Guardavo occhieggiare le
vampate rosse del fuoco, nel buio della sera, in fondo al giardino.
Bruciavano le foglie secche che Luigi aveva rastrellato per fare
pulizia nel prato. Ma con le foglie bruciava anche quella grande
custodia azzurra gonfia di cartelle cliniche, tabulati, lastre,
ricette. Era rimasta per mesi nascosta in un armadio nella camera
degli ospiti. In casa non c'era, non doveva esserci. Tutto quel
materiale – per lei – era rimasto in clinica o nello studio di
qualche specialista: lei non doveva vederlo, perché sapevamo, mio
figlio e io, che non voleva conoscere la verità. E in quella
cartella azzurra la verità c'era, drammatica, inesorabile, con il
nome preciso di una malattia e una sigla, Ca-125. Sigla che, ad ogni
esame di laboratorio, il nostro occhio correva a cercare per sapere
come procedeva l'evoluzione distruttiva della quale era l'indicatore
specifico.
Per lei la malattia, come
le era stato spiegato, era un malanno di poco conto, però noioso per
l'incapacità del sistema immunitario di farvi fronte. Istintivamente
non cercava di approfondire: lei, che grazie anche alla sua cultura
scientifica aveva sempre avuto doti intuitive in campo medico, si
adagiava alle spiegazioni di ripiego. Si limitava a lamentarsi per
il protrarsi delle cure e per l'inarrivabile giorno della guarigione.
Per noi che sapevamo, al
dolore e all'angoscia si aggiungeva un senso di colpa, a causa del
segreto che dovevamo custodire e dell'impossibilità di sovvertire
l'infausto corso degli eventi. Sentivamo quell'impotenza come un
tradimento. Ci affannavamo consultando specialisti in città e
altrove, i migliori, ma ne avevamo sempre risposte senza speranza.
Disarmati, con l'animo immerso nell'angoscia, dovevamo avere l'aria
non preoccupata, cercare di parlare di tutto, anche di cose
insignificanti, e del futuro, con la consueta sicurezza, come quando
si era ignari. Costava una fatica terribile. Sentivamo il peso
schiacciante della conoscenza dell'imminente futuro. Ci si rendeva
conto di quanto l'uomo sia fortunato a non sapere che cosa gli
accadrà domani.
Cercavo di evitare di
parlare del passato: temevo di essere travolto dalla commozione e di
scoppiare in pianto. Perché in ogni momento il nostro passato mi era
sempre nella mente: tutta la nostra unione, la nostra vita insieme
che era stata armoniosa e felice, mi si svolgeva davanti agli occhi
della memoria come un film. Parlavo delle cose più varie del
momento, la casa, le nipoti, l'automobile, il cane, la spesa e
intanto mi ricordavo di immagini, scene, attimi lontani cui da anni
non pensavo. Mi sembrava di estrarli, senza intenzione,
automaticamente, da una sacco magico che nemmeno sapevo più di avere
e che sentivo ricco, pieno. Ogni rievocazione mi dava una gioia e al
tempo stesso una tristezza, uno struggimento, una commozione
infiniti. E di notte, solo nella mia camera, in lunghe ore di
insonnia, in genere a partire dalle tre o dalle quattro, questo film
del nostro passato mi girava in continuazione davanti agli occhi del
ricordo. Rivedevo noi entrambi giovani, lei bellissima e di una
vitalità esuberante, gli slanci, l'amore, il senso del dovere, la
bravura nell'insegnamento, nella pittura, nella poesia, i
riconoscimenti, i premi. Mi risuonavano all'orecchio versi: "Quando
mi porti sulla bicicletta / incontro alle immagini verdi / dei campi
e la tua bocca al mio orecchio / si adagia / e dici parole nel vento
d'estate, / oh, allora / come sento di vivere calda / fra le tue
braccia calde. / Come la morte è lontana!". E poi la
famiglia, il figlio, la casa, la gioia delle nipoti. Ancora versi,
questi per Elisabetta, la prima: "Ricorderai di me queste
vecchie / mani che tentano una carezza? / Questo sguardo che segue
lento / il tuo agile corpo nel sole? / Le mie parole sussurrate / nel
brusio del motore / quando ti porto a scuola? / Le mie parole, le mie
parole / ti possano rimanere. E la mia voce / che sappia risorgere
nel tuo cuore, / se mai sarai sola, un giorno". E ancora:
"Mi si chiude il cielo / se il tuo piccolo passo / non scende
le scale / e il tuo grido di gioco / non mi rincorre. / Le ore vedo
passare / come immobile vecchio / che attende una rondine / nel suo
lungo inverno".
Queste rievocazioni di
lei, di noi, del nostro mondo erano un misto di dolore e di gioia:
lacerazioni e lenimento, ma si concludevano quasi sempre nel pianto.
Poi, stremato, m'addormentavo quando ormai era l'ora d'alzarsi.
Bisognava affrontare un'altra giornata, difficile come tutte, piena
di timori e di cautele, senza un barlume di speranza.
Nessuno in casa citava
mai i nomi di quella malattia, nelle sue varie forme. Se
l'argomento si affacciava alla Tv, con una scusa si cambiava canale e
nessuno, neanche lei, protestava. Altrettanto con il giornale, si era
svelti a voltar pagina in vista di un titolo scabroso. Aleggiava
sempre su di noi questa cappa opprimente del dolore per la nostra
consapevolezza e del timore che qualcosa o qualcuno potesse
infrangere l'equilbrio fragilissimo che manteneva lei
nell'incoscienza del reale e su un'onda tenue della speranza. Ma non
v'è dubbio che doveva vivere una continua battaglia tra conscio e
inconscio, tra quello che sapeva o intuiva e quello che temeva e non
voleva sapere.
Una volta sola aveva
perduto il controllo di quel suo fragile equilibrio tra il sapere e
il non sapere. Era d'estate, due anni prima della sua ultima estate.
Eravamo in montagna, soli, distesi su una coperta in mezzo a un
prato, ad abbronzarci. Di fianco a noi qualche indumento, la sua
borsetta, un libro, il giornale che avevo comperato uscendo dal paese
e non avevamo ancora guardato; ma io, buttandolo sui sedili
posteriori dell'auto, avevo fatto in tempo a scorgere un grosso
titolo in prima pagina: la morte di un signora, notissima manager di
un ente privato. Non mi decidevo a prendere in mano il giornale per
non dover dire che era morta quella signora, che anche lei conosceva
di fama; perché avrei pur dovuto parlarne in quanto il silenzio, di
fronte a una simile notizia, sarebbe risultato ancora più falso e
imbarazzante.
Fu lei che a un tratto si
sedette e lo aprì. Fu la prima cosa che lesse e subito urlò e si
mise a piangere gridando «anch'io, anch'io, sono malata così
anch'io, dovrò morire, morire, morire...» e piangeva disperata.
L'abbracciai, la strinsi forte, mi sentii il petto bagnato dalle sue
lacrime. Pure io avrei voluto abbandonarmi, ma dovevo assolutamente
aiutarla, difenderla, dovevo ribadire la tesi detta tante volte, che
la sua non era una di quelle malattie anche se certe cure potevano
farlo pensare. E via di questo passo, arrampicato sui vetri del
convincimento, della persuasione, sempre più lisci, improponibili.
Passavano i mesi e la
guarigione non arrivava, anzi, le condizioni si aggravavano. A volte,
quando sentiva avanzare il peggioramento, veniva alle prime luci
dell'alba a sedersi in una poltrona a fianco del mio letto, mi
guardava con occhi nei quali c'era angoscia e terrore, mi chiamava
con voce implorante e mi chiedeva: «Come andrà a finire? Come
andrà a finire?» Quant'era difficile dover sostenere ancora una
volta le solite bugie, dover fingere che sarebbe andata a finire bene
e non poterla invece abbracciare, gridare il suo nome, Else, Else,
amore mio, e piangere con lei senza ritegno.
Finalmente fuori casa, in
auto, solo, potevo lasciare esplodere il dolore e scoppiavo in
pianto, navigavo nel traffico con gli occhi pieni di lacrime.
Faticosamente, con molti rischi, arrivavo ai semafori dove potevo
asciugarmi e soffiarmi il naso. Allora m'accorgevo d'avere intorno a
me, al di là di altri finestrini, sguardi stupiti. Ma per me era uno
sfogo indispensabile; solo così, rincasando, potevo continuare la
mia difficile, penosa finzione.
Guardavo il rosso di quel
fuoco, nel buio della sera. Era l'inizio d'autunno, il primo autunno
senza di lei. Bruciavano le foglie secche e anche la cartella con
tutto il suo percorso del male. Avevamo esitato a lungo, mio figlio
ed io, su quelle lastre, quelle sigle. Non potevamo far altro che
constatare che erano la testimonianza della sconfitta nostra e dei
medici che se ne erano occupati. Se i grafici e i risultati che via
via si allineavano sui fogli e nel tempo avessero portato ad una
miracolosa vittoria, avremmo dovuto, allora sì, conservare ogni
pezzetto di carta, ogni piccolo passo verso la mèta finale. Così
no. E avevamo affidato la cartella all'uomo delle foglie. Mi sembrava
che anche lei approvasse e fosse grata di quel fuoco.