sabato 23 aprile 2016

Qualcuno alle spalle

Finito di cenare, il bracciante Amilcare Berri si levò da tavola e salutò la moglie che stava lavando i piatti e la figlia Irma di dieci anni che si accingeva in quel momento a fare il compito di scuola. Sulla soglia, mentre s'alzava il bavero del cappotto, disse che andava a fare la solita partita a carte. Ma come fu fuori non voltò a destra verso il paese: s'incamminò sulla strada in direzione del fiume. Sapeva lui dove voleva andare. La nebbia era fittissima; non c'era ancora stata, in quell'inverno, una serata di nebbia così intensa. Appunto per questo il bracciante camminava in direzione del fiume. Nella tasca sinistra del cappotto stringeva un piccolo rotolo: erano tre pellicole fotografiche che aveva trovato fra le altre cianfrusaglie nel granaio del farmacista il giorno che ci aveva accatastata la legna. Le aveva raccolte pensando che gli sarebbero servite per fare quello che voleva fare. Adesso, mentre camminava a fatica in mezzo alla nebbia, stringeva o rigirava fra le dita il rotolo, nervosamente. Era giunto il momento di servirsi di quella celluloide.

Una automobile, proveniente dalla parte del fiume, avanzava a velocità ridotta; si sentiva il rombo del motore e ancora non si vedevano i fari, poi la luce riuscì a fare una macchia chiara nella nebbia, la macchia si divise in due punti bianchi dai quali partivano due coni allungati color argento. Il rumore crebbe, crebbe ancora, la luce argentò la nebbia della strada e quella dei campi al di là delle siepi; poi, all'improvviso, tornò buio. Amilcare Berri continuò ad andare avanti: oltrepassò il cancello della villa Verde, poi raggiunse il ponte sulla Fossa Larga. Da questo punto cominciò a contare i passi; ne contò trenta, quindi si fermò sulla parte sinistra. Aguzzando la vista vide nella siepe il foro che egli conosceva. Passò nei campi e si incamminò lungo il filare degli olmi. Ora non poteva più perdersi, anche con gli occhi bendati sarebbe arrivato alla casa di Martino.

La nebbia si posava sulla sua faccia come una polvere fredda e attaccaticcia e la terra, sotto i piedi, gli era tenera e pesante. Sulla strada passarono, in bicicletta, due giovani che cantavano a squarciagola, poi il loro canto fu sommerso dal rumore di un autocarro. Amilcare andava avanti con passo deciso, si sentiva anche abbastanza tranquillo; ma nella gola aveva un senso di secco che lo costringeva a deglutire spesso. Improvvisamente, quando ancora non se lo aspettava, si trovò davanti a una macchia ancor più scura del buio della notte: era la casa. Si fermò: sentiva il respiro farsi rapido e pensò che doveva star calmo. Aveva atteso per tanto tempo quel momento ed ora non doveva proprio agitarsi, assolutamente. Davanti a lui c'era la parte posteriore della fattoria, con il porticato pieno zeppo di paglia e di fieno che faceva corpo con la stalla e, più avanti, con l'abitazione. Cautamente, cercando di non far scricchiolare gli sterpi sotto i piedi, avanzò lungo il fianco della casa rimanendo ad una certa distanza da essa e si andò a fermare al riparo di un cumulo di legna. Sporgendo un poco la testa vide di fronte a sé, al piano terreno, la finestra della cucina. La luce che usciva dai vetri gettava un alone chiaro nel cortile. Il Berri guardò con tutta l'attenzione possibile nella finestra. Nonostante il fumo che c'era in cucina, si vedevano abbastanza chiaramente, seduti intorno alla tavola, Martino e i suoi tre figli. Evidentemente stavano giocando a carte perché ogni tanto alzavano la mano portandola poi con rapidità al centro del tavolo. Martino, che era di fronte ai vetri, era in maniche di camicia e col gilè; si vedevano bene anche i suoi baffi lunghi e spioventi.

Amilcare Berri sentì come un mulinello nello stomaco e gli venne fatto di stringere i denti. Il suo odio, per tanto tempo represso, avrebbe potuto finalmente sfogarsi perché Martino era nelle sue mani, adesso. Ripensò alle angherie subite; rivide il contadino mentre gli diceva che doveva licenziarlo; rivide se stesso chiedere, tante volte, i molto soldi che doveva avere e Martino e i suoi figli che dicevano di no, che non gli avrebbero dato niente e lui che insisteva. Sempre così, per tanto tempo. A casa, allora, l'Irma era ammalata e non si sapeva come curarla.

Erano nelle sue mani, adesso, Martino e i suoi figli. Strinse con forza il rotolo delle pellicole e con l'altra mano cercò nella tasca della giacca la scatola dei fiammiferi. Sarebbe tornato dietro la casa, avrebbe infilato la celluloide tra la paglia e poi l'avrebbe incendiata. Gli pareva già di vedere le fiamme divampare e lanciare bagliori rossastri nel buio ovattato di nebbia. Loro, in cucina, avrebbero visto e sarebbero usciti di casa urlando. Poi la lotta col fuoco, l'affannosa corsa a chiamare i pompieri, l'urlo della sirena, i muggiti disperati delle vacche. Stringeva in una mano la celluloide e nell'altra i fiammiferi: nelle sue mani c'era la possibilità di far succedere tutto questo. Poteva farlo anche subito, se voleva. Ma Amilcare preferiva aspettare. Gli piaceva pensare alla scena che sarebbe seguita e gli piaceva anche pensare che, se avesse voluto, avrebbe potuto lasciare le cose come stavano: il buio incontaminato, gli uomini intorno alla tavola che continuavano pacatamente a giocare con larghi gesti delle braccia, la notte senza urli di sirene né muggiti di buoi. Aveva in pugno il destino, poteva farne come voleva. A casa, sua moglie a quest'ora stava rammendando e l'Irma faceva il compito di scuola; stava bene, adesso, l'Irma, e le due donne non avevano più fame perché lui un posto buono l'aveva trovato, a dispetto di Martino.

E ancora rivide i lunghi baffi del vecchio che sussultavano mentre diceva che non gli avrebbe dato nemmeno un soldo. SI ritrasse dietro il cumulo di legna e stette un poco immobile, senza pensare. La nebbia era sempre pesante e scabra. Sulla strada che scendeva dall'argine e che passava davanti alla casa non si sentiva un passo. Il silenzio che si allargava nel buio aveva una sua dolcezza che sembrava fatta di fredda umidità e di odore di terra.

Lentamente, in punta di piedi, Amilcare Berri si portò dietro la casa. Il fieno era davanti a lui, lo toccò con esitazione e lo sentì bagnato; le mani si ritrassero in un gesto timoroso, ma subito dopo incominciarono a scavare furiosamente con le dita adunche per fare una nicchia. All'interno del cumulo il fieno era asciutto e sembrava caldo. Il bracciante provò la sensazione che qualcuno alle sue spalle stesse per piombargli addosso; sentì anche per il corpo un brivido che non era di freddo, ma riuscì a dominarsi. Srotolò la pellicola e la mise nel foro poi, con un fiammifero, la incendiò. Come vide la fiammata della celluloide si voltò e fuggì per i campi per fermarsi poi a una cinquantina di metri dalla casa, dietro a un albero.

Con gli occhi chiusi rimase a lungo ad ascoltarsi il cuore. Quando li aprì vide nel fienile una chiazza rossastra. La macchia s'allargava verso l'alto, diventava sempre più vivida, poi si alzarono da essa fiammate che disegnarono tutti i contorni del portico. Il bracciante, stretto a un tronco, ascoltava il crepitio continuo che veniva dal fienile e guardava la luce che ora forzava la campagna e ad uno ad uno strappava dal buio gli alberi spettrali avvolgendoli nella nebbia rosa. Una voce nel cortile gridò «al fuoco» e lacerò il silenzio; era la voce di Martino. Altre ne seguirono, acute, disperate; e poi muggiti. Era tutto come lui aveva previsto. Sarebbero venuti anche i pompieri con la sirena e altri contadini. La sirena, dapprima debole e lontana, avrebbe via via forzato la nebbia e sarebbe diventata un urlo stridente.

La luce avanzava sempre di più nei campi e il bracciante pensò di andarsene. Incominciò a camminare adagio, senza paura, ma poi affrettò il passo, si mise a correre e gli parve d'essere inseguito; capiva che ciò non poteva essere, eppure cercava d'andare più forte che poteva e pensava anche, correndo, che era contento di essersi vendicato. A casa le sue donne non avevano fame e Irma non era più malata e lui aveva un posto buono, mentre la casa di Martino stava bruciando.
Arrivò ansimante e accaldato. Il portone, al pianterreno, era in fessura, nella loggia c'era la luce accesa e si udivano voci; esitò un attimo poi spalancò l'uscio: c'erano uomini e donne di quella stessa casa e di altre case vicine. Come lo videro entrare tutti tacquero e lo fissarono. Ci fu un attimo di silenzio, pesante. Un uomo, infine, disse:

– È successa una disgrazia, mentre andava alla fontana a prender acqua.

– Chi? – gridò Amilcare fissando l'uomo con gli occhi sbarrati.

– L'Irma – rispose l'uomo. – È su; adesso aspettiamo l'ambulanza.

Il bracciante fece le scale di corsa. Nell'appartamento c'era altra gente. Sua moglie piangeva di fianco al letto sul quale Irma giaceva con il viso lacerato e insanguinato, le vesti stracciate e una larga ferita a una gamba. Respirava, ma non capiva niente.

– L'ambulanza, l'ambulanza, quando arriva l'ambulanza? – gridò Amilcare.

– Sono andati a chiamarla – disse una donna.

Un'altra donna si mise a imprecare contro l'automobilista che era fuggito senza fermarsi a soccorrere la bambina.

– Ma perché, perché è successo? – si mise a chiedere Amilcare con voce disperata coprendosi il volto con le mani.

– Andava a prendere acqua alla fontana – rispose sua moglie tra i singhiozzi.

Si udì a un tratto in lontananza un urlo di sirena. Sembrava facesse fatica a forzare quella nebbia, ma tuttavia aumentava, si faceva più vicino, diventava lacerante.


– Arriva l'ambulanza – disse una donna e si avviò abbasso per andarla a vedere.

(Questo racconto è uscito sulla Gazzetta dell'Emilia del 24 Dicembre 1953 e su Stampa Sera di Lunedì 10 - Martedì 11 Maggio 1954; è stato in seguito incluso nella raccolta Il piano di sopra, pubblicata da Mondadori nella collana La medusa degli Italiani nel 1957).

domenica 3 aprile 2016

È tempo di parlare


È tempo di parlare, fratello,
ora che torna dai campi
l’odore di freddo, di buio e d’incenso
e la tua mano ancora mi dice
dolcemente tra i capelli,
come in quella sera di dicembre,
un misterioso linguaggio d’addio.
E’ tempo di parlare,
ora che gli anni si perdono
fra le ombre della memoria
e il lontano passato
ritorna presente.
Tutto mi nasce intorno come allora:
le immense stanze della casa,
le màcine, il grano, le mole,
le macchine ferme in attesa dell’alba;
l’acqua impetuosa che preme
alle paratie chiuse delle turbine,
e fugge giù per gli sfioratori
facendo tremare le pietre;
e i cavalli che ràspano, di tanto in tanto,
nelle stalle dove non sanno trovare
il sonno dei giorni colmi di fatica;
e le campagne buie,
odorose d’incenso e di freddo;
e la grande cucina, nera di fumo,
con gli amici che ridono e ballano
sulle note velate dei violini;
e tu, in un angolo, seduto
sulla vecchia poltrona del nonno
con un viso terribilmente triste;
e il mio presago pianto di bimbo
che spengo a tratti sulla tua spalla
mentre alzi la mano per dirmi,
dolcemente tra i capelli,
quel misterioso linguaggio d’addio.
È tutta l’Ampèrgola d’allora,
di quella notte d’inverno
che vide bruscamente
finire la mia fanciullezza.
Poi le note spezzate del valzer
e il tuo nome di bocca in bocca
nel silenzio delle vaste stanze,
nelle fredde corsie del mulino:
perché tu non sei più
sulla vecchia poltrona del nonno
e non rispondi ai richiami
e non cheti l’ansia
che nei cuori ha l’impeto
dell’acqua possente.
Gli uomini cercano adagio
per non svegliare la madre,
ma tu non rispondi
e solo rimane nell’aria
l’eco continua di un nome.
Tremenda è la notte che racchiude
il mistero della vita e della morte,
quando si teme di trovare
al di là di ogni passo
la realtà dell’incubo che opprime.
Così pare che l’alba debba venire
da una lontana notte polare.
Ma la prima timida luce
scopre il tuo corpo a galla
tra le scroscianti onde del fiume
che galoppando fuggono
verso lidi lontani.
E’ impigliato in qualcosa
che ancora lo tiene
legato alla casa
e l’acqua lo culla
per tenero gioco.
Non ha principio né fine
il grido materno
quando sei steso
sulla branda di legno
e gli uomini immobili
ti fanno corona
E’ il grido che sgorga dalla terra
e s’alza alto nel misterioso cielo
che non sa dare risposta.

Gli anni si sono persi
fra le ombre della memoria,
ma il perché della tua morte
sempre è rimasto sospeso su noi
e ancora invano cerchiamo
una parola che plachi
il grido della madre.
È tempo di parlare, fratello.
Ora che torna dai campi
l’odore di freddo, di buio e d’incenso
io ti chiedo di svelarmi l’arcano.
Lo so che non ci saranno misteri
quando anche per me s’aprirà
la grande giornata,
ma allora tutto si scioglierà
nell’infinita conoscenza.
Voglio saperlo adesso
che l’anima mi si rode nel corpo
e siamo fermi alla notte di dicembre
in attesa dell’alba.


      (1946)