lunedì 25 maggio 2015

Riconoscenza tardiva

È rozzo, sgraziato nel dire e nel fare, incapace di una parola dolce, d’affetto. Lei, Carlina, è di ben altro temperamento. Quando lavorava da sarta, sola, ancora nubile, non faceva altro che sognare. Sognava un uomo gentile, pieno di premure. Cosa importa se aveva già 48 anni? Niente; si può esser poeti anche a cent’anni, e lei lo era. Poi capitò lui, Contardo, a farsi fare una giacca. Ci andò per ordinarla, ci andò per provarla e poi per ritirarla. Quest’ultima volta le disse, così a bruciapelo: «Lei, Carlina, sa che io, qui in paese, sono molto stimato, ho un negozio di ferramenta, mio, ben avviato. Sono solo, lo so che a 55 anni è un po’ tardi per sposarsi, ma io sarei disposto. Cosa ne pensa? Potremmo vivere in compagnia, si sta così male da soli».
Carlina aveva preso una settimana di tempo per pensarci, poi aveva acconsentito. Si erano sposati due mesi dopo. Adesso sono insieme da quattro anni, lei ne ha 52, lui 59. A sentire i vicini una coppia molto affiatata, lavorano tutta la settimana, lei casa e qualche volta ad aiutare il marito in negozio, lui sempre dietro il banco. La domenica mattina vanno a messa insieme e, nel pomeriggio, lui va a fare la solita partita a scopone, in osteria.
Ma lei, Carlina, non è contenta. Avrebbe voluto ben altro. Quand’era nubile e passava ore a testa china a cucire, sperava di trovare un uomo che le fosse sempre intorno a dirle qualcosa, cara qui, cara là, cara come ti voglio bene. Ma allora, se la vita coniugale è così, con un uomo che tace sempre, che apre bocca solo per dire «fatti in là altrimenti non passo», «è pronta questa cena?», oppure «quand’è che ti decidi a venirmi a dare una mano nel negozio, non sai che oggi è giorno di mercato?», allora era molto meglio stare da soli, almeno si poteva fantasticare in libertà e c’era la possibilità che un sogno bellissimo si avverasse.
«Contardo – propone lei in un tentativo di dirozzamento del marito --, cosa ne dici se quest’estate andassimo a fare un viaggetto? Non ci siamo mai mossi, non abbiamo fatto nemmeno il viaggio di nozze». «Sarai mica matta, e il negozio? Qui c’è gente che lavora anche d’estate». Carlina scuote la testa: già l’immaginava che avrebbe risposto così. «Piuttosto che pensare alle ferie – dice Contardo – metti un po’ a posto, nella retrobottega, le pompe per il verderame che sono arrivate questa mattina».
È salita sulla scaletta, ha sistemato le pompe sullo scaffale che è dietro la porta. Questa pompa è messa male, se l’uscio si apre completamente va a sbattere contro il manico che fa da leva; la pompa si ribalta e cade. Le sembra di vedere la scena: un piccolo colpo qui e questa ferraglia pesante si rovescia e precipita. Dio, cade sulla testa di suo marito. Le viene quasi da ridere, perché se l’immagina steso a terra, forse svenuto, anzi no, addirittura morto. Oddio, che disgrazia! Lei vedova, sola. Cosa farà, rimarrà qui in negozio o tornerà a fare la sarta? Comunque, in una maniera o nell’altra, potrà riprendere i suoi sogni come una volta. Certo bisognerebbe proprio cercare di metterlo meglio questo materiale, perché così è davvero pericoloso, ma adesso è tardi, lo farà domani. E poi lui la chiama, c’è gente da servire.
Scende dalla scaletta, va in negozio: ci sono tre clienti, saranno contadini, ne hanno tutto l’aspetto; è diventata esperta nel giudicare la clientela, anche se non è sempre dietro il banco. Ma che vita triste questa del negoziante di ferramenta: almeno ci fosse da vendere dei fazzoletti di seta. Usciti i clienti, Carlina pensa che è meglio vada a finire il lavoro che stava facendo. Quando è dentro guarda in alto per vedere come può fare. Anche il marito, approfittando del momento libero, decide di andare a dare un’occhiata e apre l’uscio. Lo fa con decisione e accade esattamente quello che lei ha previsto pochi minuti fa: il manico della pompa, urtato, fa cadere tutto il materiale che è stato malamente accatastato: precipita e colpisce proprio sulla testa la povera Carlina che, travolta, si accascia con un gemito ai piedi del marito sbigottito. Quello che segue è tutto dramma. In ospedale tre giorni d’inferno: prima la danno per spacciata, poi lasciano trapelare un filo di speranza, infine la conclusione letale.

Contardo è qui che piange, in cucina, solo. «Era tutta la mia vita – mormora tra i singhiozzi – poverina. Adesso cosa farò della mia esistenza. Avevo scoperto la bellezza della compagnia, la bellezza del volersi bene. Povero me. Era una donna meravigliosa, sicuramente introvabile. Avrei dovuto tenerla nella bambagia, sempre a casa, ai suoi aghi, alle sue forbici, e accontentarla ogni tanto, magari con un viaggettino. Oh Dio, sono di nuovo solo: brutto, brutto destino».

lunedì 18 maggio 2015

L'aquilone

La villa sorgeva a fianco di una via stretta tra due siepi e bianca di polvere sulla quale di rado passava gente perché dava accesso, oltre a questa costruzione, a un'unica cascina che era cento metri più avanti. Vi transitavano qualche volta i contadini, con l'auto per andare in paese, o con il trattore che trainava un carro per raggiungere i campi al di là della strada provinciale sulla quale sfociava. La villa dava ben poco movimento e solo d'estate, quand'era abitata: il cancello, comandato elettronicamente, s'apriva al mattino per far passare la macchina dell'avvocato che andava in città, al lavoro, e tornava ad aprirsi la sera al suo rientro. Per Roberto, che aveva cinque anni, l'uscita e l'arrivo della macchina del padre erano due avvenimenti importanti della giornata: al mattino assisteva alla partenza per vedere la polvere che si sollevava dietro le ruote; e rimaneva a lungo a guardare oltre le sbarre del cancello la nuvola bianca che a poco a poco si diradava. La sera attendeva sullo spiazzo davanti a casa con l'orecchio attento al rombo del motore dell'auto. E quando il padre scendeva gli si gettava fra le braccia con gridolini di gioia.
Le giornate di Roberto erano lunghissime e solitarie. In casa c'era sua madre, ma stava quasi sempre chiusa in camera: non riusciva a riprendersi dal dolore per la perdita del secondo figlio, più giovane di un anno, che era morto tre mesi prima, dopo una malattia durata pochi giorni. La famiglia si era trasferita in campagna tre settimane dopo il funerale; l'avvocato sperava che l'ambiente diverso aiutasse la moglie a superare quel periodo di angoscia, ma ogni sera, al ritorno, la ritrovava sempre uguale.
Ad alleviare il senso di vuoto che pesava intorno a Roberto c'era, fortunatamente, Luciano, uno dei figli del contadino. Aveva otto anni e arrivava nel giardino passando attraverso i campi e poi varcando un cancelletto tenuto chiuso soltanto con un gancio di ferro. Luciano si intratteneva anche due o tre ore, a volte sia al mattino che al pomeriggio. I due bambini trascorrevano il loro tempo perlustrando ogni angolo dell'area intorno alla villa, delimitata da una rete metallica e nella quale si alternavano spazi erbosi, aiuole di fiori e gruppi arborei. Conoscevano gli alberi con i nidi di uccelli, i formicai, le tane delle talpe, i punti in cui cresceva l'ortica, sapevano in quali ore del giorno gli uccellini portavano il cibo ai loro piccoli, in quali momenti le formiche uscivano in fila indiana a percorrere il dedalo delle loro strade in cerca di cibo.
Oltre la rete c'era la campagna: una fascia di prati larga forse duecento metri, piatta, verde, invitante; e oltre i prati il pioppeto, come una muraglia grigia alla base e verde scuro in alto, stagliata contro il cielo. Roberto non era mai andato fino al pioppeto. Sua madre non gli aveva mai permesso di passare al di là del recinto, eccetto una volta, l'estate precedente, quando gli aveva consentito di andare con Luciano a raccogliere papaveri nel prato, ma lei lo aveva sorvegliato in continuazione appoggiandosi alla rete con le mani. In questa estate, sempre chiusa nel suo dolore, non lo controllava con lo sguardo, si limitava a fargli delle raccomandazioni generiche quando usciva dalla villa:
«Fai a modo, non ti sporcare, non ti allontanare».
Roberto avvertiva questo mutamento nel carattere della madre e intuiva che era legato alla scomparsa del fratellino; la maggiore libertà di cui godeva gli pesava con una sensazione sgradevole di tristezza. Solo la presenza di Luciano gli cancellava queste ombre scure ridando serenità al suo animo. Luciano, invece, che già da solo camminava per la campagna, era stato nel pioppeto più di una volta con il padre, a controllare la crescita dei pioppi. E quelle sue visite raccontava all'amico descrivendo particolari in parte reali e in parte fantasiosi, sicché Roberto, che ascoltava affascinato, si faceva l'idea che la barriera del pioppeto fosse il limite di un altro mondo, lontanissimo, irraggiungibile, meraviglioso.
Un giorno i due bambini scoprirono un gioco nuovo: l'aquilone. Su un giornalino per ragazzi ne avevano visto uno disegnato e Luciano aveva anche letto le istruzioni per costruirlo. Si erano messi sulla ghiaietta davanti alla villa, con un pacco di giornali e una boccetta di colla. A sera, quando il cancello si era aperto per lasciare entrare la macchina dell'avvocato, erano ancora intenti al loro lavoro, stavano per ultimare la coda. Il padre di Roberto portò l'auto in garage poi andò vicino ai due bimbi e si mise a ridere. Disse che quel congegno non avrebbe mai volato, la carta era troppo fragile e poi doveva essere sorretto da leggere cannucce, la coda andava costruita a catena, con tanti anelli uno dentro l'altro. I bambini erano rimasti mortificati, Roberto stava per piangere. Suo padre l'aveva accarezzato:
«Domani sera», aveva detto, «porterò a casa la carta e il filo che vanno bene e poi dopodomani, che è sabato, io stesso vi costruirò l'aquilone».
Il venerdì era stata una giornata ancora più lunga delle altre, interminabile per Roberto. Alla fine l'avvocato era tornato e non si era dimenticato della carta e delle altre cose necessarie. La carta era rossa, sottile e dura, che a toccarla con le dita faceva un rumore secco. Roberto aveva battuto le mani per la gioia; la sera era andato a dormire presto, come se, in tal modo, avesse potuto anticipare l'arrivo del mattino destinato alla costruzione dell'aquilone. E invece s'era svegliato tardi, quando il sole era già alto da tempo, e uscendo nello spiazzo dietro la casa aveva trovato il padre già avanti nel lavoro, assistito da Luciano. Stava nascendo la coda, fatta con la stessa carta, rossa e rigida: gli anelli partivano dai due angoli di fondo dell'aquilone in due segmenti di catena che si congiungevano a un mezzo metro di distanza e poi ancora continuavano con un tratto unico e centrale di pari lunghezza. Nel corpo dell'aquilone, tra i due strati di carta sovrapposti, si intravedevano i due pezzi di canna ad X che costituivano la sua ossatura. Roberto guardava incantato nascere il giocattolo, ogni tanto chiedeva:
«Sei sicuro, babbo, che volerà? E andrà molto in alto?»
«Se ci sarà un po' di vento volerà» rispondeva suo padre; «e volerà alto, perché ho un lungo gomitolo di filo».
Finalmente l'aquilone fu pronto. «Andiamo nel prato» disse l'avvocato, «là potremo correre senza inciampi». I bambini l'aiutarono a portare l'aquilone: lo reggevano con mani delicate come se fosse qualcosa di estremamente prezioso. Varcarono il piccolo cancello che dava sui campi. La distesa verde si allargava tutt'attorno, chiusa, in fondo, dal giro chiaro e verde scuro del pioppeto. Roberto lanciò alcune piccole grida di gioia e batté i piedi non potendo battere le mani impegnate.
«Adesso vola» gridò. «Che bello!»
Il padre srotolò qualche metro di filo poi, tenendo il gomitolo in mano, si mise a correre, subito seguito dai bambini. L'aquilone dapprima strisciò a terra, poi, per un urto contro una asperità, fece un balzo, s'impennò, s'alzò di un metro, andò avanti così per un poco; e intanto l'avvocato continuava a correre e i bambini lo seguivano. L'aquilone si alzava di più, i bimbi dovevano girare la testa verso l'alto per tenerlo d'occhio. Ecco, saliva, saliva e l'avvocato continuava a srotolare il gomitolo, a concedergli filo.
Ora l'avvocato aveva rallentato la corsa, andava quasi al passo e l'aquilone continuava a stare alto e ad ondeggiare lieve al soffio del vento.
«Come è bello» esclamava Roberto, «come è bello!» Luciano si fece vicino all'avvocato, alzò la mano:
«Io» disse, «lo faccio andare io». L'avvocato gli passò l'estremità della corda. Il ragazzino l'afferrò, ma solo per un attimo: subito gli sfuggì ed egli si fermò, immobile, con il braccio ancora teso in alto.
«Cos'hai fatto!?» gridò l'avvocato. Roberto non si era reso conto, sul momento, di quello che era accaduto. Restava stupito a guardare l'aquilone che sempre saliva e diventava piccolo, ancora più piccolo. Lo capì tutt'a un tratto e si mise a piangere, disperato. Suo padre lo prese in braccio, s'avviò verso il cancello che riportava alla villa.
«Te ne farò un altro».
«No, io voglio quello».
«Quello non si può avere».
«Perché, dov'è andato?»
«È andato in cielo, in paradiso». Il bambino smise di piangere, chiese ancora: «In paradiso, dove c'è il mio fratellino?»
«Sì, è andato da Ginetto, Ginetto giocherà con il tuo aquilone».
L'avvocato si era seduto su una panchina, a fianco di una aiuola di viole. Il bimbo stava in abbandono fra le sue braccia, con la testa appoggiata alla sua spalla. Taceva. Ricordava il fratellino, l'agitazione che c'era in casa nei giorni della sua malattia, il medico, un uomo alto e sottile con una borsa sempre in mano, che veniva anche due o tre volte nella stessa giornata, i pianti della madre. Poi, una sera. Ginetto, avvolto in una coperta, era stato portato via con un'ambulanza. Ma il giorno dopo la mamma, tornata dall'ospedale, lo aveva abbracciato a lungo, stretto stretto, e poi si era messa a piangere. Tra i singhiozzi diceva: «È morto, Ginetto è morto».
«Come farà, Ginetto, a giocare con l'aquilone?» chiese il bambino girandosi a guardare il padre. Lui volse gli occhi in alto:
«Ginetto è leggero, bello, candido» disse lentamente, scandendo le parole: «nel cielo volerà fra le nuvole e gli angeli, tenendo con la manina il filo e l'aquilone lo seguirà ovunque egli vorrà». Roberto era lontano, ora, dal pianto. Disse:
«Se è vero che l'aquilone è andato in paradiso da Ginetto, sono contento». Quella sera il bambino si addormentò pensando alla morte, era una cosa bella, lieve, luminosa; e continuò a sognare aquiloni che volavano fra angeli e nubi candide, trasparenti. Nel profondo sonno il bambino non sentiva il temporale che si stava abbattendo con scrosci d'acqua e fulmini sulla campagna.


Due giorni dopo, nel pomeriggio, in giardino, Luciano lo chiamò in disparte, dietro una quercia, come se dovesse ordire un complotto. E infatti doveva proporgli qualcosa di illecito. Disse:
«Mio padre ha raccontato che il pioppeto è allagato: la pioggia dell'altra notte s'è fermata a terra, ha coperto l'erba, le piante sembra che nascano dal mare». Esitò un momento poi propose, con decisione: «Andiamo a vedere». Roberto sporse la testa oltre il tronco per guardare verso la villa. Luciano fu pronto a trattenerlo: «Non ci pensare, a tua madre, facciamo una corsa e poi torniamo». Il bambino si sentì battere il cuore con violenza, per l'emozione: il pioppeto era un sogno mai raggiunto; ed ora le piante nascevano dall'acqua, uno spettacolo ancora più attraente. Disse:
«Sì, vengo». Partirono di corsa, superarono il cancelletto, furono nei prati. I loro piedi quasi affondavano nel terreno molle, l'erba era fradicia e qua e là c'erano invisibili pozzanghere d'acqua che schizzava in alto, sui loro corpi, sotto la pressione dei piedi in corsa. Ma ormai avevano deciso e sarebbero andati fin alla mèta.
La barriera dei pioppi si avvicinava, il grigio dei tronchi diventava più chiaro, anche il verde delle fronde era meno scuro. I pioppi erano alti, Roberto non immaginava che fossero tanto alti; più si avvicinava, più li vedeva diventare alti. Ormai distavano poche decine di metri. Ecco, già si vedeva il luccicare dell'acqua. I due bambini si fermarono, ansanti, ad ammirare la scena, poi ripresero a camminare, adagio. I piedi affondavano sempre più nel fango che sotto le scarpe gemeva in suoni spenti. Il lago incominciava un po' oltre i primi pioppi. I bambini avanzarono ancora, cauti. A un tratto Luciano gridò:
«Guarda» e puntò il dito da una parte.
A terra, proprio sul limitare dell'allagamento, in parte intriso di fango e in parte coperto dall'acqua, stava l'aquilone. Era ancora rosso, ma strappato, accartocciato, sporco: un brandello di catena della coda galleggiava sull'acqua. Roberto era rimasto immobile, non sapeva staccare gli occhi da quei miseri resti. A Luciano, che lo guardava stupito, disse:
«Ma allora non è andato in paradiso?» Volse gli occhi intorno, gli sembrava che dovesse esserci, di fianco a qualche pioppo, nel fango, anche il corpo di suo fratello. Si mise a piangere, a dirotto.





domenica 10 maggio 2015

Strade sbagliate

La poetessa Elena Ellena era abbastanza nota, non tanto per la sua produzione artistica, quanto per il suo daffare per mantenersi in vista. Non mancava mai ad alcuna festa mondana cittadina e faceva di tutto per attirare su di sé l’attenzione dei fotografi con la speranza di veder pubblicata una sua fotografia su giornali o riviste. Quarantenne, era da anni l’amica di un pittore di buon nome, Antonio Berculli, che viveva separato dalla moglie. Nonostante il Berculli fosse di carattere riservato e cercasse di rifuggire da qualsiasi forma di pubblicità, l’Ellena non perdeva occasione di far chiasso anche intorno a lui, sempre con il fine di diffondere il proprio nome. Il suo primo libro di poesie – venticinque liriche di appena cinque versi – risaliva a quindici anni prima ed era tutto un grido di esuberanza, di ideali molto materialistici: credeva soltanto nelle gioie che poteva dare il denaro e nel disprezzo di tutte le convenzioni sociali. In una poesia rinnegava addirittura la sua famiglia troppo mite e troppo povera e la sua terra di montagna di beni avara e inutilmente bella.
La produzione successiva, sempre molto limitata, aveva portato pochi lumi chiarificatori sulla personalità artistica e sulla figura dell’Ellena. Talvolta la sua ispirazione artistica era ancora venuta da motivi di ribellione, ma più spesso era nata da elementi di pacatezza. Si poteva notare in lei un lento approdo alla vita normale, alle regole che anni prima aveva combattuto con slancio. Continuava ancora a frequentare feste e ritrovi, ma di rado era in compagnia di Berculli. Se si manteneva in vista era per abitudine, e nel suo comportamento ormai traspariva la stanchezza che lei stessa andava scoprendo. Poi era scomparsa, aveva cambiato città. Di tanto in tanto, ma molto raramente, usciva una sua lirica su qualche giornale di provincia. Erano versi tristi, di chi aveva perduto ogni speranza e si trovava davanti a un vuoto e a una solitudine che mettevano paura. Una poesia diceva: Addio è la mia ultima parola – Perduta, l’ansia della giovinezza – e i sogni e i canti. – Silenziosa crisalide in se stessa – l’anima si richiude.

* * *

Il mondo della signorina Carmen Gerlini si è ridotto a questa corsia dell’Istituto di Riposo. Lei occupa l’ultimo letto in fondo allo stanzone, di fianco all’altare. Al mattino la sveglia è sempre molto presto, d’inverno non ci si vede nemmeno, poi c’è la messa, la colazione, il riordino del letto. Chi è in grado di camminare può scendere fino al cortile, ma la Gerlini non ce la fa: i suoi 82 anni sono troppo pesanti, le hanno quasi irrigidito le gambe, le costa già fatica mettersi a sedere e tirarsi su. Quando ha finito di sistemare il letto si siede tra il suo e quello della vicina, che è inferma, e passa così le lunghe ore della giornata.
Ha i capelli bianchi e sempre scomposti, la Gerlini, e le spalle molto curve, la bocca incavata per via dei denti che sono pochi. Parla con la vicina quando questa non si lamenta per i suoi dolori. Gli argomenti sono sempre gli stessi: che è una pena stare al ricovero, che il mangiare è proprio cattivo, che se avessero avuto famiglia adesso non sarebbero in queste condizioni. Ma del suo passato la Gerlini non dice mai niente; le sarebbe anche difficile riordinare le idee, mettere nel giusto tempo gli episodi: sono passati tanti anni. Ne aveva 23 quando lasciò la casa per accompagnarsi con Antenore, quell’industriale famoso che per lei aveva lasciato la moglie. Poteva essere suo padre ma la trattava con grande generosità.
Però erano stati anni turbolenti: viaggi, liti, rappacificazioni, altre liti, poi lui la piantò e tornò con la moglie. E la gente quasi la sbeffeggiava dopo che si era data tante arie per la protezione dell’amico. Si era dovuta mettere a lavorare, poi aveva trovato un altro amante e via, di nuovo con lui, le liti e le rappacificazioni. È più facile per la Gerlini ricordare gli ultimi tempi. Cinque anni fa, quando il padrone della soffitta l’ha cacciata fuori perché non pagava l’affitto da mesi. Una donna s’è offerta di ospitarla in casa sua per qualche tempo, ma tre giorni dopo lei si è accorta che quella le aveva rubato l’unico oggetto prezioso che aveva, una collanina d’oro ricordo di sua madre. Per un mese è stata ospite del dormitorio pubblico, in mezzo alle mendicanti, senza sapere dove andare a mangiare, poi, finalmente, è potuta entrare qui, all’Istituto di Riposo.
Il pavimento della corsia è lucido, le lenzuola sono pulite, ma i vetri sono smerigliati fino all’altezza di due metri e non si può vedere fuori. Tutto il mondo finisce qui. Le suore passano leste, non si fermano mai, se non per lasciare la scodella con il brodo o il piatto con la pietanza. A volte la Gerlini non se la sente di mangiare questa roba. Le giornate sono lunghe, poi la luce diminuisce, ci sono da dire le preghiere, si mangia e ci si rimette a letto. Sempre così. La Gerlini vaga con la mente nel passato, cerca qualcuno cui attaccarsi, ma non c’è nessuno, sono morti tutti: i suoi familiari, Antenore e anche gli altri che vennero dopo. Ci deve essere, qui in città, un figlio di Antenore, ma quello è figlio di lui, se gli parlano della Gerlini non sa neanche chi sia.

lunedì 4 maggio 2015

Un bell'orologio

Ne ricordo la marca: Eberhard. Era l'orologio dei miei 18 anni. Mi piaceva tanto che lo portavo anche a letto. Ma quella notte del maggio ’39 non dormivo nel mio letto: ero steso sul selciato della stazione di Benevento, con altri, una ventina, tutti vestiti con la divisa da avieri, quali eravamo da poche ore; divisa nuova, magari con le scarpe strette o larghe. Aspettavamo il treno che ci avrebbe portati ad Ascoli Piceno, la sede cui eravamo destinati. In mezzo a quell’ammasso di corpi alla rinfusa le russate si rincorrevano, ognuno nascondeva il proprio sogno. Io avevo vinto qualcosa, mi proclamavano vincitore e mi tiravano in alto il polso sinistro per far vedere che ero proprio io. Poi venne l’alba, venne anche il treno. Salimmo. Che ora era? Mi resi conto che non potevo saperlo: il mio bell’orologio dov’era finito? Ecco perché avevo sognato d’aver vinto. No: avevo perso, mi avevano derubato.


* * *

Poche estati fa, gran caldo, con la giacca aperta, sono a uno sportello postale e sto pagando una bolletta. Mi si affianca un uomo con un giornale in mano, me lo mostra poi incomincia a scuoterlo dicendo parole che stento a capire. Ma insomma cosa vuole costui, vada al diavolo. Ritiro la ricevuta che mi rilascia l’impiegata e lascio il posto a un altro cliente. Lo scocciatore se ne è già andato. Due minuti dopo, in macchina, mi accorgo che il portafoglio non ce l’ho più.


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Ancora estate. Arriviamo a casa a metà giornata. Noi entriamo davanti e loro fuggono dal di dietro: non li vediamo ma li sentiamo. Hanno, non solo aperta, ma divelta la cassaforte, Sono venuti senza attrezzi, si sono serviti dei nostri, come la mazza, presa in garage. A noi sono servite ore per controllare tutto e rilevare i danni, ingenti.