domenica 8 maggio 2016

Ca-125

Guardavo occhieggiare le vampate rosse del fuoco, nel buio della sera, in fondo al giardino. Bruciavano le foglie secche che Luigi aveva rastrellato per fare pulizia nel prato. Ma con le foglie bruciava anche quella grande custodia azzurra gonfia di cartelle cliniche, tabulati, lastre, ricette. Era rimasta per mesi nascosta in un armadio nella camera degli ospiti. In casa non c'era, non doveva esserci. Tutto quel materiale – per lei – era rimasto in clinica o nello studio di qualche specialista: lei non doveva vederlo, perché sapevamo, mio figlio e io, che non voleva conoscere la verità. E in quella cartella azzurra la verità c'era, drammatica, inesorabile, con il nome preciso di una malattia e una sigla, Ca-125. Sigla che, ad ogni esame di laboratorio, il nostro occhio correva a cercare per sapere come procedeva l'evoluzione distruttiva della quale era l'indicatore specifico.
Per lei la malattia, come le era stato spiegato, era un malanno di poco conto, però noioso per l'incapacità del sistema immunitario di farvi fronte. Istintivamente non cercava di approfondire: lei, che grazie anche alla sua cultura scientifica aveva sempre avuto doti intuitive in campo medico, si adagiava alle spiegazioni di ripiego. Si limitava a lamentarsi per il protrarsi delle cure e per l'inarrivabile giorno della guarigione.
Per noi che sapevamo, al dolore e all'angoscia si aggiungeva un senso di colpa, a causa del segreto che dovevamo custodire e dell'impossibilità di sovvertire l'infausto corso degli eventi. Sentivamo quell'impotenza come un tradimento. Ci affannavamo consultando specialisti in città e altrove, i migliori, ma ne avevamo sempre risposte senza speranza. Disarmati, con l'animo immerso nell'angoscia, dovevamo avere l'aria non preoccupata, cercare di parlare di tutto, anche di cose insignificanti, e del futuro, con la consueta sicurezza, come quando si era ignari. Costava una fatica terribile. Sentivamo il peso schiacciante della conoscenza dell'imminente futuro. Ci si rendeva conto di quanto l'uomo sia fortunato a non sapere che cosa gli accadrà domani.


Cercavo di evitare di parlare del passato: temevo di essere travolto dalla commozione e di scoppiare in pianto. Perché in ogni momento il nostro passato mi era sempre nella mente: tutta la nostra unione, la nostra vita insieme che era stata armoniosa e felice, mi si svolgeva davanti agli occhi della memoria come un film. Parlavo delle cose più varie del momento, la casa, le nipoti, l'automobile, il cane, la spesa e intanto mi ricordavo di immagini, scene, attimi lontani cui da anni non pensavo. Mi sembrava di estrarli, senza intenzione, automaticamente, da una sacco magico che nemmeno sapevo più di avere e che sentivo ricco, pieno. Ogni rievocazione mi dava una gioia e al tempo stesso una tristezza, uno struggimento, una commozione infiniti. E di notte, solo nella mia camera, in lunghe ore di insonnia, in genere a partire dalle tre o dalle quattro, questo film del nostro passato mi girava in continuazione davanti agli occhi del ricordo. Rivedevo noi entrambi giovani, lei bellissima e di una vitalità esuberante, gli slanci, l'amore, il senso del dovere, la bravura nell'insegnamento, nella pittura, nella poesia, i riconoscimenti, i premi. Mi risuonavano all'orecchio versi: "Quando mi porti sulla bicicletta / incontro alle immagini verdi / dei campi e la tua bocca al mio orecchio / si adagia / e dici parole nel vento d'estate, / oh, allora / come sento di vivere calda / fra le tue braccia calde. / Come la morte è lontana!". E poi la famiglia, il figlio, la casa, la gioia delle nipoti. Ancora versi, questi per Elisabetta, la prima: "Ricorderai di me queste vecchie / mani che tentano una carezza? / Questo sguardo che segue lento / il tuo agile corpo nel sole? / Le mie parole sussurrate / nel brusio del motore / quando ti porto a scuola? / Le mie parole, le mie parole / ti possano rimanere. E la mia voce / che sappia risorgere nel tuo cuore, / se mai sarai sola, un giorno". E ancora: "Mi si chiude il cielo / se il tuo piccolo passo / non scende le scale / e il tuo grido di gioco / non mi rincorre. / Le ore vedo passare / come immobile vecchio / che attende una rondine / nel suo lungo inverno".
Queste rievocazioni di lei, di noi, del nostro mondo erano un misto di dolore e di gioia: lacerazioni e lenimento, ma si concludevano quasi sempre nel pianto. Poi, stremato, m'addormentavo quando ormai era l'ora d'alzarsi. Bisognava affrontare un'altra giornata, difficile come tutte, piena di timori e di cautele, senza un barlume di speranza.
Nessuno in casa citava mai i nomi di quella malattia, nelle sue varie forme. Se l'argomento si affacciava alla Tv, con una scusa si cambiava canale e nessuno, neanche lei, protestava. Altrettanto con il giornale, si era svelti a voltar pagina in vista di un titolo scabroso. Aleggiava sempre su di noi questa cappa opprimente del dolore per la nostra consapevolezza e del timore che qualcosa o qualcuno potesse infrangere l'equilbrio fragilissimo che manteneva lei nell'incoscienza del reale e su un'onda tenue della speranza. Ma non v'è dubbio che doveva vivere una continua battaglia tra conscio e inconscio, tra quello che sapeva o intuiva e quello che temeva e non voleva sapere.
Una volta sola aveva perduto il controllo di quel suo fragile equilibrio tra il sapere e il non sapere. Era d'estate, due anni prima della sua ultima estate. Eravamo in montagna, soli, distesi su una coperta in mezzo a un prato, ad abbronzarci. Di fianco a noi qualche indumento, la sua borsetta, un libro, il giornale che avevo comperato uscendo dal paese e non avevamo ancora guardato; ma io, buttandolo sui sedili posteriori dell'auto, avevo fatto in tempo a scorgere un grosso titolo in prima pagina: la morte di un signora, notissima manager di un ente privato. Non mi decidevo a prendere in mano il giornale per non dover dire che era morta quella signora, che anche lei conosceva di fama; perché avrei pur dovuto parlarne in quanto il silenzio, di fronte a una simile notizia, sarebbe risultato ancora più falso e imbarazzante.
Fu lei che a un tratto si sedette e lo aprì. Fu la prima cosa che lesse e subito urlò e si mise a piangere gridando «anch'io, anch'io, sono malata così anch'io, dovrò morire, morire, morire...» e piangeva disperata. L'abbracciai, la strinsi forte, mi sentii il petto bagnato dalle sue lacrime. Pure io avrei voluto abbandonarmi, ma dovevo assolutamente aiutarla, difenderla, dovevo ribadire la tesi detta tante volte, che la sua non era una di quelle malattie anche se certe cure potevano farlo pensare. E via di questo passo, arrampicato sui vetri del convincimento, della persuasione, sempre più lisci, improponibili.
Passavano i mesi e la guarigione non arrivava, anzi, le condizioni si aggravavano. A volte, quando sentiva avanzare il peggioramento, veniva alle prime luci dell'alba a sedersi in una poltrona a fianco del mio letto, mi guardava con occhi nei quali c'era angoscia e terrore, mi chiamava con voce implorante e mi chiedeva: «Come andrà a finire? Come andrà a finire?» Quant'era difficile dover sostenere ancora una volta le solite bugie, dover fingere che sarebbe andata a finire bene e non poterla invece abbracciare, gridare il suo nome, Else, Else, amore mio, e piangere con lei senza ritegno.
Finalmente fuori casa, in auto, solo, potevo lasciare esplodere il dolore e scoppiavo in pianto, navigavo nel traffico con gli occhi pieni di lacrime. Faticosamente, con molti rischi, arrivavo ai semafori dove potevo asciugarmi e soffiarmi il naso. Allora m'accorgevo d'avere intorno a me, al di là di altri finestrini, sguardi stupiti. Ma per me era uno sfogo indispensabile; solo così, rincasando, potevo continuare la mia difficile, penosa finzione.


Guardavo il rosso di quel fuoco, nel buio della sera. Era l'inizio d'autunno, il primo autunno senza di lei. Bruciavano le foglie secche e anche la cartella con tutto il suo percorso del male. Avevamo esitato a lungo, mio figlio ed io, su quelle lastre, quelle sigle. Non potevamo far altro che constatare che erano la testimonianza della sconfitta nostra e dei medici che se ne erano occupati. Se i grafici e i risultati che via via si allineavano sui fogli e nel tempo avessero portato ad una miracolosa vittoria, avremmo dovuto, allora sì, conservare ogni pezzetto di carta, ogni piccolo passo verso la mèta finale. Così no. E avevamo affidato la cartella all'uomo delle foglie. Mi sembrava che anche lei approvasse e fosse grata di quel fuoco.