A
Saint Vincent ero dovuto andare di corsa una sera di luglio, nella seconda metà dei Sessanta. Al Casinò c’era la
cerimonia di consegna delle Grolle d’oro e delle Targhe del cinema. I premiati
erano attori e registi e all’ultimo momento il giornale aveva
deciso di intervistare una certa diva che chiamo Stella. «Intervistala per telefono» mi aveva detto il redattore capo.
Avevo tentato ma inutilmente. «No» era stata la
risposta secca, «per telefono niente, venga qui. Mi trova in
hotel». Corsa folle con l’autista più veloce e finalmente
arrivo in albergo. «Sì, l’aspetta, può salire».
Stella
mi apre offrendomi uno smagliante sorriso. È un’attrice molto
nota e apprezzata, ma io non ho visto alcuno dei suoi film; tuttavia
durante il viaggio mi sono documentato leggendo articoli d’archivio.
La trovo bella, anche se già avviata alla maturità. Non riesco a
capire come è agghindata. C’è nel suo abbigliamento, d’un
bianco candido, una certa eleganza, ma lo si deve considerare
abbigliamento? Cos’è, un peplo greco, una galabia araba, un capo
di grande firma italiana o un telo di asciugamano indossato in
maniera tanto abile da lasciare libere le braccia – di una pelle
abbronzata nella corretta misura – e, a sorpresa, un attimo sì e
un attimo no, le gambe, anch’esse della giusta tonalità di
colore?
Le
faccio i complimenti per la bravura come attrice e per la bellezza;
ma mi accorgo che s’è messa a parlare anche lei e quando taccio
per darle la precedenza capisco che dice frasi insensate, la voce è
roca, le parole strascicate: chiarissimo, è ubriaca. Parla e agita
le braccia con l’evidente convinzione che quelle gesticolazioni
facciano meglio comprendere le difficili descrizioni. Guardo
l’orologio e mi siedo su una poltroncina ai piedi del letto,
sconsolato. Entro pochi minuti dovrei attaccarmi al telefono per
dettare l’intervista, a braccio, non avendo il tempo per
scriverla. In un ultimo tentativo provo a porre attenzione alle sue
parole ma il senso è proprio indecifrabile. Stella parla di film,
cita registi, scene, recita frasi di qualche copione, declama versi
con enfasi, alterna sorrisi a risate. Ha una dentatura stupenda che
può quasi suscitare il sospetto che non sia vera; comunque è una
donna bella, senza dubbio. «Ma Stella», la interrompo
con fare confidenziale, come se ci conoscessimo da tempo, toccandole
anche un braccio per farla tacere e ascoltare, «Stella,
dobbiamo fare l’intervista, io debbo telefonarla, se vuole
leggerla domani sul giornale dobbiamo farla adesso». Lei
esita, poi esclama: «La mia intervista è qui, scriva,
scriva» e intanto alza le braccia e il peplo, o la galabia o
l’asciugamano che sia, scivola ai suoi piedi e lei rimane nuda. E
in silenzio, come in attesa.
Mi
stringo le mani in un gesto di scoramento, di rovina. Il pericolo di
mancare il servizio mi angoscia, non ne ho mai mancato uno e questa
sciagurata adesso mi nega il materiale per il testo, dovrò crearlo
dal nulla. Non c’è proprio un minuto da perdere, bisogna scendere
nella hall, cercare un telefono e incominciare, comunque, a dettare. «Buona notte» le grido e agito una mano per
rafforzare il saluto, farle capire che me ne vado; ma lei è ancora
con le braccia alzate e mi fissa con uno sguardo vuoto.
Mi
precipito giù, telefono improvvisando e alla fine lo stenografo mi
rassicura: «Di stretta misura, ma ce l’abbiamo fatta».
Meno male, anche questa volta è andata.
L’indomani
l’intervista a Stella mi frutta i complimenti del direttore.