lunedì 18 maggio 2015

L'aquilone

La villa sorgeva a fianco di una via stretta tra due siepi e bianca di polvere sulla quale di rado passava gente perché dava accesso, oltre a questa costruzione, a un'unica cascina che era cento metri più avanti. Vi transitavano qualche volta i contadini, con l'auto per andare in paese, o con il trattore che trainava un carro per raggiungere i campi al di là della strada provinciale sulla quale sfociava. La villa dava ben poco movimento e solo d'estate, quand'era abitata: il cancello, comandato elettronicamente, s'apriva al mattino per far passare la macchina dell'avvocato che andava in città, al lavoro, e tornava ad aprirsi la sera al suo rientro. Per Roberto, che aveva cinque anni, l'uscita e l'arrivo della macchina del padre erano due avvenimenti importanti della giornata: al mattino assisteva alla partenza per vedere la polvere che si sollevava dietro le ruote; e rimaneva a lungo a guardare oltre le sbarre del cancello la nuvola bianca che a poco a poco si diradava. La sera attendeva sullo spiazzo davanti a casa con l'orecchio attento al rombo del motore dell'auto. E quando il padre scendeva gli si gettava fra le braccia con gridolini di gioia.
Le giornate di Roberto erano lunghissime e solitarie. In casa c'era sua madre, ma stava quasi sempre chiusa in camera: non riusciva a riprendersi dal dolore per la perdita del secondo figlio, più giovane di un anno, che era morto tre mesi prima, dopo una malattia durata pochi giorni. La famiglia si era trasferita in campagna tre settimane dopo il funerale; l'avvocato sperava che l'ambiente diverso aiutasse la moglie a superare quel periodo di angoscia, ma ogni sera, al ritorno, la ritrovava sempre uguale.
Ad alleviare il senso di vuoto che pesava intorno a Roberto c'era, fortunatamente, Luciano, uno dei figli del contadino. Aveva otto anni e arrivava nel giardino passando attraverso i campi e poi varcando un cancelletto tenuto chiuso soltanto con un gancio di ferro. Luciano si intratteneva anche due o tre ore, a volte sia al mattino che al pomeriggio. I due bambini trascorrevano il loro tempo perlustrando ogni angolo dell'area intorno alla villa, delimitata da una rete metallica e nella quale si alternavano spazi erbosi, aiuole di fiori e gruppi arborei. Conoscevano gli alberi con i nidi di uccelli, i formicai, le tane delle talpe, i punti in cui cresceva l'ortica, sapevano in quali ore del giorno gli uccellini portavano il cibo ai loro piccoli, in quali momenti le formiche uscivano in fila indiana a percorrere il dedalo delle loro strade in cerca di cibo.
Oltre la rete c'era la campagna: una fascia di prati larga forse duecento metri, piatta, verde, invitante; e oltre i prati il pioppeto, come una muraglia grigia alla base e verde scuro in alto, stagliata contro il cielo. Roberto non era mai andato fino al pioppeto. Sua madre non gli aveva mai permesso di passare al di là del recinto, eccetto una volta, l'estate precedente, quando gli aveva consentito di andare con Luciano a raccogliere papaveri nel prato, ma lei lo aveva sorvegliato in continuazione appoggiandosi alla rete con le mani. In questa estate, sempre chiusa nel suo dolore, non lo controllava con lo sguardo, si limitava a fargli delle raccomandazioni generiche quando usciva dalla villa:
«Fai a modo, non ti sporcare, non ti allontanare».
Roberto avvertiva questo mutamento nel carattere della madre e intuiva che era legato alla scomparsa del fratellino; la maggiore libertà di cui godeva gli pesava con una sensazione sgradevole di tristezza. Solo la presenza di Luciano gli cancellava queste ombre scure ridando serenità al suo animo. Luciano, invece, che già da solo camminava per la campagna, era stato nel pioppeto più di una volta con il padre, a controllare la crescita dei pioppi. E quelle sue visite raccontava all'amico descrivendo particolari in parte reali e in parte fantasiosi, sicché Roberto, che ascoltava affascinato, si faceva l'idea che la barriera del pioppeto fosse il limite di un altro mondo, lontanissimo, irraggiungibile, meraviglioso.
Un giorno i due bambini scoprirono un gioco nuovo: l'aquilone. Su un giornalino per ragazzi ne avevano visto uno disegnato e Luciano aveva anche letto le istruzioni per costruirlo. Si erano messi sulla ghiaietta davanti alla villa, con un pacco di giornali e una boccetta di colla. A sera, quando il cancello si era aperto per lasciare entrare la macchina dell'avvocato, erano ancora intenti al loro lavoro, stavano per ultimare la coda. Il padre di Roberto portò l'auto in garage poi andò vicino ai due bimbi e si mise a ridere. Disse che quel congegno non avrebbe mai volato, la carta era troppo fragile e poi doveva essere sorretto da leggere cannucce, la coda andava costruita a catena, con tanti anelli uno dentro l'altro. I bambini erano rimasti mortificati, Roberto stava per piangere. Suo padre l'aveva accarezzato:
«Domani sera», aveva detto, «porterò a casa la carta e il filo che vanno bene e poi dopodomani, che è sabato, io stesso vi costruirò l'aquilone».
Il venerdì era stata una giornata ancora più lunga delle altre, interminabile per Roberto. Alla fine l'avvocato era tornato e non si era dimenticato della carta e delle altre cose necessarie. La carta era rossa, sottile e dura, che a toccarla con le dita faceva un rumore secco. Roberto aveva battuto le mani per la gioia; la sera era andato a dormire presto, come se, in tal modo, avesse potuto anticipare l'arrivo del mattino destinato alla costruzione dell'aquilone. E invece s'era svegliato tardi, quando il sole era già alto da tempo, e uscendo nello spiazzo dietro la casa aveva trovato il padre già avanti nel lavoro, assistito da Luciano. Stava nascendo la coda, fatta con la stessa carta, rossa e rigida: gli anelli partivano dai due angoli di fondo dell'aquilone in due segmenti di catena che si congiungevano a un mezzo metro di distanza e poi ancora continuavano con un tratto unico e centrale di pari lunghezza. Nel corpo dell'aquilone, tra i due strati di carta sovrapposti, si intravedevano i due pezzi di canna ad X che costituivano la sua ossatura. Roberto guardava incantato nascere il giocattolo, ogni tanto chiedeva:
«Sei sicuro, babbo, che volerà? E andrà molto in alto?»
«Se ci sarà un po' di vento volerà» rispondeva suo padre; «e volerà alto, perché ho un lungo gomitolo di filo».
Finalmente l'aquilone fu pronto. «Andiamo nel prato» disse l'avvocato, «là potremo correre senza inciampi». I bambini l'aiutarono a portare l'aquilone: lo reggevano con mani delicate come se fosse qualcosa di estremamente prezioso. Varcarono il piccolo cancello che dava sui campi. La distesa verde si allargava tutt'attorno, chiusa, in fondo, dal giro chiaro e verde scuro del pioppeto. Roberto lanciò alcune piccole grida di gioia e batté i piedi non potendo battere le mani impegnate.
«Adesso vola» gridò. «Che bello!»
Il padre srotolò qualche metro di filo poi, tenendo il gomitolo in mano, si mise a correre, subito seguito dai bambini. L'aquilone dapprima strisciò a terra, poi, per un urto contro una asperità, fece un balzo, s'impennò, s'alzò di un metro, andò avanti così per un poco; e intanto l'avvocato continuava a correre e i bambini lo seguivano. L'aquilone si alzava di più, i bimbi dovevano girare la testa verso l'alto per tenerlo d'occhio. Ecco, saliva, saliva e l'avvocato continuava a srotolare il gomitolo, a concedergli filo.
Ora l'avvocato aveva rallentato la corsa, andava quasi al passo e l'aquilone continuava a stare alto e ad ondeggiare lieve al soffio del vento.
«Come è bello» esclamava Roberto, «come è bello!» Luciano si fece vicino all'avvocato, alzò la mano:
«Io» disse, «lo faccio andare io». L'avvocato gli passò l'estremità della corda. Il ragazzino l'afferrò, ma solo per un attimo: subito gli sfuggì ed egli si fermò, immobile, con il braccio ancora teso in alto.
«Cos'hai fatto!?» gridò l'avvocato. Roberto non si era reso conto, sul momento, di quello che era accaduto. Restava stupito a guardare l'aquilone che sempre saliva e diventava piccolo, ancora più piccolo. Lo capì tutt'a un tratto e si mise a piangere, disperato. Suo padre lo prese in braccio, s'avviò verso il cancello che riportava alla villa.
«Te ne farò un altro».
«No, io voglio quello».
«Quello non si può avere».
«Perché, dov'è andato?»
«È andato in cielo, in paradiso». Il bambino smise di piangere, chiese ancora: «In paradiso, dove c'è il mio fratellino?»
«Sì, è andato da Ginetto, Ginetto giocherà con il tuo aquilone».
L'avvocato si era seduto su una panchina, a fianco di una aiuola di viole. Il bimbo stava in abbandono fra le sue braccia, con la testa appoggiata alla sua spalla. Taceva. Ricordava il fratellino, l'agitazione che c'era in casa nei giorni della sua malattia, il medico, un uomo alto e sottile con una borsa sempre in mano, che veniva anche due o tre volte nella stessa giornata, i pianti della madre. Poi, una sera. Ginetto, avvolto in una coperta, era stato portato via con un'ambulanza. Ma il giorno dopo la mamma, tornata dall'ospedale, lo aveva abbracciato a lungo, stretto stretto, e poi si era messa a piangere. Tra i singhiozzi diceva: «È morto, Ginetto è morto».
«Come farà, Ginetto, a giocare con l'aquilone?» chiese il bambino girandosi a guardare il padre. Lui volse gli occhi in alto:
«Ginetto è leggero, bello, candido» disse lentamente, scandendo le parole: «nel cielo volerà fra le nuvole e gli angeli, tenendo con la manina il filo e l'aquilone lo seguirà ovunque egli vorrà». Roberto era lontano, ora, dal pianto. Disse:
«Se è vero che l'aquilone è andato in paradiso da Ginetto, sono contento». Quella sera il bambino si addormentò pensando alla morte, era una cosa bella, lieve, luminosa; e continuò a sognare aquiloni che volavano fra angeli e nubi candide, trasparenti. Nel profondo sonno il bambino non sentiva il temporale che si stava abbattendo con scrosci d'acqua e fulmini sulla campagna.


Due giorni dopo, nel pomeriggio, in giardino, Luciano lo chiamò in disparte, dietro una quercia, come se dovesse ordire un complotto. E infatti doveva proporgli qualcosa di illecito. Disse:
«Mio padre ha raccontato che il pioppeto è allagato: la pioggia dell'altra notte s'è fermata a terra, ha coperto l'erba, le piante sembra che nascano dal mare». Esitò un momento poi propose, con decisione: «Andiamo a vedere». Roberto sporse la testa oltre il tronco per guardare verso la villa. Luciano fu pronto a trattenerlo: «Non ci pensare, a tua madre, facciamo una corsa e poi torniamo». Il bambino si sentì battere il cuore con violenza, per l'emozione: il pioppeto era un sogno mai raggiunto; ed ora le piante nascevano dall'acqua, uno spettacolo ancora più attraente. Disse:
«Sì, vengo». Partirono di corsa, superarono il cancelletto, furono nei prati. I loro piedi quasi affondavano nel terreno molle, l'erba era fradicia e qua e là c'erano invisibili pozzanghere d'acqua che schizzava in alto, sui loro corpi, sotto la pressione dei piedi in corsa. Ma ormai avevano deciso e sarebbero andati fin alla mèta.
La barriera dei pioppi si avvicinava, il grigio dei tronchi diventava più chiaro, anche il verde delle fronde era meno scuro. I pioppi erano alti, Roberto non immaginava che fossero tanto alti; più si avvicinava, più li vedeva diventare alti. Ormai distavano poche decine di metri. Ecco, già si vedeva il luccicare dell'acqua. I due bambini si fermarono, ansanti, ad ammirare la scena, poi ripresero a camminare, adagio. I piedi affondavano sempre più nel fango che sotto le scarpe gemeva in suoni spenti. Il lago incominciava un po' oltre i primi pioppi. I bambini avanzarono ancora, cauti. A un tratto Luciano gridò:
«Guarda» e puntò il dito da una parte.
A terra, proprio sul limitare dell'allagamento, in parte intriso di fango e in parte coperto dall'acqua, stava l'aquilone. Era ancora rosso, ma strappato, accartocciato, sporco: un brandello di catena della coda galleggiava sull'acqua. Roberto era rimasto immobile, non sapeva staccare gli occhi da quei miseri resti. A Luciano, che lo guardava stupito, disse:
«Ma allora non è andato in paradiso?» Volse gli occhi intorno, gli sembrava che dovesse esserci, di fianco a qualche pioppo, nel fango, anche il corpo di suo fratello. Si mise a piangere, a dirotto.





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