Ricordo mio padre

Venerdì 16 Gennaio 2015

Le tue mani, nodose, malferme, non riuscivano più a guidare la penna né a scegliere le lettere sulla tastiera; potevano appena accennare una carezza. Le tue mani, che avevano scritto tanto e anche forgiato tanti oggetti: il portacenere d'argento che fa bella mostra di sé sul tavolo in sala. Il gallo segnavento e l'elica di rame che, appena un po' invecchiati da una patina verde, ancora rispondono ai capricci dell'aria. L'assemblaggio di scarti di officina che, facendo il verso a Calder, accoglie i visitatori all'ingresso.

La tua voce, irriconoscibile, fievole, non riusciva più a trasmettere i tuoi pensieri. La tua voce, che era stata limpida, calma, profonda. Con la quale avevi fatto tante interviste, avevi convinto tante persone a raccontarsi.

Perso completamente l'udito – e nessun apparecchio poteva aiutarti – avevi imparato a leggere le labbra, e supplivi con l'intuito alle parole che non riuscivi a cogliere.

Per un certo periodo, un bastone era stato sufficiente ad aiutarti. Mi dicevi che eri diventato come tuo padre, il nonno Giovanni (l'ho visto poche volte perché vivevamo in città diverse ma lo ricordo, con il suo rustico bastone, sempre sorridente). Dal piano di sopra ti sentivo camminare: un rumore caratteristico. Sapevo che eri andato in sala, a guardare alla finestra, o in cucina per bere. Ma questo rumore ogni giorno, in maniera quasi impercettibile, si faceva più incerto, più irregolare, più infrequente.

Una mattina mi chiamasti perché non riuscivi ad alzarti dal letto. Ti aiutai, riuscii a vestirti e ti misi a sedere in poltrona. Da quel momento hai sempre avuto bisogno di una persona che ti seguisse, in tutte le fasi della giornata. Che trauma dev'essere stato per te che eri stato così attivo: sempre in giro per lavoro, sempre a contatto con la gente, alla ricerca delle notizie; e poi, dopo la pensione, sempre con qualcosa da fare, da costruire, da riparare, scrivere, dipingere.

In questo, non sei stato fortunato. Non è una fortuna raggiungere un'età avanzata come la tua in cattive condizioni. Non hai avuto la fortuna di chi ci arriva bene, del vecchietto che si gode ancora la vita e poi d'improvviso, senza avvisaglie, senza soffrire, forse senza neanche accorgersene, in pochi secondi se ne va.

Solo la mente e la vista non ti hanno abbandonato fino all'ultimo. Ore passate nella tua poltrona vicino alla finestra, e quando si faceva buio accendevi la lampada premendo l'interruttore con il bastone. Sul davanzale, una pila di libri da leggere che si assottigliava con un ritmo impressionante. Le mie frequenti puntate in libreria e alle bancarelle per fare rifornimento: non bisognava lasciare che la pila si svuotasse completamente; quelle rare volte che era capitato, eri andato in crisi. La difficoltà di trovare qualcosa che tu non avessi già letto.

Mi fa male però, mi disturba ricordare questo tuo ultimo periodo, questo tuo morire poco per volta.

* * *

Quando io ero bambino, eri consapevole che la tua professione comportava il rischio di allentare i rapporti con la famiglia e facevi di tutto per evitarlo. Ricordo alcune occasioni speciali in cui qualche tua lunga inchiesta si sovrapponeva ad una vacanza scolastica e mi portavi con te, con mille raccomandazioni.

Il ristorante Garibaldino di Viareggio fu per un certo periodo il ritrovo degli inviati, di tutti i giornali, che lavoravano su un caso clamoroso degli anni sessanta. Tra una portata e l'altra vi scambiavate informazioni e discutevate le vostre teorie, le vostre impressioni. Un clima molto particolare: un misto di amicizia, cameratismo, competizione, ironia; battute, scherzi, barzellette, ma si capiva che avevate tutti le orecchie dritte, attenti alle mezze parole, pronti a cogliere il minimo accenno di novità.

Ero seduto tra te e un tuo collega, dell'Unità mi pare, che mi suggerì di metterti dell'aceto nel bicchiere. Mi lasciai facilmente plagiare: mi sembrò uno scherzo bellissimo. Tu capisti subito che non era farina del mio sacco, ed avesti un battibecco con lui. Il tuo rimprovero nei miei confronti fu modesto, ma quanto mi vergognai! A fine pasto riempii di budino una tasca della giacca del cattivo consigliere. Chi scherza dovrebbe saper stare allo scherzo, ma non apprezzò; e non volle credere che avessi agito di mia iniziativa.

* * *

Avevi avuto l'occasione di incontrarti con le nuove tecnologie fin dal loro primo apparire nella tua professione. La Stampa ti aveva dotato di un Olivetti M10, un computer portatile delle dimensioni, più o meno, di un elenco del telefono e con prestazioni che oggi farebbero sorridere; ma sufficiente per battere un articolo e trasmetterlo via modem, saltando il passaggio lungo, faticoso e facile agli errori della dettatura allo stenografo (già allora, a metà anni ottanta, la tecnologia informatica cominciava a erodere posti di lavoro). Nel modem, grosso poco meno di una scatola da scarpe, bisognava inserire la cornetta del telefono; ma, per la buona riuscita della trasmissione, era prima necessario sostituire la capsula del microfono con una speciale, più sensibile, che ti era stata data in dotazione. Questa operazione non comportava danni per il telefono ma si trattava comunque di svitare, togliere, mettere, riavvitare: un traffico, insomma, che non passava inosservato e non poteva non creare qualche preoccupazione al proprietario del telefono stesso, per cui di solito ti premuravi di avvertirlo preventivamente e di ottenerne il consenso.

Una volta però, mi raccontasti, ti toccò trasmettere da un telefono pubblico, sotto gli occhi dei passanti. Qualcuno notò il tuo armeggiare ed avvertì i Carabinieri che, intervenuti prontamente, ti portarono in caserma per accertamenti, sospetto di vandalismo. Alla fine ti credettero – faceva parte del tuo mestiere saper convincere le persone – ma temo che, quella volta, il tuo articolo sia arrivato in ritardo.

Ti eri poi tenuto aggiornato con l'evoluzione del computer e riuscivi a destreggiarti anche con le versioni recenti dei programmi di videoscrittura. Ti dilettavi di fotografia ed avevi accettato la novità della fotografia digitale (con qualche rimpianto per la vecchia Contarex, a cui eri affezionato). Una volta, dopo avermi spedito per posta elettronica delle immagini che avevi scattato, ti stupisti di averle ancora: «Ma come, non te le avevo mandate?» Io avevo sorriso a questa tua ingenuità, al confondere un file con un oggetto materiale. Eppure, a ripensarci, non era così assurda la tua idea: far sì che una manciata di bit abbia una sua identità unica, che non possa essere in due posti diversi contemporaneamente, è indispensabile in certi casi, come sa chi possiede moneta virtuale.

Infine questo blog, dove hanno trovato posto tanti ritagli, accumulati negli anni, fin quasi agli ultimi momenti. Pubblicati con incostanza: la mia incostanza, perché lasciavi a me questo incarico, e il mio lavoro spesso me ne faceva dimenticare. Sul tuo computer c'è ancora tanto materiale; proseguirò, è un modo per sentirti vicino.

* * *

Ti sento ancora vicino: anzi, in certi momenti arrivo a dimenticare che non ci sei più. Mi capita al mattino, appena sveglio, di pensare che devo venire da te, a vedere come stai. Mi capita, se vedo un libro che tu mi avevi chiesto e non ero riuscito a procurarti, di rallegrarmi perché finalmente l'ho trovato. Mi capita di chiedermi come reagirai ad un certo fatto, ad una certa notizia; persino adesso, per un attimo mi son chiesto se ti piacerà quello che sto scrivendo. Poi, subito, mi rendo conto dell'illusione.

Non sono confortato, come eri tu, dalla convinzione che un giorno ci si sarebbe tutti ritrovati. È la memoria, la memoria di grandi e piccole cose, a darmi qualche sollievo.


Daniele Lugli

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