile cercarlo a casa.
Non rispondeva. Porta sbarrata, finestre chiuse. Se c'era la moglie, apriva e con faccia sconsolata rispondeva che non era giornata buona, cioè era inutile insistere, forse domani. E questo perché la notte Flippet l'aveva passata a galline. Era un ladro specializzato in pollai.
Si serviva di un sidecar: aveva applicato alla bicicletta, sul lato destro, una specie di bagnarola di legno con una ruota. Qui caricava le galline, morte. A mano a mano che le afferrava, nel pollaio, gli tirava il collo, poi le insaccava e caricava il sacco sul sidecar. Già nella notte scaricava la refurtiva nel negozio del ricettatore. In questo suo lavoro notturno a volte faceva dieci, anche venti chilometri. E allora al mattino era ancora stanco, doveva dormire, non poteva andare nei campi a vangare o a mietere.Da noi, in quel di Nonantola nel modenese, dove i miei avevano un opificio, veniva al tempo della trebbiatura, d'estate. Erano giorni di gran lavoro che si sommava a quello del mulino: l'aia piena di carri carichi di covoni in attesa del turno, la trebbiatrice che ruminava con frastuono, cinque o sei operai, uomini e donne, che lavoravano come fantasmi immersi in una nuvola di polvere.«Non è arrivato Flippet» mi diceva a volte mio padre, «vai a vedere se viene». Ero ragazzo, inforcavo la bicicletta, facevo tre chilometri di corsa poi o non trovavo nessuno, o la moglie mi diceva che dormiva perché aveva lavorato tutta la notte. Un mattino disse: «Non c'è, ieri sera sono venuti i carabinieri e l'hanno portato via».La media delle sue reclusioni era sempre di tre-quattro mesi. Sulle sue imprese ladresche scherzava ridendo. Per lui era normalità, come un secondo lavoro del quale non c'era da vergognarsi: «Rubo solo galline, non sarà la fine del mondo».
Tugnon, Antonio V., fisicamente era l'opposto di Flippet: alto, grasso, sui sessant'anni, con figli e nipoti. Lavorava da noi quasi tutto l'anno, non nel mulino ma per tutte le altre attività: segheria, pila del riso, oleificio. Era uomo serio, onesto, almeno così si riteneva.
In
autunno, al tempo della spremitura delle vinacce e di altri semi per averne olio, era lui che manovrava la pesante trave della pressa che spremeva l'olio dalle vinacce. Alla fine si ottenevano delle formelle rotonde di circa venticinque centimetri di diametro e otto di spessore, molto pesanti, che si sfruttavano come combustibile. Così ridotte, le vinacce bruciavano lentamente scaldando molto e mantenendo viva la brace per ore e ore. Per le stufe che allora si usavano, quelle formelle erano manna: averne tante significava assicurarsi un inverno al caldo.Un pomeriggio mio padre trovò, nascosta in un angolo dell'oleificio, una sporta con dentro due formelle. Era chiaro che erano di partenza; qualcuno le avrebbe prelevate la sera, andandosene. Si appostò all'esterno e a un tratto vide uscire la sporta. Pur nella poca luce, la mole che le reggeva apparve quella ben identificabile di Tugnon.
Lo chiamò e lui si bloccò. «Come mai non hai detto che avevi bisogno di formelle?» «Perdoni, perdoni» incominciò a dire Tugnon con voce tremante, «è la prima volta, lo giuro, lo giuro». E intanto uscì un suo compagno che si fermò incuriosito ad ascoltare. «Non è successo niente» disse mio padre.
L'indomani Tugnon riprese il lavoro regolarmente; teneva lo sguardo basso, non parlava, né mio padre tornò sull'accaduto. Ma tre giorni dopo venne a lavorare anche Flippet e seppe che cosa era successo.
Affrontò Tugnon apertamente, di fronte a tutti. «Sei uno sciagurato» incominciò a dire. «Non si fanno queste cose: rubare dove ti guadagni il mangiare è una cosa disonesta. Alla tua età dovresti saperlo. Mi fai schifo, non ti considero più un amico».
Tugnon era muto, si voltò verso il muro e incominciò a piangere, scuoteva le spalle e si sentiva che mormorava. «No, no, no». Non poteva più sopportare.

Flippet e Tugnon, due ladri di una volta. Visti oggi, brava gente.