La villa sorgeva a fianco di
una via stretta tra due siepi e bianca di polvere sulla quale di rado
passava gente perché dava accesso, oltre a questa costruzione, a
un'unica cascina che era cento metri più avanti. Vi transitavano
qualche volta i contadini, con l'auto per andare in paese, o con il
trattore che trainava un carro per raggiungere i campi al di là
della strada provinciale sulla quale sfociava. La villa dava ben poco
movimento e solo d'estate, quand'era abitata: il cancello, comandato
elettronicamente, s'apriva al mattino per far passare la macchina
dell'avvocato che andava in città, al lavoro, e tornava ad aprirsi
la sera al suo rientro. Per Roberto, che aveva cinque anni, l'uscita
e l'arrivo della macchina del padre erano due avvenimenti importanti
della giornata: al mattino assisteva alla partenza per vedere la
polvere che si sollevava dietro le ruote; e rimaneva a lungo a
guardare oltre le sbarre del cancello la nuvola bianca che a poco a
poco si diradava. La sera attendeva sullo spiazzo davanti a casa con
l'orecchio attento al rombo del motore dell'auto. E quando il padre
scendeva gli si gettava fra le braccia con gridolini di gioia.
Le giornate di Roberto erano
lunghissime e solitarie. In casa c'era sua madre, ma stava quasi
sempre chiusa in camera: non riusciva a riprendersi dal dolore per
la perdita del secondo figlio, più giovane di un anno, che era
morto tre mesi prima, dopo una malattia durata pochi giorni. La
famiglia si era trasferita in campagna tre settimane dopo il
funerale; l'avvocato sperava che l'ambiente diverso aiutasse la
moglie a superare quel periodo di angoscia, ma ogni sera, al ritorno,
la ritrovava sempre uguale.
Ad alleviare il senso di vuoto
che pesava intorno a Roberto c'era, fortunatamente, Luciano, uno dei
figli del contadino. Aveva otto anni e arrivava nel giardino passando
attraverso i campi e poi varcando un cancelletto tenuto chiuso
soltanto con un gancio di ferro. Luciano si intratteneva anche due o
tre ore, a volte sia al mattino che al pomeriggio. I due bambini
trascorrevano il loro tempo perlustrando ogni angolo dell'area
intorno alla villa, delimitata da una rete metallica e nella
quale si alternavano spazi erbosi, aiuole di fiori e gruppi arborei.
Conoscevano gli alberi con i nidi di uccelli, i formicai, le tane
delle talpe, i punti in cui cresceva l'ortica, sapevano in quali ore
del giorno gli uccellini portavano il cibo ai loro piccoli, in quali
momenti le formiche uscivano in fila indiana a percorrere il dedalo
delle loro strade in cerca di cibo.
Oltre la rete c'era la
campagna: una fascia di prati larga forse duecento metri, piatta,
verde, invitante; e oltre i prati il pioppeto, come una muraglia
grigia alla base e verde scuro in alto, stagliata contro il cielo.
Roberto non era mai andato fino al pioppeto. Sua madre non gli aveva
mai permesso di passare al di là del recinto, eccetto una volta,
l'estate precedente, quando gli aveva consentito di andare con
Luciano a raccogliere papaveri nel prato, ma lei lo aveva sorvegliato
in continuazione appoggiandosi alla rete con le mani. In questa
estate, sempre chiusa nel suo dolore, non lo controllava con lo
sguardo, si limitava a fargli delle raccomandazioni generiche quando
usciva dalla villa:
«Fai a modo, non ti
sporcare, non ti allontanare».
Roberto avvertiva questo
mutamento nel carattere della madre e intuiva che era legato alla
scomparsa del fratellino; la maggiore libertà di cui godeva gli
pesava con una sensazione sgradevole di tristezza. Solo la presenza
di Luciano gli cancellava queste ombre scure ridando serenità al suo
animo. Luciano, invece, che già da solo camminava per la campagna,
era stato nel pioppeto più di una volta con il padre, a controllare
la crescita dei pioppi. E quelle sue visite raccontava all'amico
descrivendo particolari in parte reali e in parte fantasiosi, sicché
Roberto, che ascoltava affascinato, si faceva l'idea che la barriera
del pioppeto fosse il limite di un altro mondo, lontanissimo,
irraggiungibile, meraviglioso.
Un giorno i due bambini
scoprirono un gioco nuovo: l'aquilone. Su un giornalino per ragazzi
ne avevano visto uno disegnato e Luciano aveva anche letto le
istruzioni per costruirlo. Si erano messi sulla ghiaietta davanti
alla villa, con un pacco di giornali e una boccetta di colla. A sera,
quando il cancello si era aperto per lasciare entrare la macchina
dell'avvocato, erano ancora intenti al loro lavoro, stavano per
ultimare la coda. Il padre di Roberto portò l'auto in garage poi
andò vicino ai due bimbi e si mise a ridere. Disse che quel congegno
non avrebbe mai volato, la carta era troppo fragile e poi doveva
essere sorretto da leggere cannucce, la coda andava costruita a
catena, con tanti anelli uno dentro l'altro. I bambini erano rimasti
mortificati, Roberto stava per piangere. Suo padre l'aveva
accarezzato:
«Domani sera», aveva detto, «porterò a casa la carta e il filo che vanno
bene e poi dopodomani, che è sabato, io stesso vi costruirò
l'aquilone».
Il venerdì era stata una
giornata ancora più lunga delle altre, interminabile per Roberto.
Alla fine l'avvocato era tornato e non si era dimenticato della carta
e delle altre cose necessarie. La carta era rossa, sottile e dura,
che a toccarla con le dita faceva un rumore secco. Roberto aveva
battuto le mani per la gioia; la sera era andato a dormire presto,
come se, in tal modo, avesse potuto anticipare l'arrivo del mattino
destinato alla costruzione dell'aquilone. E invece s'era svegliato
tardi, quando il sole era già alto da tempo, e uscendo nello spiazzo
dietro la casa aveva trovato il padre già avanti nel lavoro,
assistito da Luciano. Stava nascendo la coda, fatta con la stessa
carta, rossa e rigida: gli anelli partivano dai due angoli di fondo
dell'aquilone in due segmenti di catena che si congiungevano a un
mezzo metro di distanza e poi ancora continuavano con un tratto unico
e centrale di pari lunghezza. Nel corpo dell'aquilone, tra i due
strati di carta sovrapposti, si intravedevano i due pezzi di canna ad
X che costituivano la sua ossatura. Roberto guardava incantato
nascere il giocattolo, ogni tanto chiedeva:
«Sei sicuro, babbo, che
volerà? E andrà molto in alto?»
«Se ci sarà un po' di
vento volerà» rispondeva suo padre; «e volerà alto,
perché ho un lungo gomitolo di filo».
Finalmente l'aquilone fu
pronto. «Andiamo nel prato» disse l'avvocato, «là
potremo correre senza inciampi». I bambini l'aiutarono a
portare l'aquilone: lo reggevano con mani delicate come se fosse
qualcosa di estremamente prezioso. Varcarono il piccolo cancello che
dava sui campi. La distesa verde si allargava tutt'attorno, chiusa,
in fondo, dal giro chiaro e verde scuro del pioppeto. Roberto lanciò
alcune piccole grida di gioia e batté i piedi non potendo battere le
mani impegnate.
«Adesso vola» gridò. «Che bello!»
Il padre srotolò qualche
metro di filo poi, tenendo il gomitolo in mano, si mise a correre,
subito seguito dai bambini. L'aquilone dapprima strisciò a terra,
poi, per un urto contro una asperità, fece un balzo, s'impennò,
s'alzò di un metro, andò avanti così per un poco; e intanto
l'avvocato continuava a correre e i bambini lo seguivano. L'aquilone
si alzava di più, i bimbi dovevano girare la testa verso l'alto per
tenerlo d'occhio. Ecco, saliva, saliva e l'avvocato continuava a
srotolare il gomitolo, a concedergli filo.
Ora l'avvocato aveva
rallentato la corsa, andava quasi al passo e l'aquilone continuava a
stare alto e ad ondeggiare lieve al soffio del vento.
«Come è bello» esclamava Roberto, «come è bello!» Luciano si fece
vicino all'avvocato, alzò la mano:
«Io» disse, «lo
faccio andare io». L'avvocato gli passò l'estremità della
corda. Il ragazzino l'afferrò, ma solo per un attimo: subito gli
sfuggì ed egli si fermò, immobile, con il braccio ancora teso in
alto.
«Cos'hai fatto!?» gridò l'avvocato. Roberto non si era reso conto, sul momento, di
quello che era accaduto. Restava stupito a guardare l'aquilone che
sempre saliva e diventava piccolo, ancora più piccolo. Lo capì
tutt'a un tratto e si mise a piangere, disperato. Suo padre lo prese
in braccio, s'avviò verso il cancello che riportava alla villa.
«Te ne farò un
altro».
«No, io voglio
quello».
«Quello non si può
avere».
«Perché, dov'è
andato?»
«È andato in cielo, in
paradiso». Il bambino smise di piangere, chiese ancora: «In
paradiso, dove c'è il mio fratellino?»
«Sì, è andato da
Ginetto, Ginetto giocherà con il tuo aquilone».
L'avvocato si era seduto su
una panchina, a fianco di una aiuola di viole. Il bimbo stava in
abbandono fra le sue braccia, con la testa appoggiata alla sua
spalla. Taceva. Ricordava il fratellino, l'agitazione che c'era in
casa nei giorni della sua malattia, il medico, un uomo alto e sottile
con una borsa sempre in mano, che veniva anche due o tre volte nella
stessa giornata, i pianti della madre. Poi, una sera. Ginetto,
avvolto in una coperta, era stato portato via con un'ambulanza. Ma il
giorno dopo la mamma, tornata dall'ospedale, lo aveva abbracciato a
lungo, stretto stretto, e poi si era messa a piangere. Tra i
singhiozzi diceva: «È morto, Ginetto è morto».
«Come farà, Ginetto, a
giocare con l'aquilone?» chiese il bambino girandosi a
guardare il padre. Lui volse gli occhi in alto:
«Ginetto è leggero,
bello, candido» disse lentamente, scandendo le parole: «nel
cielo volerà fra le nuvole e gli angeli, tenendo con la manina il
filo e l'aquilone lo seguirà ovunque egli vorrà». Roberto
era lontano, ora, dal pianto. Disse:
«Se è vero che
l'aquilone è andato in paradiso da Ginetto, sono contento».
Quella sera il bambino si addormentò pensando alla morte, era una
cosa bella, lieve, luminosa; e continuò a sognare aquiloni che
volavano fra angeli e nubi candide, trasparenti. Nel profondo sonno
il bambino non sentiva il temporale che si stava abbattendo con
scrosci d'acqua e fulmini sulla campagna.
Due giorni dopo, nel
pomeriggio, in giardino, Luciano lo chiamò in disparte, dietro una
quercia, come se dovesse ordire un complotto. E infatti doveva
proporgli qualcosa di illecito. Disse:
«Mio padre ha
raccontato che il pioppeto è allagato: la pioggia dell'altra notte
s'è fermata a terra, ha coperto l'erba, le piante sembra che nascano
dal mare». Esitò un momento poi propose, con decisione: «Andiamo a vedere». Roberto sporse la testa oltre il
tronco per guardare verso la villa. Luciano fu pronto a trattenerlo: «Non ci pensare, a tua madre, facciamo una corsa e poi
torniamo». Il bambino si sentì battere il cuore con violenza,
per l'emozione: il pioppeto era un sogno mai raggiunto; ed ora le
piante nascevano dall'acqua, uno spettacolo ancora più attraente.
Disse:
«Sì, vengo».
Partirono di corsa, superarono il cancelletto, furono nei prati. I
loro piedi quasi affondavano nel terreno molle, l'erba era fradicia e
qua e là c'erano invisibili pozzanghere d'acqua che schizzava in
alto, sui loro corpi, sotto la pressione dei piedi in corsa. Ma ormai
avevano deciso e sarebbero andati fin alla mèta.
La barriera dei pioppi si
avvicinava, il grigio dei tronchi diventava più chiaro, anche il
verde delle fronde era meno scuro. I pioppi erano alti, Roberto non
immaginava che fossero tanto alti; più si avvicinava, più li vedeva
diventare alti. Ormai distavano poche decine di metri. Ecco, già si
vedeva il luccicare dell'acqua. I due bambini si fermarono, ansanti,
ad ammirare la scena, poi ripresero a camminare, adagio. I piedi
affondavano sempre più nel fango che sotto le scarpe gemeva in suoni
spenti. Il lago incominciava un po' oltre i primi pioppi. I bambini
avanzarono ancora, cauti. A un tratto Luciano gridò:
«Guarda» e puntò
il dito da una parte.
A terra, proprio sul limitare
dell'allagamento, in parte intriso di fango e in parte coperto
dall'acqua, stava l'aquilone. Era ancora rosso, ma strappato,
accartocciato, sporco: un brandello di catena della coda galleggiava
sull'acqua. Roberto era rimasto immobile, non sapeva staccare gli
occhi da quei miseri resti. A Luciano, che lo guardava stupito, disse:
«Ma allora non è
andato in paradiso?» Volse gli occhi intorno, gli sembrava
che dovesse esserci, di fianco a qualche pioppo, nel fango, anche il
corpo di suo fratello. Si mise a piangere, a dirotto.