domenica 26 aprile 2015

Facezie di Enzo Ferrari

Nel settembre 1975 vado a Maranello per intervistare Enzo Ferrari. Esaurito il lavoro passiamo alle chiacchiere: io mancavo da Modena da vent’anni. C’erano diversi punti di interesse comune sui quali era piacevole intrattenersi. Ferrari univa alla sua facondia una memoria di ferro. Raccontava aneddoti di amici e conoscenti, viventi e scomparsi, sempre con un pizzico di pepe.

XXX, giornalista, la cui madre, modenese, era stata l’amante di un corridore della scuderia Ferrari, quando era direttore di un giornale nazionale, una sera invitò un gruppo di amici a cena in un ristorante, ma non si presentò all’ora stabilita. Telefonò che incominciassero, poi arrivò alla frutta. «Grazie d’essere venuti, io non mangio. Vi ho invitati per annunciarvi che mia moglie è una puttana, il suo amante è Tizio; sono stato adesso dall’avvocato per avviare la pratica di separazione».

Suo figlio YYY, altro giornalista, anche lui sfortunato in fatto di donne. Adorava la moglie che gli morì ancora giovane. «YYY era un mio caro amico, qualche mese dopo la disgrazia venne qui e si mise a piangere. Cosa ti è successo? “Mia moglie è morta due volte: ho curiosato nei suoi cassetti e ho trovato un diario. L’ho letto e ho scoperto che mio cugino è stato per anni il suo amante”».

domenica 19 aprile 2015

L'uomo dei cordoni

Lo ricordo alto, con indosso una giacca marrone dai bottoni tirati, un berretto a visiera di sbieco, il braccio sinistro di traverso sul petto, carico di cordoni. Cordoni da scarpe marroni, neri, di cotone, canapa, seta: un assortimento e un quantitativo degni d’un ambulante con bancarella. Passava la sua giornata sotto i portici della via Emilia, a Modena, sempre vicino alla Ghirlandina. Era il dopoguerra, tra il '46 e il '50. Lui sembrava un portiere pronto a parare un pallone: puntava il passante solitario che si avvicinava alla sua area, ne studiava l’esatta direzione correggendo la propria posizione con passetti laterali o saltelli e infine parava. Il passante era bloccato ed era costretto a sentire la sua litania che cominciava con l’affermazione dialettale «Boun i me curdoun» e poi, in italiano, l’invito all’acquisto, perché «ho la moglie malata e mi mancano dieci lire per comperare la scatola delle punture. Per carità, me li comperi i miei cordoni».

Passavano i mesi e gli anni, cresceva l’inflazione e a lui mancavano sempre le dieci, poi le venti, le trenta, le cinquanta lire. Quando me ne sono andato da Modena mi pare fosse quasi a duecento. Quella povera moglie non guariva mai. Eppure qualche scatola di iniezioni doveva essere riuscito a comperarla; io, che in quel tratto di strada passavo anche quattro volte al giorno, con i suoi cordoni avevo intrecciato una corda per il bucato lunga quanto era largo il cortile.

domenica 12 aprile 2015

L'attrice nuda

A Saint Vincent ero dovuto andare di corsa una sera di luglio, nella seconda metà dei Sessanta. Al Casinò c’era la cerimonia di consegna delle Grolle d’oro e delle Targhe del cinema. I premiati erano attori e registi e all’ultimo momento il giornale aveva deciso di intervistare una certa diva che chiamo Stella. «Intervistala per telefono» mi aveva detto il redattore capo. Avevo tentato ma inutilmente. «No» era stata la risposta secca, «per telefono niente, venga qui. Mi trova in hotel». Corsa folle con l’autista più veloce e finalmente arrivo in albergo. «Sì, l’aspetta, può salire».

Stella mi apre offrendomi uno smagliante sorriso. È un’attrice molto nota e apprezzata, ma io non ho visto alcuno dei suoi film; tuttavia durante il viaggio mi sono documentato leggendo articoli d’archivio. La trovo bella, anche se già avviata alla maturità. Non riesco a capire come è agghindata. C’è nel suo abbigliamento, d’un bianco candido, una certa eleganza, ma lo si deve considerare abbigliamento? Cos’è, un peplo greco, una galabia araba, un capo di grande firma italiana o un telo di asciugamano indossato in maniera tanto abile da lasciare libere le braccia – di una pelle abbronzata nella corretta misura – e, a sorpresa, un attimo sì e un attimo no, le gambe, anch’esse della giusta tonalità di colore?

Le faccio i complimenti per la bravura come attrice e per la bellezza; ma mi accorgo che s’è messa a parlare anche lei e quando taccio per darle la precedenza capisco che dice frasi insensate, la voce è roca, le parole strascicate: chiarissimo, è ubriaca. Parla e agita le braccia con l’evidente convinzione che quelle gesticolazioni facciano meglio comprendere le difficili descrizioni. Guardo l’orologio e mi siedo su una poltroncina ai piedi del letto, sconsolato. Entro pochi minuti dovrei attaccarmi al telefono per dettare l’intervista, a braccio, non avendo il tempo per scriverla. In un ultimo tentativo provo a porre attenzione alle sue parole ma il senso è proprio indecifrabile. Stella parla di film, cita registi, scene, recita frasi di qualche copione, declama versi con enfasi, alterna sorrisi a risate. Ha una dentatura stupenda che può quasi suscitare il sospetto che non sia vera; comunque è una donna bella, senza dubbio. «Ma Stella», la interrompo con fare confidenziale, come se ci conoscessimo da tempo, toccandole anche un braccio per farla tacere e ascoltare, «Stella, dobbiamo fare l’intervista, io debbo telefonarla, se vuole leggerla domani sul giornale dobbiamo farla adesso». Lei esita, poi esclama: «La mia intervista è qui, scriva, scriva» e intanto alza le braccia e il peplo, o la galabia o l’asciugamano che sia, scivola ai suoi piedi e lei rimane nuda. E in silenzio, come in attesa.

Mi stringo le mani in un gesto di scoramento, di rovina. Il pericolo di mancare il servizio mi angoscia, non ne ho mai mancato uno e questa sciagurata adesso mi nega il materiale per il testo, dovrò crearlo dal nulla. Non c’è proprio un minuto da perdere, bisogna scendere nella hall, cercare un telefono e incominciare, comunque, a dettare. «Buona notte» le grido e agito una mano per rafforzare il saluto, farle capire che me ne vado; ma lei è ancora con le braccia alzate e mi fissa con uno sguardo vuoto.

Mi precipito giù, telefono improvvisando e alla fine lo stenografo mi rassicura: «Di stretta misura, ma ce l’abbiamo fatta». Meno male, anche questa volta è andata.

L’indomani l’intervista a Stella mi frutta i complimenti del direttore.

mercoledì 8 aprile 2015

Capodanno coi botti

Un fine anno, nel 1950 o ’60. Mia moglie e io decidemmo di prenderci una vacanza e di fare un viaggio a Napoli. Saremmo andati a trovare due coniugi amici che da tanto ci invitavano e così avremmo visto lo spettacolo dei botti. A Napoli alla mezzanotte di San Silvestro si sparano in cielo cariche esplosive e si getta dalla finestra quello che non serve più. Così volano giù non solo cosine piccole e leggere ma anche mobili, tavoli, armadi. Uno spettacolo che non ha uguali nel mondo, proprio da vedere. Bello ma pericoloso per chi deve mettersi per strada in tempi vicini a quello critico, come avremmo dovuto fare noi. Una avventura, comunque decidemmo di affrontarla.

Avevamo preso alloggio in un albergo di Capodichino che era lontano dalla casa degli amici. Da loro andammo nel pomeriggio, cenammo piacevolmente e a mezzanotte assistemmo allo straordinario spettacolo dei botti. Proprio una cosa eccezionale. Per il ritorno aspettammo che passassero almeno due ore per ridurre il pericolo di ricevere un tavolo in testa. Circolare era problematico, con le strade ingombre com’erano. A una svolta ci imbattemmo in una coppia di giovani, lei stesa in mezzo alla strada, lui al fianco che sventolava un fazzoletto e gridava «per carità, bisogna portarla all’ospedale, è gravissima». La sua voce sembrava proprio angosciata.

Sono rimasto un momento perplesso e lui insisteva, urlava: «Dài, dài, sennò mi muore qui». Sono sceso e il giovane mi ha afferrato un braccio e tirato vicino alla ragazza. L’abbiamo caricata sul sedile posteriore, seduta e lui rapidamente le si messo al fianco. Ha incominciato a dare ordini: «dritto, sinistra, destra, sinistra». La ragazza gemeva lievemente, un paio di volte ho sentito un «mah» incredulo di mia moglie. Poi, improvvisamente, il giovane, come se parlasse normalmente, ha detto: «Ecco, siamo arrivati» e ha indicato un portoncino poco più avanti. «Siete dei bei filibustieri» ho gridato. Stavano scendendo. Ha risposto «buon anno». Non un misero grazie.