domenica 15 dicembre 2013

Sulla portaerei


Maggio 1976. Sono in volo su un turboelica Grumman della marina statunitense, per una visita alla portaerei Saratoga che naviga nel Tirreno, a nord della Sicilia. L’aereo ha i sedili rivolti verso la coda. I passeggeri sono una dozzina, giornalisti e ufficiali danesi della Nato che vanno sulla Saratoga per servizio. Tutti con giubbotto salvagente, casco in testa, cuffie alle orecchie perché l’insonorizzazione è inesistente e il rombo fortissimo, spalle bloccate da cinghie strettissime. Un soldato spiega come si fa a sganciare i portelli di sicurezza se l’aereo finisce in mare e quale leva c’è da tirare se cade con la carlinga rovesciata. Il giubbotto è gonfiabile tirando un certo cordoncino e se non si gonfia c’è il tubetto da infilare in bocca per soffiare. Nel caso si finisca in mare, una pila a contatto dell’acqua salata alimenterà una lampada che di notte segnalerà la presenza dei naufraghi, per di più una polvere colorerà la zona per renderla più visibile ai soccorritori, quindi… un viaggio di tutta tranquillità. Un soldato agiterà un braccio quando l’aereo starà per toccare il ponte, perché i passeggeri possano essere preparati alla brusca frenata dell’apparecchio bloccato da uno degli elastici. Ora il braccio segna e io, che sono vicino a uno dei pochi oblò, vedo l’acqua, poi il ponte della portaerei, ma appena per un secondo, e di nuovo l’acqua. Non è successo niente, siamo ancora in aria. O meglio, è successo che il pilota ha mancato l’appontaggio, non è riuscito a farsi agganciare da uno dei quattro elastici. Un giro largo nel cielo e la Saratoga appare lontana in un disco di mare. Poi un nuovo tentativo e, di colpo, mi sento schiacciare contro lo schienale. L’aereo va al parcheggio e ripiega le ali. Scendiamo.

Eccola la Saratoga: 80 mila tonnellate che corrono sull’acqua a 60 chilometri all’ora, lunghezza 320 metri, larghezza 81, e il radar che è all’estremità dell’albero è alto come un palazzo di 23 piani. Sul ponte una grande quantità di aeroplani, rombi e sibili si incrociano, taluni velivoli si spostano autonomamente, altri sono trainati ; e intorno un andare e venire di uomini in tute e scafandri, vampate di calore e di odori acri spazzano il ponte, s’alternano alle brezze purificatrici. Il gruppo viene accompagnato giù in un hangar sotto il ponte per un’occhiata a vedere decine di aerei allineati gomito a gomito (sono 90 di quattro tipi, compresi i Phantom capaci di una velocità due volte e mezza quella del suono), e poi davanti a un televisore per vedere la registrazione dell’appontaggio del Grumman.

Uno spuntino perché è mezzogiorno, quindi sulla torre ad ammirare la fantasmagoria delle partenze e degli arrivi. A prua si vedono le catapulte per il decollo, da poppa e fin oltre la metà della nave e protesa verso la parte estera sinistra c’è la pista di atterraggio. Ogni 90 secondi si può avere un decollo e mentre un aereo parte un altro può arrivare. La catapulta consiste in un gancio che traina il velivolo per una sessantina di metri con una irruenza tale che quando lo lascia gli ha impresso la velocità di 200 chilometri sicché può proseguire con i suoi motori. Ricordo la Saratoga come un mostro di grande bellezza e fascino. E ricordo anche la partenza, di nuovo sul Grumman: uno strappo che mi aveva mozzato il respiro.

mercoledì 4 dicembre 2013

Terremotati


Balvano, Irpinia, notte tra il 23 e il 24 novembre 1980, da dodici ore il terremoto ha distrutto decine di paesi. Facendo strage di vite, abbattendo tutti gli edifici per chilometri. Una voce fa un lamento continuo che continuerà fino al giorno dopo senza che nessuno abbia potuto raggiungere il povero corpo per potergli dare la salvezza. Giorni di desolazione, di orrori: la macchina dei soccorsi e degli aiuti stenta ad avviarsi e a mano a mano che si rimuovono le macerie il numero dei morti aumenta. I superstiti, senza più un tetto, iniziano la vita grama delle tendopoli destinata a durare anche anni: e intanto fa freddo e piove, ci si muove nel fango. Ancora adesso se ripenso al mio compleanno dei sessanta che scadeva in quei giorni, mi torna in mente quella voce lamentosa come un filo incandescente, e un viso di ragazzo che si affaccia sotto la pioggia nella fessura di un tenda.