Finito di cenare, il bracciante
Amilcare Berri si levò da tavola e salutò la moglie che stava
lavando i piatti e la figlia Irma di dieci anni che si accingeva in
quel momento a fare il compito di scuola. Sulla soglia, mentre
s'alzava il bavero del cappotto, disse che andava a fare la solita
partita a carte. Ma come fu fuori non voltò a destra verso il paese:
s'incamminò sulla strada in direzione del fiume. Sapeva lui dove
voleva andare. La nebbia era fittissima; non c'era ancora stata, in
quell'inverno, una serata di nebbia così intensa. Appunto per questo
il bracciante camminava in direzione del fiume. Nella tasca sinistra
del cappotto stringeva un piccolo rotolo: erano tre pellicole
fotografiche che aveva trovato fra le altre cianfrusaglie nel granaio
del farmacista il giorno che ci aveva accatastata la legna. Le aveva
raccolte pensando che gli sarebbero servite per fare quello che
voleva fare. Adesso, mentre camminava a fatica in mezzo alla nebbia,
stringeva o rigirava fra le dita il rotolo, nervosamente. Era giunto
il momento di servirsi di quella celluloide.
Una automobile, proveniente dalla parte
del fiume, avanzava a velocità ridotta; si sentiva il rombo del
motore e ancora non si vedevano i fari, poi la luce riuscì a fare
una macchia chiara nella nebbia, la macchia si divise in due punti
bianchi dai quali partivano due coni allungati color argento. Il
rumore crebbe, crebbe ancora, la luce argentò la nebbia della strada
e quella dei campi al di là delle siepi; poi, all'improvviso, tornò
buio. Amilcare Berri continuò ad andare avanti: oltrepassò il
cancello della villa Verde, poi raggiunse il ponte sulla Fossa Larga.
Da questo punto cominciò a contare i passi; ne contò trenta, quindi
si fermò sulla parte sinistra. Aguzzando la vista vide nella siepe
il foro che egli conosceva. Passò nei campi e si incamminò lungo il
filare degli olmi. Ora non poteva più perdersi, anche con gli occhi
bendati sarebbe arrivato alla casa di Martino.
La nebbia si posava sulla sua faccia
come una polvere fredda e attaccaticcia e la terra, sotto i piedi,
gli era tenera e pesante. Sulla strada passarono, in bicicletta, due
giovani che cantavano a squarciagola, poi il loro canto fu sommerso
dal rumore di un autocarro. Amilcare andava avanti con passo deciso,
si sentiva anche abbastanza tranquillo; ma nella gola aveva un senso
di secco che lo costringeva a deglutire spesso. Improvvisamente,
quando ancora non se lo aspettava, si trovò davanti a una macchia
ancor più scura del buio della notte: era la casa. Si fermò:
sentiva il respiro farsi rapido e pensò che doveva star calmo. Aveva
atteso per tanto tempo quel momento ed ora non doveva proprio
agitarsi, assolutamente. Davanti a lui c'era la parte posteriore
della fattoria, con il porticato pieno zeppo di paglia e di fieno che
faceva corpo con la stalla e, più avanti, con l'abitazione.
Cautamente, cercando di non far scricchiolare gli sterpi sotto i
piedi, avanzò lungo il fianco della casa rimanendo ad una certa
distanza da essa e si andò a fermare al riparo di un cumulo di
legna. Sporgendo un poco la testa vide di fronte a sé, al piano
terreno, la finestra della cucina. La luce che usciva dai vetri
gettava un alone chiaro nel cortile. Il Berri guardò con tutta
l'attenzione possibile nella finestra. Nonostante il fumo che c'era
in cucina, si vedevano abbastanza chiaramente, seduti intorno alla
tavola, Martino e i suoi tre figli. Evidentemente stavano giocando a
carte perché ogni tanto alzavano la mano portandola poi con rapidità
al centro del tavolo. Martino, che era di fronte ai vetri, era in
maniche di camicia e col gilè; si vedevano bene anche i suoi baffi
lunghi e spioventi.
Amilcare Berri sentì come un mulinello
nello stomaco e gli venne fatto di stringere i denti. Il suo odio,
per tanto tempo represso, avrebbe potuto finalmente sfogarsi perché
Martino era nelle sue mani, adesso. Ripensò alle angherie subite;
rivide il contadino mentre gli diceva che doveva licenziarlo; rivide
se stesso chiedere, tante volte, i molto soldi che doveva avere e
Martino e i suoi figli che dicevano di no, che non gli avrebbero dato
niente e lui che insisteva. Sempre così, per tanto tempo. A casa,
allora, l'Irma era ammalata e non si sapeva come curarla.
Erano nelle sue mani, adesso, Martino e
i suoi figli. Strinse con forza il rotolo delle pellicole e con
l'altra mano cercò nella tasca della giacca la scatola dei
fiammiferi. Sarebbe tornato dietro la casa, avrebbe infilato la
celluloide tra la paglia e poi l'avrebbe incendiata. Gli pareva già
di vedere le fiamme divampare e lanciare bagliori rossastri nel buio
ovattato di nebbia. Loro, in cucina, avrebbero visto e sarebbero
usciti di casa urlando. Poi la lotta col fuoco, l'affannosa corsa a
chiamare i pompieri, l'urlo della sirena, i muggiti disperati delle
vacche. Stringeva in una mano la celluloide e nell'altra i fiammiferi: nelle sue mani c'era la possibilità di far succedere tutto questo.
Poteva farlo anche subito, se voleva. Ma Amilcare preferiva
aspettare. Gli piaceva pensare alla scena che sarebbe seguita e gli
piaceva anche pensare che, se avesse voluto, avrebbe potuto lasciare
le cose come stavano: il buio incontaminato, gli uomini intorno alla
tavola che continuavano pacatamente a giocare con larghi gesti delle
braccia, la notte senza urli di sirene né muggiti di buoi. Aveva in
pugno il destino, poteva farne come voleva. A casa, sua moglie a
quest'ora stava rammendando e l'Irma faceva il compito di scuola;
stava bene, adesso, l'Irma, e le due donne non avevano più fame
perché lui un posto buono l'aveva trovato, a dispetto di Martino.
E ancora rivide i lunghi baffi del
vecchio che sussultavano mentre diceva che non gli avrebbe dato
nemmeno un soldo. SI ritrasse dietro il cumulo di legna e stette un
poco immobile, senza pensare. La nebbia era sempre pesante e scabra.
Sulla strada che scendeva dall'argine e che passava davanti alla casa
non si sentiva un passo. Il silenzio che si allargava nel buio aveva
una sua dolcezza che sembrava fatta di fredda umidità e di odore di
terra.
Lentamente, in punta di piedi, Amilcare
Berri si portò dietro la casa. Il fieno era davanti a lui, lo toccò
con esitazione e lo sentì bagnato; le mani si ritrassero in un gesto
timoroso, ma subito dopo incominciarono a scavare furiosamente con le
dita adunche per fare una nicchia. All'interno del cumulo il fieno
era asciutto e sembrava caldo. Il bracciante provò la sensazione che
qualcuno alle sue spalle stesse per piombargli addosso; sentì anche
per il corpo un brivido che non era di freddo, ma riuscì a
dominarsi. Srotolò la pellicola e la mise nel foro poi, con un
fiammifero, la incendiò. Come vide la fiammata della celluloide si
voltò e fuggì per i campi per fermarsi poi a una cinquantina di
metri dalla casa, dietro a un albero.
Con gli occhi chiusi rimase a lungo ad
ascoltarsi il cuore. Quando li aprì vide nel fienile una chiazza
rossastra. La macchia s'allargava verso l'alto, diventava sempre più
vivida, poi si alzarono da essa fiammate che disegnarono tutti i
contorni del portico. Il bracciante, stretto a un tronco, ascoltava
il crepitio continuo che veniva dal fienile e guardava la luce che
ora forzava la campagna e ad uno ad uno strappava dal buio gli alberi
spettrali avvolgendoli nella nebbia rosa. Una voce nel cortile gridò
«al fuoco» e lacerò il silenzio; era la voce di Martino. Altre ne
seguirono, acute, disperate; e poi muggiti. Era tutto come lui aveva
previsto. Sarebbero venuti anche i pompieri con la sirena e altri
contadini. La sirena, dapprima debole e lontana, avrebbe via via
forzato la nebbia e sarebbe diventata un urlo stridente.
La luce avanzava sempre di più nei
campi e il bracciante pensò di andarsene. Incominciò a camminare
adagio, senza paura, ma poi affrettò il passo, si mise a correre e
gli parve d'essere inseguito; capiva che ciò non poteva essere,
eppure cercava d'andare più forte che poteva e pensava anche,
correndo, che era contento di essersi vendicato. A casa le sue donne
non avevano fame e Irma non era più malata e lui aveva un posto
buono, mentre la casa di Martino stava bruciando.
Arrivò ansimante e accaldato. Il
portone, al pianterreno, era in fessura, nella loggia c'era la luce
accesa e si udivano voci; esitò un attimo poi spalancò l'uscio:
c'erano uomini e donne di quella stessa casa e di altre case vicine.
Come lo videro entrare tutti tacquero e lo fissarono. Ci fu un attimo
di silenzio, pesante. Un uomo, infine, disse:
– È successa una disgrazia, mentre
andava alla fontana a prender acqua.
– Chi? – gridò Amilcare fissando
l'uomo con gli occhi sbarrati.
– L'Irma – rispose l'uomo. – È
su; adesso aspettiamo l'ambulanza.
Il bracciante fece le scale di corsa.
Nell'appartamento c'era altra gente. Sua moglie piangeva di fianco al
letto sul quale Irma giaceva con il viso lacerato e insanguinato, le
vesti stracciate e una larga ferita a una gamba. Respirava, ma non
capiva niente.
– L'ambulanza, l'ambulanza, quando
arriva l'ambulanza? – gridò Amilcare.
– Sono andati a chiamarla – disse
una donna.
Un'altra donna si mise a imprecare
contro l'automobilista che era fuggito senza fermarsi a soccorrere la
bambina.
– Ma perché, perché è successo? –
si mise a chiedere Amilcare con voce disperata coprendosi il volto
con le mani.
– Andava a prendere acqua alla
fontana – rispose sua moglie tra i singhiozzi.
Si udì a un tratto in lontananza un
urlo di sirena. Sembrava facesse fatica a forzare quella nebbia, ma
tuttavia aumentava, si faceva più vicino, diventava lacerante.
– Arriva l'ambulanza – disse una
donna e si avviò abbasso per andarla a vedere.
(Questo racconto è uscito sulla Gazzetta dell'Emilia del 24 Dicembre 1953 e su Stampa Sera di Lunedì 10 - Martedì 11 Maggio 1954; è stato in seguito incluso nella raccolta Il piano di sopra, pubblicata da Mondadori nella collana La medusa degli Italiani nel 1957).
(Questo racconto è uscito sulla Gazzetta dell'Emilia del 24 Dicembre 1953 e su Stampa Sera di Lunedì 10 - Martedì 11 Maggio 1954; è stato in seguito incluso nella raccolta Il piano di sopra, pubblicata da Mondadori nella collana La medusa degli Italiani nel 1957).